Il ricorso alla punizione nei riguardi dei giovani (così come degli adulti) investe tutte le società e le organizzazioni perché è necessariamente presente laddove sono prefissate delle regole.
Nei confronti dei minori oggi assistiamo a frequenti oscillazioni che spaziano dal lassismo più sfrenato all’autoritarismo più conservatore, sia in seno alle famiglie così come nel più vasto tessuto sociale.
Naturalmente ben conosciamo il danno che entrambe queste posizioni estreme possono arrecare: il lassismo dimissionario, il cosiddetto “lasciar fare”, forma soggetti in crescita deboli e successivi adulti scarsamente compiuti, l’autoritarismo può facilmente degenerare nella repressione, nella violenza e nel maltrattamento per arrivare a distruggere ancora una volta le capacità di maturazione dei giovani; esprime alla fine l’incapacità degli adulti di rapportarsi serenamente con le nuove generazioni.
Qual è allora l’equilibrio migliore nel porsi di fronte a soggetti in crescita che attraversano periodi di spiccata problematicità, e quando può essere davvero necessario ricorrere all’uso delle punizioni?
Un viaggio ideale all’interno della cosiddetta “rieducazione della gioventù disadattata”, come veniva ritenuta nel passato più o meno recente, ci potrebbe illuminare circa l’uso (e spesso abuso) della punizione, considerata per secoli uno dei principali strumenti ad uso di educatori desiderosi di “ricondurre il deviante sulla retta via”.
L’istituzionalizzazione dei minori divergenti
La rieducazione (altre volte definita colloquialmente “raddrizzamento”) o “educazione coatta” dei minorenni, si pose come problema educativo-sociale in tutt’Europa a partire dagli albori del 1800, quando si volle affrontare il problema della giustizia minorile e dei luoghi di reclusione per minorenni nello spirito di tolleranza o intolleranza proprio del tempo.
La linea su cui educatori, uomini di legge, politici e filantropi si mossero, fu in primis quella di tentare di conferire un’apparenza educativa a quelle che in realtà erano le carceri per minorenni, i quali appunto perché tali, non potevano essere convogliati verso le carceri propriamente dette.
E’ opportuno precisare come i giovani “corrigendi” – così come in quel periodo venivano definiti – fossero catalogabili sostanzialmente entro tre gruppi:
a) ragazzi resisi colpevoli di reati comuni ma data l’età non imputabili;
b) giovani “scapestrati” ribelli all’autorità genitoriale;
c) giovani girovaghi e dediti alla questua.
Francia, Olanda e Germania videro larga diffusione degli istituti rieducativi, anche per quanto riguarda l’Italia si ha notizia di svariate istituzioni sorte allo scopo di accogliere e rieducare minori dalla condotta deviante o considerata tale.
A titolo di esempio ricordiamo l’Istituto Botta a Bergamo, fondato nel 1816 dal sacerdote Carlo Botta, l’istituto dei derelitti di Brescia fondato nel 1854 da Luigi Apollonio, l’Istituto Manini di Cremona risalente al 1836, tutte strutture private accoglienti giovani in regime di educazione coatta inviati dal Governo.
Va considerato come elemento fondamentale come questi istituti di educazione coatta fossero connotati da un carattere quasi totalmente repressivo e punitivo, carattere che dava impronta a tutta la vita ed organizzazione interna.
I giovani minori “traviati” erano considerati come moralmente colpevoli, quindi meritevoli di pene di vario tipo oltre che giudiziarie. Spesso erano guardati come soggetti costituzionalmente anormali, individui loschi e pericolosi dai quali era necessario difendersi e tutelarsi, allontanandoli e segregandoli rispetto al resto della società “normale”.
Da questi ragazzi andavano estirpati “i germi del vizio e della corruzione” spesso ereditati dalle loro famiglie, le loro intemperanze andavano soffocate e corrette tempestivamente così da restituire alla società persone rinnovate, desiderose di lavorare e agire in modo sano. Molto spesso le case di rieducazione prevedevano un inserimento lavorativo dei ragazzi ricoverati, effettuato però sempre entro spazi totalmente distaccati dalla società civile, spazi in cui vigeva una concezione del lavoro fine a se stesso, non letto come apprendimento di un mestiere e come educazione ad uno stile di vita responsabile.
Non a caso vive critiche si sollevavano sulla scarsissima preparazione professionale dei giovani uscenti dai riformatori e non mancavano accuse di franco sfruttamento nei loro confronti. Gli istituti di accoglienza per ragazzi devianti erano sovraffollati, vi regnava la promiscuità di giovani di età diverse così come diverse erano le motivazioni di imputazione giuridica, i fattori di recidività le varie condizioni di ordine personale e via dicendo.
L’impreparazione e l’inadeguatezza del personale direttivo ed educativo la diceva lunga poi sulla salubrità di questi luoghi: i direttori provenivano spessissimo dai penitenziari per adulti e i sorveglianti erano ex guardie carcerarie che riuscivano ad assommare in sé ogni tipo di caratteristica negativa che sia possibile immaginare. Ricatti, provocazioni, umiliazioni, punizioni sadiche erano parte della prassi normale di lavoro.
Proprio sulla considerazione di queste pesantissime problematiche prese il via il dibattito che andò intensificandosi man mano che la società arrivava a prendere coscienza del problema che rivestiva l’universo della devianza minorile e soprattutto l’inadeguatezza dei mezzi utilizzati per far fronte alla stessa. Il dibattito sui riformatori si impennò anche in seguito alle considerazioni di Cesare Lombroso e della sua scuola di antropologia criminale.
Il medico veronese si era riproposto lo studio del deviante nella sua individualità biologica, nelle sue caratteristiche fisiche secondo la concezione deterministica propria del positivismo che nel suo periodo imperava. Partendo dallo studio di coloro che venivano definiti “delinquenti recidivi”, Lombroso arrivò a concludere nei confronti delle case di rieducazione sulla “pochissima utilità, pressoché tutta apparente, di tali istituzioni, erette certo con animo più benevolo che conscio della natura dell’uomo criminale” (1).
Secondo il Lombroso che stava facendosi interprete anche delle considerazioni di molte altre voci più o meno di spicco del suo tempo, l’internamento dei minorenni, a causa dei contatti che questi sperimentavano tra loro come del distacco dalla propria famiglia d’origine, invece di sortire giovamento e di costituire un’azione frenante, diveniva un fattore di moltiplicazione della delinquenza medesima.
I riformatori, secondo il Lombroso potevano anche essere accettati ma “quando vi si raccolgano pochi individui, diversi per classi, età, costumi, attitudini, moralità, con celle almeno per la notte; vorrei vi entrassero solo quelli che per la loro povertà non possono essere accolti nei collegi militari o di marina, e che ad ogni modo, se ne’ li fan ricoverare i genitori ricchi, pagassero una forte diaria proporzionata alle loro entrate. Tutti dovrebbero essere sorvegliati uno per uno, e diretti da capi e maestri veramente adatti, che se ne facessero un apostolato” (2)
Ciò di cui il Lombroso era convinto era che occorresse sfoltire la popolazione ricoverata negli istituti della rieducazione minorile, in larga misura rappresentata da giovani non costituzionalmente delinquenti ma semplici vittime di una condizione sociale fortemente depauperata. Non si vedeva motivo per cui questi fossero rinchiusi nei riformatori, ma essere casomai utilizzati in quelle che allora venivano dette “scuole industriali” o in fattorie, nonostante la soluzione migliore rimanesse quella dell’affidamento famigliare. Solo provvedendo in queste direzioni si poteva condurre una efficace azione preventiva che desse risultati apprezzabili e anche economicamente convenienti per la cosa pubblica.
Le proposte di cambiamento dovevano fare i conti con forti condizionamenti culturali e sociali che rendevano soprattutto le famiglie, i singoli e le istituzioni del tempo poco recettivi e poco inclini a comprendere quali fossero le reali esigenze dei minori in condizione di disadattamento.
Qualcosa iniziò a cambiare nei primi decenni del XX secolo, quando, sotto l’influsso soprattutto di esperienze e contributi stranieri, per lo più d’oltreoceano, si andò formando una vera e propria corrente di pensiero che iniziò a premere sul fatto che per valutare la condotta di un minore e per prendere adeguate misure nei suoi confronti, occorreva primariamente avere note le cause endogene ed esogene della devianza minorile, nei cui confronti non era sufficiente un’azione di brutale repressione ma era necessaria e preferibile un’azione di prevenzione e correzione subordinate a validi criteri educativi e intraprese previa un’azione di coinvolgimento tra magistrato competente, medico, sociologo, psicologo e pedagogista.
In Italia, il primo intervento che sottendeva questi presupposti si registrò con la creazione dell’”Istituto pedagogico forense” aperto a Milano nel 1905. Doveva passare tuttavia ancora molto tempo perché tali orientamenti venissero attuati pienamente, almeno fino alla legge del 27 Maggio 1935 contenente le norme per l’istruzione ed il funzionamento del tribunale per i minorenni, legge a cui ancor oggi si fa riferimento.
Verso un superamento della “rieducazione”
A questo punto è però legittimo domandarsi quale modello educativo possa essere scelto in virtù della sua portata di superamento nei confronti della politica meramente rieducativa così largamente diffusa nei periodi storici e nelle strutture a cui si è fatto fin qui riferimento. Individuiamo un grosso punto di forza ed una possibile risposta a questo quesito nell’attenzione rivolta alla dialettica prevenzione-promozione.
Non è possibile negare come dietro certi assunti sulla prevenzione spesso si nascondano “deliri di onnipotenza” dove l’umanità viene definitivamente liberata da qualsiasi forma di sofferenza o disagio, nell’instaurazione di una idilliaca quanto utopistica condizione generale di benessere diffuso.
Volendo declinare il discorso verso un piano di realtà dobbiamo dichiarare come il disagio non sia affatto eliminabile: elidere il disagio adolescenziale, significherebbe praticamente bloccare la crescita della persona, crescita dentro cui i vissuti di crisi sono tra gli elementi addirittura costitutivi.
Crediamo dunque che, affinchè il ricorso alla dimensione della prevenzione sia veramente efficace, occorra provvedere ad un rimodellamento della categoria stessa.
L’ambiguità del termine “prevenzione” congiuntamente alla difficoltà di definire in modo univoco i fattori rischio che possano condurre alle varie forme di devianza e disadattamento, ha suggerito a molti l’opportunità di sostituire il concetto di “prevenzione” con quello di “promozione”, che per svariati motivi appare più adeguato e verosimile. Se infatti la prima espressione rimanda ad interventi confinabili in contesti di emergenza, la seconda oltre a spazzare via ogni sorta di retaggio legato a metodi repressivi rimanda unicamente all’idea di sostenere, sollecitare, animare le risorse, incrementando il protagonismo del singolo così come l’emancipazione delle diverse soggettività.
Impostare progetti di intervento in un’ottica promozionale comporta la scelta di lavorare in contesti connotabili come “normali” più che sulla patologia conclamata, sulla popolazione giovanile ordinaria, sui bisogni attuali dei ragazzi anziché fossilizzarsi sui rischi di devianza.
Crediamo che un’efficace strategia di promozione debba innanzi tutto preoccuparsi di creare condizioni idonee per consentire al soggetto di affrontare positivamente e propositivamente quelli che sono i propri compiti di sviluppo facendo perno sui così chiamati “fattori protettivi”. (3)
I Fattori protettivi (protective factors) sono elementi che si dice possano esercitare un’azione tutelante rispetto a determinati equilibri psichici e comportamentali di un soggetto, principalmente quando egli si trovi ad attraversare situazioni e periodi connotati da forte stress. Facciamo riferimento a ricerche svolte soprattutto negli Stati Uniti tese ad identificare in gruppi di studenti “tratti, condizioni, situazioni, che appaiano alterare o anche invertire le previsioni di psicopatologia basate su situazioni ad alto rischio” .(4)
Le linee comuni ricorrenti nei fattori protettivi riguardano sostanzialmente quattro aree di competenza che possiamo così schematizzare:
– autostima: sentimento di valore personale;
– autocontrollo: capacità di controllare se stessi ed i propri impulsi;
– aspettative e prospettive ottimistiche: capacità di perseguire scopi e di cambiare;
– capacità di interazione sociale: capacità di relazionare con gli altri.
Una strategia di promozione dovrebbe dunque porsi come obiettivo primario il perseguimento di questi scopi.
Mirati e personalizzati sono gli interventi di orientamento e di counseling i quali analizzano il disagio a livello del singolo soggetto, delle sue problematiche evolutive, dei suoi eventuali handicap psicologici e sociali.
Questa metodologia di approccio si rivolge preminentemente ad adolescenti e preadolescenti che non portano una domanda francamente patologica, ma che iniziano ad accusare disagio a livello affettivo, famigliare, relazionale, scolastico o estesamente esistenziale.
Sono queste problematiche abbastanza ordinarie, molto spesso transitorie e che non indicano necessariamente esplicite situazioni patologiche ma che se non sono adeguatamente seguite possono evolvere verso disfunzioni conclamate. Il sostegno offerto dagli adulti ai ragazzi troppo spesso spazia tra il massimo di intensità terapeutica alla informale animazione nei contesti aggregazionali, si va insomma dall’eccessivo al troppo carente.
Rimane vacante lo spazio che andrebbe prioritariamente investigato e sorretto, quello dell’ascolto del malessere connaturato all’adolescenza, quel bisogno sottile di supporto ed attenzione che non riposa sulla semplice prestazione professionale ma richiede certamente di più.
Sono problemi la cui risoluzione non si configura in una cura, che non trovano nella parola il loro unico canale d’espressione, ma si palesano nel comportamento e nella comunicazione di matrice analogica. (5)
E’ quasi d’obbligo fare riferimento agli sportelli di orientamento istituiti da molti “Informagiovani” ed altri spazi di supporto e erogazione di informazione propri di molti consultori ed istituti scolastici. In questi contesti vengono portate avanti metodologie estremamente proficue che fanno capo alla cosiddetta “relazione d’aiuto”, al “gruppo non direttivo” di Rogers ed alla “psicoterapia breve di individuazione” di Senise.
Secondo Carl Rogers (6) una modificazione in senso costruttivo della personalità si può verificare quando sussistano per un certo periodo di tempo determinate condizioni giuste: la persona possiede le chiavi del suo sviluppo che l’operatore può far emergere e facilitare attraverso la creazione di uno specifico setting che possa rimuovere gli ostacoli all’autovalutazione ed all’autoregolazione. Per citare Rogers, potrà considerarsi educato colui che avrà “imparato ad imparare” e che si sarà “adattato a mutare” .(7)
Possiamo notare come l’apporto teorico di Rogers risulti oggi diffuso nello svolgimento di svariate modalità di lavoro con l’utenza: accoglienza, primo ascolto, informazione/orientamento, relazione educativa, socializzazione etc. Riteniamo interessante anche la “psicoterapia breve di individuazione”, modello forgiato da Tommaso Senise, che vorrebbe applicare tratti di psicanalisi alla prevenzione del disadattamento adolescenziale.
Destinatari di questo metodo sono quei ragazzi che pur vivendo una situazione di franco rischio sociale non sono ancora considerati casi patologici tout court. Si tratta di soggetti con importanti difficoltà di apprendimento, situazioni famigliari disastrate, che manifestano il proprio disagio attraverso segnali indiretti di trasgressione ed aggressività: dispersione scolastica, turbolenza, atti devianti etc.
Il metodo investe moltissimo sulla prima fase di approccio con l’utente, per questo si inserisce tra le tecniche di natura relazionale e si contrappone ad altre metodologie medicalizzanti. Nel contesto della fase di approccio, l’attenzione dell’operatore non deve essere posta sulla ricerca dei sintomi di asocialità ma sull’intero funzionamento dell’adolescente e sulla comprensione delle vie attraverso cui percepisce i propri vissuti interni ed il contesto nel quale vive.
Per questo riveste importanza fondamentale che l’operatore stabilisca anzitutto un rapporto basato sull’empatia prima che sulla comunicazione improntata alla logica formale.
Particolarmente sottolineato è il concetto di “autorevolezza e responsabilità” con cui l’operatore “conferma soprattutto nei fatti, senza arroganza e presunzione, il proprio ruolo e la propria competenza, fornendo spesso il riferimento indispensabile per ridurre l’ansia e la ripetizione di tentativi difensivi e di passaggi all’agire, che non fanno che peggiorare la situazione, e per rendere più effettiva la motivazione e più concreta la possibilità per l’adolescente e la famiglia di assumersi la propria sofferenza” .(8)
L’operatore che realizza iniziative preventivo-promozionali deve sapersi continuamente confrontare con situazioni relazionali di tipo dinamico. La relazione con l’adolescente, che si strutturi per strada o al chiuso tra le pareti di un consultorio, rappresenta sempre un momento decisivo dove il processo stesso di prevenzione sviluppa ed esprime valenze precipuamente educative.
E’ ineliminabile quindi la riflessione sulla relazione: è questo un interrogarsi costante su ciò che tiene assieme persone, linguaggi, universi differenti –quello adulto e quello adolescenziale- universi per molti aspetti contrapposti quando non conflittuali. Significa comprendere attraverso quali variabili gli adolescenti possano sperimentare soluzioni di congiunzione, anziché di “dilatazione aggiuntiva” (9) rispetto al loro percorso di separazione ed individuazione.
Attraverso ciò che si sviluppa nella relazione, i soggetti soddisfano i loro bisogni di attaccamento, cura ed esplorazione che si sviluppano nel tempo in una dimensione di “narrazione” che dà modo alla persona in crescita di scoprire e costruire progressivamente nell’interazione con gli altri il significato profondo del proprio esserci. (10)
La relazione tra adulto e minore dunque, può offrire anche legami e connessioni di significato che danno modo al secondo di orientarsi all’interno di un vissuto nel quale può altrimenti rischiare di perdersi, addirittura senza possibilità di ritorno alcuno. Per colui che intende lavorare sulla prevenzione di matrice promozionale si tratta allora di penetrare la problematicità insita nella relazione, oltre che di investigare i significati che essa può assumere.
Per l’adulto – operatore, educatore, genitore o insegnante che sia- che intende accompagnare il percorso di sviluppo del soggetto in crescita, diventa irrinunciabile capire fattivamente quali problemi lo attraversino e dotarsi quindi a questo scopo di chiavi di lettura e paradigmi interpretativi utili al fine di capire in profondità. Ricordiamo come anche l’operatore che si relaziona con gli adolescenti sia in gioco all’interno di una relazione senz’altro asimmetrica, ambivalente e foriera di ansie di vario tipo: anch’egli sentirà il bisogno di affrontare di nuovo il tempo critico della propria adolescenza per meglio calibrare e definire il ruolo che ora deve incarnare al fine di erogare validamente aiuto.
All’interno di un siffatto quadro di riferimento, l’operatore di prevenzione nell’area della devianza adolescenziale può cercare di porsi come “accompagnatore di costruzione di senso” (11) per i soggetti con cui viene a contatto.
Ci pare che proprio in questo risieda la possibilità e la peculiarità essenziale del lavoro preventivo, di certo non esente da problemi e difficoltà di vario genere.
La problematicità del compito non deve impedire comunque a chi opera in questo settore di cimentarsi con il tentativo di intrecciare un tessuto di connessione che possa supportare e sostenere i rischi di fallimento dell’adolescente, così che il suo slancio evolutivo non avvenga senza protezione.
Un primo orientamento che ci pare giusto sottolineare consiste nella consapevolezza di doversi muovere sempre all’interno di un “principio di realtà” (12), per offrire all’adolescente l’esperienza di un limite (contenimento, regole, confini prefissati) verso cui il ragazzo sperimenti un impatto non brutale proprio perché coniugante fermezza ed attenzione empatica.
Un secondo ulteriore orientamento è da indirizzarsi agli operatori e consiste nell’affinamento delle capacità insite nel prendersi cura di soggetti in crescita, attraverso l’adozione di “abilità genitoriali” che ogni bravo educatore dovrebbe procedere ad elaborare. Il terzo ed ultimo orientamento riguarda il mettere a punto processi che sappiano adeguatamente presentare anche l’esperienza dell’assenza, della fatica e della sofferenza, aspetti tutt’altro che infrequenti nell’ambito del compito preventivo, sia nei confronti dei minori con cui si deve lavorare sia rispetto alle stesse dinamiche professionali entro cui ci si muove e spesso ci si scontra.
L’antisocialità minorile offre un ampia gamma di comportamenti che vanno conosciuti e riconosciuti per saperne indagare le circostanze nel caso di una loro attuazione. Dal gesto determinato da un bisogno di natura organica, all’acting dovuto a motivazioni psicopatologiche fino alle azioni compiute per semplice scelta libera, esiste una serie di manifestazioni intermedie assolutamente non facili da studiare e soprattutto da giudicare.
Capita che questi atti abbiano significato simbolico o esprimano addirittura il desiderio di una punizione in relazione a motivi rintracciabili sotto il livello della vita conscia, in altre situazioni la devianza episodica può avere semplice significato dimostrativo. Capita altresì addirittura che i comportamenti antisociali siano motivati dagli adolescenti stessi come meri diversivi alla noia, alla monotonia del quotidiano, alla vacuità del tempo libero.
La teoria dell’etichettamento ci riporta all’inizio della nostra disamina, quando esplorando il territorio delle vecchie istituzioni correzionali abbiamo riflettuto sulla pericolosità di talune istituzionalizzazioni che non costituiscono un rimedio alla devianza giovanile ma una via sicura verso la recrudescenza della stessa ed una sorta di incentivo dato al giovane nell’addentrarsi ulteriormente nella condotta di vita marginale.
Non si dice http:\\/\\/psicolab.neta di nuovo del resto, affermando che le istituzioni chiuse portano spesso il giovane ad immergersi dentro la subcultura criminale nonché ad esporsi ad esperienze traumatiche veicolate da altri detenuti o adulti che dovrebbero fungere da operatori di formazione.
Senza cedere a proposte di pensiero che si tingono di utopia le quali vorrebbero negare la liceità di qualsivoglia forma di controllo, è senza dubbio urgente cercare valide soluzioni alternative che non prescindano dal diritto minorile e che applichino propriamente il sistema penale. La decriminalizzazione della devianza minorile per la verità, è un processo già in atto nel nostro Paese ,(13) a ciò occorrerà far seguire un miglior funzionamento dei servizi di consulenza pedagogica, dei centri d’ascolto, dei “gruppi famiglia” etc.
Ciò che più conta è quello che si è cercato di mettere da sfondo alle riflessioni fin qui condotte, l’importanza dell’opera di prevenzione che si fondi sulla famiglia e sulla scuola senza dimenticare le altre agenzie di formazione del territorio, solo a patto che dentro queste istituzioni si riesca veramente ad erogare una valida azione di supporto educativo.
Tutto ciò rientra nella vastità di un programma politico che deve arrivare ad interessare la nostra società, la sua organizzazione, soprattutto il portato valoriale di cui deve ritornare a farsi veicolo.
I giovani abbisognano di certezze, certezze di natura affettiva non solo razionale; se essi guardano al futuro e vivono nell’attesa stà a noi cercare di dar loro motivi di speranza.
NOTE
1) C. Lombroso, “La cura del crimine. Considerazioni generali sulla prevenzione” in “riv. pen.” IX, 1878, pag. 569
2) Da una lettera di Cesare Lombroso al direttore di una rivista di discipline carcerarie, in “Le cause principali del crimine e il mezzo più efficace per prevenirlo”, riv. disc. carc., 1876, pag. 297
3) Rocchietta, Tofani, “Disadattamento scolastico, devianza psicosociale e classroom management” (1991) in “Orientamenti pedagogici”, 38, pp. 1385 e ss.
Facciamo riferimento anche alle ricerche di Garmenzj N. in “Stress competence and developement” contenuto in “American Journal of orthopsychiatry”, 57, 2, pagg. 159 – 74
4) Bernard G. “Protective factors research: what we can learn from resistant children” AHTDS prevention resources center, Boulder, USA (1987)
5) Melucci A., Fabbrini A. “I luoghi dell’ascolto” ed. Guerini, Milano (1991)
6) C. Rogers, “la terapia centrata sul cliente”, Martinelli, Firenze (1970)
7) Carl Rogers, “Libertà nell’apprendimento”, Giunti Barbera, Firenze (1973)
8) E. De Vito, “diagnosi e indicazioni di trattamento” in T. Senise, “l’adolescente come paziente”, Franco Angeli, Milano (1991)
9) Scabini E., Cigoli V., “L’identità organizzativa della famiglia” in AA.VV. Identità Adulte e relazioni famigliari, Vita e Pensiero, Milano (1991)
10) Bruner j. “La ricerca del significato” Bollati Boringhieri, Torino (1992)
11) L. Regoliosi, “la prevenzione del disagio giovanile”, La Nuova Italia Scientifica, Urbino (1994)
12) A. Pandolfi, “l’adolescenza e le psicosi nell’adolescenza” in G. Lanzi “Sulle psicosi dell’età evolutiva”, Verducci, Roma (1976)
13) G. Petter, “problemi psicologici della preadolescenza e dell’adolescenza”, La Nuova Italia, Firenze (1992) pag. 253
BIBLIOGRAFIA
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Paolo Paroni, “Un posto in strada: gruppi giovanili ed intervento sociale”, Franco Angeli
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