Al giorno d’oggi il look italiano rappresenta un modello di estrema importanza a livello internazionale: vestire italiano traduce all’estero un modo di vivere elitario, una maniera d’essere e di esprimersi ricercata.
La storia della moda in Italia risale al tempo degli antichi romani, attraversa la fastosità dei granducati rinascimentali per giungere, attraverso il successo del “made in Italy”, degli ultimi decenni del Novecento, fino ai giorni nostri.
Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale era ancora la Francia a dettare le regole della moda grazie ai suoi sarti e “creatori della moda” , primo tra tutti Christian Dior con il suo new look, attraverso il quale riuscì a soddisfare pienamente la voglia di lusso e di eleganza che le signore del tempo mostravano dopo le ristrettezze economiche e gli orrori della guerra.
Proprio in questo periodo l’Italia cominciò a prendere coscienza dei propri punti di forza: creatività, qualità e basso costo di manodopera a causa della disoccupazione post-bellica.
Fu grazie ad un nobile fiorentino, il marchese Giovan Battista Giorgini, detto il Bista, che lavorava come buyer per conto di aziende americane, che avvenne l’inizio dell’ascesa del made in Italy.
Consapevole delle potenzialità dell’Alta Moda Italiana, ma conscio della scarsa attrattività delle creazioni agli occhi degli stranieri, organizzò una delle prime operazioni di marketing del settore per lanciare la moda italiana nel mondo.
Di fatto si trattò per la prima volta di affrontare un problema di lancio di un nuovo prodotto, che agli occhi degli stranieri non aveva altra peculiarità che quella di essere italiano.
Fu proprio questa caratteristica la leva sulla quale Giorgini puntò e la prima sfilata che egli organizzò con 170 modelli delle più importanti sartorie italiane, il 12 febbraio 1951 presso la propria dimora fiorentina, fu un successo che sancì la nascita della moda italiana.
L’eco di tale avvenimento fu talmente ampio ed importante che nacque ben presto l’esigenza di organizzare e gestire le importazioni delle creazioni anche all’estero: la caratteristica principale della moda italiana del periodo era quella di saper unire glamour e creatività, spettacolo e modernità, stilismo con stoffe pregiate.
Alla fine degli anni Cinquanta la moda rappresentava per l’Italia il 17% di tutta l’industria manifatturiera e proprio in questo periodo arrivò nel nostro Paese il prêt-à-porter, che insieme all’ Alta Moda e all’industria di confezione facevano riferimento alla divisione sociale dei mercati.
Se da un lato il target dei clienti dell’Alta Moda era rappresentato da un’élite di persone con elevato potere d’acquisto e quello dell’industria di confezione si proponeva semplicemente di creare abiti che non facessero moda, il prêt-à-porter si rivolgeva ad un tipo di mercato medio-basso, fatto di consumatori insensibili al fattore moda, ancora alle prese con il soddisfacimento di bisogni primari.
L’aspetto qualificante del prêt-à-porter è la presenza di un creativo/stilista (designer, secondo la terminologia anglosassone) a capo di una maison che gestisce il processo di creazione e sviluppo del prodotto dell’immagine.
Ma ad assumere un’importanza alquanto rilevante in questo periodo è stata la boutique di lusso, rivolta ad un mercato internazionale, nata dalla distribuzione dell’accessorio raffinato, qualificante e di firma, destinato ad accompagnare l’abito di Alta Moda.
Verso gli anni Sessanta si definisce la figura dello stilista come colui che non solo crea gli abiti e ne conosce le potenzialità produttive, ma stabilisce anche quale sarà il target dei propri clienti, conciliando in pratica creatività e innovazione con le esigenze di produzione e distribuzione.
Proprio in questi anni si assiste tuttavia ad un improvviso fenomeno di contestazione (il “Sessantotto”) , che coinvolge la moda come l’arte, la politica, la cultura in generale: il sistema di valori e tradizioni sul quale la società si era basata fino a quel momento viene messo in discussione e la moda si trova a dover rispondere all’esigenza di creare la personalizzazione degli abiti, poiché i giovani, che sono diventati nel frattempo una categoria sociale autonoma ed importante, esprimono il desiderio di differenziarsi e soprattutto dimostrano notevole consapevolezza riguardo le proprie esigenze da soddisfare.
Il mercato si trova quindi di fronte alla grande opportunità di identificare un nuovo target di consumatori, fattore che viene subito colto da due importantissimi interpreti della moda giovanile: Luciano Benetton e Elio Fiorucci.
Luciano Benetton, che già dal 1962 aveva cominciato a produrre maglioni caratterizzati da colori accattivanti era diventato la bandiera del prêt-à-porter casual: alla fine degli anni Sessanta contava già 300 negozi con un fatturato di 10 miliardi di Lire.
Nella ricerca e nella realizzazione di prodotti sempre nuovi e differenziati, stilisti ed imprese produttrici riuscirono a valorizzare pienamente il patrimonio tecnologico e la flessibilità produttiva nel sistema industriale tradizionale. In particolare, la filiera tessile (filatura, tessitura, stampa e nobilitazione tessile), tradizionale punto di forza italiano, assecondò con entusiasmo l’innovazione di prodotto, che le offrì ampia crescita.
Attraverso gli anni Ottanta il settore moda continuò la sua trionfale evoluzione in modo coerente al cambiamento della società e dei valori e favorito dalla crescita del potere d’acquisto, poiché la domanda nazionale ed internazionale è sempre stata superiore all’offerta; tale evoluzione ha cominciato a registrare uno smorzamento negli anni Novanta quando la svalutazione della Lira ed il blocco dell’inflazione hanno fanno dell’export l’unica via per mantenere vivo il made in italy.
Fino a quel decennio, l’affermazione internazionale del modello italiano nella moda può essere spiegata con la capacità degli operatori italiani di sfruttare in modo estremamente efficace ed efficiente i fattori di specificità del sistema paese.
E’ interessante notare come alcuni elementi abbiano connotato, in termini di differenziazione, il funzionamento del sistema moda italiano e risultino riconducibili ai fattori che rendono una home base nazionale competitiva, secondo il noto modello di Porter1:
L’esistenza di una domanda finale estremamente sofisticata, esigente ed articolata, non solo delle fasce elevate ma anche in quelle medie e medio-basse, che è stata stimolo continuo per produttori e distributori;
Lo sviluppo di una struttura distributiva specializzata sul piano della qualità dell’offerta e del servizio, in grado di rispondere alle più disparate esigenze e di canalizzare adeguatamente sul mercato una produzione a sua volta notevolmente differenziata;
L’esclusività ed il potenziale di apprendimento del rapporto di collaborazione tra gli stilisti e il sistema produttivo nel suo complesso;
L’esistenza di un articolato sistema produttivo che è andato sempre più specializzandosi attraverso l’emergere dei due ruoli fondamentali dell’”azienda commerciale”, orientata al mercato e all’innovazione di prodotto, e dell’”azienda produttrice”, orientata alla produzione e all’efficienza.
La facilità di interazione tra tutti gli attori della filiera, compresi i settori collegati e di supporto, grazie all’omogeneità culturale e alla vicinanza geografica.
La combinazione sinergica di questi elementi ha contribuito all’affermazione di un modello efficace, efficiente e difficilmente imitabile da parte dei concorrenti.
Inoltre, l’industria italiana si è mostrata fortemente anticipativa nei confronti di alcune macrotendenze generali, quali:
Lo spostamento dell’offerta dei prodotti standardizzati e di massa a prodotti più specializzati, personalizzati, con un maggiore contenuto di elementi qualitativi materiali e immateriali;
Il conseguente riorientamento verso tecnologie e processi organizzativi più flessibili, in grado di produrre per piccoli lotti e di modificare anche sostanzialmente e in tempi brevi il prodotto;
Il passaggio da un modello altamente integrato d’impresa industriale, orientato a massimizzare l’efficienza e le economie di scala, ad una voisione di “azienda a rete” e “senza confini”, con strette relazioni di collaborazione all’esterno, finalizzata a coniugare l’efficienza dei processi produttivi e organizzativi con l’efficacia rispetto al mercato.
Al di là comunque dei punti di forza e delle dinamiche sopra descritte, ci sono stati indubbiamente anche dei fattori esogeni che hanno contribuito a favorire il processo di consolidamento della competitività delle imprese italiane fino alla fine degli anni Ottanta.
In primo luogo, la domanda nazionale ed internazionale in quegli anni è sempre stata superiore all’offerta e il consumatore finale, non avendo ancora piena consapevolezza in merito ad altre valenze del prodotto, era prevalentemente interessato al contenuto stilistico e d’immagine.
Relativamente allo styling, il prodotto italiano era percepito come unico ed originale e la concorrenza straniera era modesta, in quanto alcuni paesi industrializzati avevano disinvestito nel settore dell’abbigliamento ipotizzando di non poter fronteggiare la competitività dei paesi a basso costo di manodopera ed erano rimasti indietro sul piano dell’innovazione del prodotto.
Il sistema distributivo italiano, infine, con la prevalenza del piccolo dettaglio specializzato, rappresentava esso stesso una barriera invalicabile per i produttori stranieri.
Note
1 M.Porter , La strategia competitiva. Analisi per le decisioni, Compositori, 1995.