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Scuola

L’Esempio come Fonte di Crescita Interiore

Gli studenti italiani, “i più adatti a sentire il fresco profumo di libertà” (Paolo Borsellino), sono sempre in fibrillazione. Contro la Gelmini? Semplicemente? O cercano altro? Essi nutrono l’aspirazione a vedere la realtà con il più lucido rigore razionale, avvertono l’esigenza di una vita sociale libera dall’aggressività e dall’inganno, inseguono una giustizia su cui non pesi l’ombra di norme e procedure imposte dalla politica, aspirano a impossessarsi di un efficace “punteruolo” (Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, 1941) per liberarsi dalla trappola del qualunquismo.
Leonardo Sciascia va loro incontro con “Porte aperte”, un piccolo gioiello dalle cui pagine traspare l’invito a “combattere la violenza come mentalità e come pratica di vita” (Isocrate, Isocrate contro Lochite, 402-395 a. C), a non abbandonare mai il coraggio di osare e a capire che “c’è libertà compiuta solo in quello Stato dove politica e giurisdizione sono davvero distinti, ciascuno nel proprio ordine” (Giorgio Frabetti, Quando la Magistratura era liberale, www.arezzopolitica.it, Apr. 2010). In questi giorni di tempesta, a distanza di ventuno anni, si capisce come la sua sia stata solo una morte fisica e si ricorda ancora con cordoglio il triste risveglio in quel freddo lunedì, 20 novembre 1989, sovrastato da un cielo nuvoloso, cupa prolessi della scomparsa di un titano che, lasciandosi guidare dall’ansia quasi mistica di superare le barriere del reale, ha saputo ergersi sopra la caoticità del mondo. Le sue opere insegnano che “la libertà, in senso politico, deve essere la necessaria premessa della libertà spirituale, supremo imperativo di ogni uomo (Bosco, Aspetti del Romanticismo italiano, 1942), che bisogna tendere all’infinito, svincolarsi dai diktaten imposti dalle superstizioni sociali, affrancarsi dalla mentalità corrente, reagire all’insofferenza verso ogni costrizione e ogni limite, evadere idealmente verso orizzonti più sereni, nutrire l’istintiva avversione verso ogni forma di menzogna e di sopraffazione.
In virtù dei preziosi laboratori culturali, il grande di Racalmuto, pienamente consapevole di non poter astrarsi – in quanto scrittore – in una sorta di iperuranio ideale, continua ad affilare le armi delle nuove generazioni, insegna loro a scavare un grande vulcano sotterraneo e a far scorrere la lava incandescente della verità, consiglia di “star svegli e scrutare e capire e giudicare” (Sciascia, Porte aperte, 1987), spinge a edificare la “social catena” (Leopardi, La ginestra, 1836) per neutralizzare “l’infelicità addizionale” (Leopardi, Zibaldone, 1817-1832) e reagire alla frustrazione, all’odio, al risentimento. In PORTE APERTE (Sciascia, 1987), l’asse sintagmatico, con l’avvio in medias res, li immette subito in un reticolo contorto che si svolge mentre “un autunno bellissimo, sotto la luce di un novembre mite, opulento, dorato, esibisce un volto truce di violenza e di inganno”.
Spicca subito il grande contrasto “tra i morti che portano i doni e i vivi che, tra loro, a catena, si ammazzano”; la corruzione è annidata in ogni angolo della “città irredimibile, persino nella mente dei vigili urbani che, in mano, avevano il cartoccio della frutta anziché il blocchetto delle multe”. PORTE APERTE, scritto e pubblicato due anni prima della morte, è difficilmente collocabile all’interno di un genere letterario; l’autore ha creato un insieme, mescolandovi le caratteristiche di altri preesistenti, in cui, davanti agli occhi attenti dei giovani, scorre la CRONACA di un episodio realmente verificatosi a Palermo, la condanna per il triplice omicidio di Tommaso Scalia condannato a morte nel processo d’appello e fucilato dietro il cimitero di Palermo una mattina di marzo del 1938, il MEMORIALE AUTOBIOGRAFICO con ricordi e conoscenze personali, il SAGGIO STORICO con la ricostruzione del clima degli anni ’30, il TRATTATO GIURIDICO-MORALE con il problema della pena di morte “da dieci anni nuovamente legge dello stato, dopo circa quarant’anni dall’abolizione, per la difesa dello stato fascista contro chi aveva intenzione, soltanto l’intenzione, di attentare alla vita di Mussolini”, della sua presunta giustificazione etica, delle ragioni politiche per cui il Fascismo l’aveva ripristinata, della sua utilità, dei meccanismi psicologici che scattano nei giurati o nell’imputato o nell’opinione pubblica, il ROMANZO PSICOLOGICO con l’indagine sulla personalità del “piccolo giudice” mentre ne ricostruisce le ragioni delle scelte e dei tormenti, il ROMANZO GIALLO di cui l’opera conserva la suspense nell’introdurre i delitti oppure nella ricostruzione dei moventi con il gusto per il lucido ragionamento politico.
Tutto il saggio, infatti, presenta problematiche molto complesse, sarebbe stato impossibile caratterizzarle in una sola tipologia e, per di più, in uno spazio ristretto; l’illustrazione sommaria degli aspetti ritenuti fondamentali per cogliere il messaggio che Leonardo Sciascia ha voluto consegnare vuole essere, pertanto, solo un invito a esaminare l’intreccio con occhi nuovi, ancora meglio se supportati dalla trasposizione filmografica del 1990; l’intervento di Gianni Amelio, degnamente supportato dalla partecipazione di Gian Maria Volontè nel ruolo del “piccolo giudice”, Vito Di Francesco, è stato premiato con l’autorevole Globo d’oro e candidato all’Oscar del 1991.
Il romanzo presenta un incipit senza introduzioni né spiegazioni, “Lei sa come la penso”, come se il procuratore continuasse una sorta di monologo interiore, le cui radici sono nella cultura di un paese dominato da una dittatura che cominciava a perdere consensi. Il giudice ascolta “con soave, indugiante, indulgente sonnolenza”, con l’atteggiamento stanco di chi si aspetta già con rassegnazione un messaggio con nascosta minaccia, comminare la pena di morte con “una sentenza sbrigativa ed esemplare” per non compromettere il luminoso avvenire che lo aspetta e salvaguardarsi la carriera, senza badare al fatto che “chi uccide non è il legislatore ma il giudice”. Le due figure hanno una visione diametralmente opposta e ne sono consapevoli; per il Procuratore “la legge è legge, la si deve applicare e servire”, “il piccolo giudice”, invece, è contrario a “una sentenza che, appunto in nome della giustizia, del diritto, della ragione, del re per grazia di Dio e della nazione, consegna un uomo al tiro di dodici fucili imbracciati da dodici uomini che, arruolati per garantire il bene dei cittadini, si sono sentiti chiamati all’assassinio non solo punito ma premiato. Il Procuratore intuisce che “il piccolo giudice” seguirà il proprio istinto e, icasticamente, compie il gesto di “lavarsi le mani”, registrato in ipotiposi nella trasposizione cinematografica; successivamente, al momento del congedo, “stanco, sbadigliante”, servendosi dell’indiretto libero, aggiunge che “comunque la pensi, avrà da riflettere, da tirare il pro e il contro … eh, la carriera!“.
L’allusione è rivolta “alle mogli dei giudici, dei giurati e del pubblico ministero”, timorose di una scelta sbagliata che potesse mettere i mariti in cattiva luce agli occhi di Mussolini, il quale, in seguito, si sarebbe vendicato su tutta la famiglia. Il giudice capisce come “l’ammonizione che il procuratore cautamente gli aveva dato sia stata dettata dalla preoccupazione corporativa di non creare difficoltà e di non mettere in cattiva luce l’intera categoria professionale con una sentenza diversa da quella capitale, che tutti si aspettano”. In analessi, poi, soltanto alla trentesima pagina, viene presentato il nodo della controversia e i fatti, nella loro oggettività storica, risultano talvolta espressi in maniera vaga e generica, persino nei nomi e nelle connotazioni spazio temporali; non viene dato neppure il nome della moglie di Tommaso Scalia, Mignemi Rosa, ma unicamente quello del ragioniere Antonino Speciale, l’uomo che aveva sostituito in ufficio l’assassino, e dell’avvocato commendatore Giuseppe Bruno – nel film Spatafora Vincenzo -, uno dei gerarchi del regime fascista, l’uomo che, al vertice di quell’ufficio, ne aveva deciso il licenziamento. Attraverso la regia di Amelio, invece, il lettore può ricostruire più fedelmente gli avvenimenti sin dal loro nascere, il 10 marzo 1937, in cui sono state uccise le tre vittime; i vari attanti acquistano un volto preciso, gli ambienti in cui essi si muovono hanno concretezza visiva, le loro azioni vengono mostrate allo spettatore, tra cui esplicitamente tre dei due assassini, in tutta la loro brutalità. Leonardo Sciascia, insomma, attraverso analisi spietate, stigmatizza un contesto storico in cui “si dormiva con le porte aperte, anche se era soltanto nel sonno il sogno delle porte aperte; a esse corrispondevano, nella realtà quotidiana, da svegli, e specialmente per chi amava star sveglio, tante porte chiuse e, principalmente, eran porte chiuse i giornali (Sciascia, ibidem), “servi volontari” del sistema”.
Le meditazioni, pur riferendosi alla fervida perorazione contro la pena di morte vigente in periodo fascista, echeggiano, a raggio costantemente ampliato, altre folgoranti argomentazioni vive nell’animo degli adolescenti, i quali ritrovano in Sciascia una voce sempre attiva che non solo interroga e si interroga, ma stimola la loro vivacità percettiva e fa salire in superficie il bisogno di sdrammatizzare le paure, le ossessioni, le angosce dell’età contemporanea. L’illuministica razionalità si riflette anche nello stile, che è terso, cristallino, essenziale, alieno da ogni sbavatura retorica o sentimentale, anche se l’autore siciliano passa, con estrema disinvoltura, da artifici retorici raffinati, litoti, chiasmi, parallelismi, ellissi, metafore, metonimie, pleonasmi, ad anacoluti o frasi costruite con il verbo alla fine, “ricalcando il sermo cotidianus e utilizzando ogni possibile suggestione che venga dal dialetto per meglio sviluppare i temi cui serberà fede nelle opere successive” (F. Desiderio, Mondo in cammino, 1978).
Sciascia, nel romanzo, appare come NARRATORE AUTODIEGETICO, perché, attraverso le parole, le riflessioni, le scelte e il comportamento del “piccolo giudice”, trasmette la propria visione della vita; egli è anche una presenza sempre avvertibile con il doppio ruolo di NARRATORE OMODIEGETICO, testimone e giudice delle vicende che ricostruisce direttamente coinvolto nella veste del “piccolo giudice”, e di NARRATORE ETERODIEGETICO onnisciente, che interviene spesso nel racconto con considerazioni generali, commenti, giudizi sull’operato dei personaggi. Egli conosce i pensieri e i sentimenti più intimi di essi, come nel caso in cui “il giudice cominciò a dirsi che sarebbe stato bello possedere il magico dono di rendere invisibile l’imputato, era un qualcosa di vago, di sfuggente che sfiorava per un momento i suoi pensieri”; nel quarto capitolo, attraverso la focalizzazione sul personaggio, fa apprendere ulteriori ponderazioni del giudice contro “la pena di morte, una sorta di primordiale cerimonia crudele in cui tutti, condannato, boia e pubblico, reciteranno bene la loro parte, una condanna dettata dall’istinto e contrapposta alla ragione”.
Pietà e ragione non sono per il “piccolo giudice” e, dunque, per Sciascia, doti opposte, l’una istintivamente proveniente dal cuore e l’altra frutto di freddo esercizio della mente; esse, al contrario, appaiono strettamente connesse; “l’istinto, se non viene temperato dalla ragione, porta l’uomo a essere crudele ed egoista, a cercare nell’altro un nemico da eliminare. Questo è vero tanto per i singoli individui, come l’imputato, quanto per l’opinione pubblica, dipinta nel romanzo in fanatica attesa della sentenza di morte emessa contro Tommaso Scalia e per i regimi politici come il Fascismo. “Piccolo giudice”? Sciascia chiarisce che “il dirlo piccolo”, immagine di autore autodiegetico, “è parso ne misurasse la grandezza per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato”. Devono essere, sembra dire ai giovani lettori, proprio la riflessione e il ragionamento a insegnare agli uomini la pietà e la solidarietà, valori saldamente incarnati nell’animo del funzionario. Le menti confuse degli adolescenti ritrovano tra le righe dell’opera la loro stessa dicotomia ondeggiante tra εμπειρία e sensiblerie, in cui, da un lato, prevalgono gli atteggiamenti mentali rivolti a verificare nei fatti un’idea come criterio di validità di ogni conoscenza e, dall’altro, il bisogno di filtrare i dati contingenti, analizzandoli non solo con la ragione, ma anche attraverso le mille sfaccettature che la realtà fa scorrere davanti. I ragazzi vogliono credere, sperare, agire, superare le loro colonne d’Ercole, vincere le loro paure e prendere spunto dalle azioni dei “giganti” (Bernardo di Chartres, 960 – 1028), comprendere la propria realtà al fine di cambiarla con i loro sogni, aggregare utopia e realtà per procedere con dignità, guardandosi continuamente negli occhi per non perdersi.
Egli, insomma, li invita a riflettere sull’assioma secondo cui “non si può arrostire vivo un uomo soltanto perché certe opinioni non condivide, non si può rispondere con l’assassinio all’assassinio” ed essere allegoricamente solidali con quanti combattono “per garantire a tutti il diritto di trovare davanti a sé delle porte aperte, suprema metafora dell’ordine, della sicurezza, della fiducia” (Sciascia, ibidem). A lettura ultimata, essi, davanti al libro chiuso, vedranno le tenebre diradarsi, nel leitmotiv della luce sottolineato principalmente nel film; mentre la maggior parte delle scene è ambientata in luoghi scuri, pieni d’ombra, o durante la notte, gli ultimi due palcoscenici, dedicati al confronto attivo tra il giudice e il giurato-contadino, sono ambientati in una luce accecante. I ragazzi rifletteranno sull’operato del giudice, di un antieroe che si è consapevolmente rovinata la carriera perché, a essa, ha anteposto la difesa di un ideale imprescindibile per il quale “si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo”; introietteranno le parole del deputato socialista Giacomo Matteotti che, nel film, sono affidate all’imputato Tommaso Scalia: “uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai; la mia idea non muore; i miei bambini si glorieranno del loro padre; i lavoratori benediranno il mio cadavere”; apprezzeranno la solidarietà del giurato- contadino che, fino alla conclusione, appoggerà validamente il giudice, elogiandone la determinazione nel condurre il processo verso il carcere a vita e non verso la pena capitale, “la morte lenta nell’isolamento dell’ergastolo aiuta a riflettere e redime”; scorgeranno il messaggio intrinseco dell’autore il quale, attraverso le parole di Vito Di Francesco, ribadirà con forza che “è passato il momento di mentire o di fingere, bisogna far trionfare i propri ideali attraverso una lotta tenace” …
E i giovani del XXI secolo? Sapranno “rompersi la testa” come il Capitano Bellodi (Sciascia, Il giorno della civetta, 1961), senza scappare, vincendo la rabbia impotente e ripudiando chi li invita diplomaticamente ad arrendersi perché tanto non cambierà http:\\/\\/psicolab.neta? Penetreranno nell’apologo del giurato-contadino sulla “vite adulta e forte sradicata, che, però, quando ogni speranza sarà diventata vana, dopo anni, quando se ne è persa memoria, rigetterà“? Sì. Anche loro reagiranno contro “l’uomo che se ne va sicuro e l’ombra sua non cura” (Montale, Non chiederci la parola, 1925), diffonderanno la luce nelle notti troppo buie, cercheranno di scoprire le loro piaghe, piuttosto che vivere nella stagione in cui le piaghe siano coperte dalle bende dell’ipocrisia (Montale, Auto da fè, 1966), si metteranno alla prova, si accorgeranno che il sole, se si vuole, potrà ritornare a brillare e, ciascuno di loro, nel profondo del loro cuore, potrà dire “All’orizzonte c’è sempre una porta chiusa. Aprila” (Michele Perriera, Con quelle idee da canguro. Trentasei anni di note ai margini, 1997 – Serata di commemorazione al Teatro Biondo, 25/9/10) !!!

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Matilde Perriera