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Libri

Quando la notte di Cristina Comencini

“Quanti sbagli servono per fare la cosa giusta?”
Dal film Il buio nell’anima di Neil Jordan
Un uomo, una donna: non una citazione di Lelouch. No, un uomo e una donna oggi, scostanti, rabbiosi, sgradevoli. Nei pensieri di lui lei è sempre “la cretina”; in quelli di lei lui è semplicemente “lo zotico”, “ruvido come la sua pelle, monotono come la sua camicia a scacchi, sempre la stessa”.
La diffidenza tra Marina e Manfred è assoluta, tale da non far presagire http:\\/\\/psicolab.neta di buono; eppure, ci sarà amore tra i due o addirittura qualcosa di più; riconoscenza, forse, o un sentimento che nasce dalla gratitudine e se ne alimenta. Sarà, e sembra impossibile per buona parte della storia, un mettersi completamente a nudo, svelando all’altro la parte più intima di sé.
Meglio ancora, non poter fare a meno di svelarsi, perché l’altro, non si sa come, ha il potere di stanare ciò che meticolosamente si nasconde. In più, verso la fine, ha la sapienza (anche qui, chissà come!) di accettare, accogliere le parti rimaste in ombra facendo in modo che le si accetti, le si accolga. Sappiamo per certo, tra l’altro, oramai, che è l’unica maniera per crescere.
E’ quello che accade ai protagonisti di Quando la notte, una storia raccontata a due voci, trama interiore oscura, attraversamento delle pulsioni a lungo negate e poi finalmente riconosciute. Fragilità estrema, che se proprio non diventa forza, può farsi convivenza, possibilità di sposarsi alla parte più esteriore, l’immagine che ci portiamo dall’infanzia e alla quale non vogliamo rinunciare.
E’ ancora una volta la zona d’ombra che difficilmente si può esplorare in solitudine, che ha bisogno dell’altro per essere visibile, ma che nello stesso tempo può essere intuita solo se almeno un po’ si è annunciata dentro di noi.
Quando Marina conosce Manfred, è quasi consapevole della sua incompletezza di madre; e lui è stanco di difendersi dalle assenze della vita. Forse sa già che il suo distacco emozionale non è sufficiente a salvarlo dall’incomprensibilità delle perdite. E che la sua crisi va guardata una volta per tutte, e non più rimuginata nel silenzio estremo a cui fa eco, amplificandolo, quello delle montagne in cui vive.
E’ a questo punto che Cristina Comencini fa incontrare Marina, donna e madre piuttosto giovane che viene dalla città e Manfred, l’uomo solitario delle Dolomiti; e forse la forte antipatia tra loro rappresenta l’ultima resistenza a fare uscire la bestia nel cuore, che non può più essere trattenuta e aspetta solo l’ occasione buona per liberarsi.
L’autrice in un’intervista parla di abbandoni fatti, subiti e immaginati. Quelli di Manfred sono reali, dolorosissimi: ha perso la madre a dodici anni (fuggita con un americano dal rifugio in cui viveva con il marito e i tre figli) e in una sorta di intollerabile coazione a ripetere anche la moglie e i figli.
Marina fantastica sulla possibilità di lasciare il suo di figlio ed andarsene libera per il mondo. Sa che non lo farebbe mai e allora si accontenta di prefigurare il ritorno al lavoro, come concreta possibilità di allontanarsi dal bambino di due anni, amatissimo, eppure, suo malgrado, respinto. Il bambino piange notte e giorno, non dorme e sembra sfidare di continuo il suo desiderio di essere una madre sufficientemente adeguata, sufficientemente buona.
Nella rabbia di Manfred per Marina si rinnovano le antiche ferite; il bimbo che piange nelle stanze di sopra (Marina è ospite per una breve vacanza estiva) dà voce ai pianti che lui non si è mai concesso, impegnato sempre a proteggere padre e fratelli, da ragazzino e da adulto. In questa strana famiglia senza donne (i Sane) considerati dal paese poco sani a dispetto del cognome, i figli sceglieranno di continuare a vivere rifiutando o ripetendo il copione della famiglia d’origine.
Albert, il fratello maggiore, porta a compimento ciò che i genitori hanno interrotto: eredita il rifugio e lo gestisce con la moglie e, guarda caso, tre figli: “A qualcuno prende così, a ripetere le stesse cose, altri a romperle”. E Stefan, infatti, tra loro il più piccolo, rompe, girellando da un rapporto sentimentale all’altro senza impegnarsi.
Manfred, invece (che la psicologia sistemica definirebbe il paziente designato), ricalca quasi alla perfezione il modello genitoriale. Facendosi lasciare dalla moglie alla quale aveva offerto una vita troppo silenziosa, rigida, austera. Ogni acquisto di lei considerato frivolezza, ogni sua vitalità intemperanza, fino a rimanere solo in una profezia che ostinatamente ha fatto in modo si avverasse.
Il suo lavoro è una sfida; fa la guida alpina, senza nessuna smanceria con i turisti, ma con la competenza di chi è salito innumerevoli volte su quelle difficili alture. Il lavoro giusto per chi non ama parlare; una vita dura per chi non vuole sciogliere la durezza dell’ anima: “Cammino per non pensare e non sentire il dolore allo stomaco”.
Il suo comportamento burbero è per Marina un giudice più severo di suo marito, della madre, della sorella, di se stessa e, paradossalmente, mentre è fuggita finora dal confronto con i familiari quello di un estraneo diventa non più rimandabile. Le responsabilità materne, e le irresponsabilità, non possono più confondersi, fino a sentirsi soffocare. La profondità del disagio, il buio e le paure vanno riconosciuti.
Ed è solo quando lei comincia a guardarli che sa ascoltare anche i sussurri del buio di Manfred, delle sue paure, dei suoi disagi. Il grande gesto di Marina è proprio questo: per debito di gratitudine forse (non diciamo il perché, altrimenti raccontiamo troppo), ma anche perché riconosce nella propria oscurità quella di lui e quello che Manfred stesso dal profondo della solitudine osa dirsi: “Il mio destino: sentirmi più forte e perdere”.
Solo così si azzera la distanza. Lei ci riuscirà alla vista di un disegno sul muro di Manfred bambino, un piccoletto indifeso con gli occhiali e gli scii, e dopo il sogno in cui tutti e due sono bambini.
Solo sentendo con ogni fibra della psiche (che poi diventerà fibra del corpo) la debolezza del passato e del presente di lui, Marina sa accoglierla nella sua.
L’oscura vulnerabilità di Marina è tutta nella sua indicibile fatica di essere madre, più sopportabile quando finalmente comincia a dirselo, e sospende quel parlare ossessivo con il suo bambino, che Manfred ha subito smascherato come un vuoto, fallimentare tentativo di rassicurarsi.
Si è detto che la maternità è il tema principale del romanzo di Cristina Comencini. Chi scrive, però, prova un certo pudore, una sorta di reticenza di fronte al mistero dell’essere madri, tra tutti quello più insondabile.
E preferisce commentarlo con le parole di Concita De Gregorio tratte dal suo splendido libro Ogni madre lo sa .Tutte le ombre dell’amore perfetto: “Dalle donne passa la vita, sempre. Dalla pancia, dalla testa, dalle mani e dai ricordi. Dalla capacità e dal desiderio di tenere dentro, a volte dall’impossibilità di farlo. Quello che succede nel transito non è materia di dibattito”.

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Margherita Fratantonio