Prima di descrivere i processi di coping, quali dimensioni psicologiche principalmente coinvolte nel processo di adattamento a situazioni stressanti (Holahan e Moos, 1994; Klapow et. al., 1995), ritengo necessario dare un definizione di ciò che si intende per stress. L’origine del termine è appannaggio dell’ingegneria, dove con stress si denota una forza che viene applicata ad un materiale e che, in tal modo, può produrre in esso una tensione o un cambiamento meccanico. In psicologia viene utilizzato per la prima volta da Cannon nel 1932 come sinonimo di stimolo nocivo. Successivamente Selye (1936) concettualizza lo stress come un insieme di reazioni difensive di natura fisiologica e psicologica attuate per far fronte ad una minaccia o ad una sfida. Selye fu il primo ad aver riconosciuto che lo stress non è una condizione necessariamente patologica e negativa, ma una reazione in primo luogo adattativa, in quanto finalizzata a ristabilire o a mantenere l’equilibrio omeostatico. Infine Lazarus e Folkman (1984) definiscono lo stress come la condizione derivante dall’interazione di variabili ambientali e individuali, che vengono mediate da variabili di tipo cognitivo. Quindi lo stress viene concettualizzato come qualcosa di dinamico, a carattere relazionale e compare per la prima volta il concetto di stress psicologico. Con tale concetto si sottolinea la componente soggettiva dell’evento stressante, ovvero che l’elemento fondamentale che determina l’entità della reazione emozionale-fisiologica è la valutazione cognitiva che l’individuo compie del suddetto evento stressante. In altre parole, nessun evento esistenziale significativo può essere considerato aprioristicamente patogenetico e, allo stesso tempo, ogni evento suscettibile di produrre una reazione emozionale potrebbe essere definito come avvenimento stressante (Pancheri, 1993). Quindi gli eventi sono stressanti nella misura in cui sono percepiti come stressanti, per cui uno stimolo produrrà o meno una reazione di stress a seconda di come viene interpretato e valutato (Lazarus, 1998). Tuttavia lo stress non è un’esperienza esclusivamente soggettiva, ma la sua entità è definita anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo. Perciò la portata stressogena di un evento è determinata, oltre che dalla valutazione cognitiva dello stimolo compiuta dall’individuo, anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo, ovvero dalla qualità dell’evento (come l’impatto emozionale che produce nel soggetto) e dalla sua quantità (come, per esempio, la durata temporale e la “vicinanza” con altri eventi che costituiscono una potenziale minaccia per l’equilibrio psico-fisico dell’individuo). Infine la portata stressogena di un evento è definita, oltre che dalla valutazione cognitiva e dalla percezione emotiva dello stimolo (valutazione primaria), anche dalla cosiddetta valutazione secondaria, ovvero dalla valutazione che un individuo compie delle proprie risorse e capacità di far fronte allo stimolo stressante ( Strategie di Coping). In altre parole un evento sarà tanto più stressante quanto più l’individuo si percepirà inadeguato e incapace di fronteggiarlo (Lazarus, 1993; Lazarus e Folkman, 1984). Le Strategie di Coping sono, dunque, le modalità che definiscono il processo di adattamento ad una situazione stressante. Tuttavia esse non garantiscono il successo di tale adattamento. Infatti il Coping, se è funzionale alla situazione può mitigare e ridurre la portata stressogena dell’evento, ma, se è disfunzionale ad essa, può anche amplificarla.
Ma cosa si intende per coping? Quando si parla di coping ci si riferisce all’insieme degli sforzi cognitivi e comportamentali attuati per controllare specifiche richieste interne e/o esterne che vengono valutate come eccedenti le risorse della persona (Lazarus, 1991). Si evincono da tale definizione quelle che sono le caratteristiche distintive del coping:
· è un processo dinamico, in quanto è costituito da una serie di risposte reciproche, attraverso le quali ambiente e individuo si influenzano a vicenda,
· comprende una serie di azioni, sia cognitive che comportamentali, intenzionali, finalizzate a controllare l’impatto negativo dell’evento stressante.
Il coping, inoltre, svolge diverse funzioni fondamentali in base alle quali può essere suddiviso in diverse tipologie:
1 Emotion-focused coping, che consiste nella regolazione delle reazioni emotive negative conseguenti alla situazione stressante;
2 Problem-focused coping, che consiste nel tentativo di modificare o risolvere la situazione che sta minacciando o danneggiando l’individuo (Lazarus, 1991; Lazarus e Folkman, 1984). Questa distinzione è abbastanza prevalente in letteratura e, sulla base di questa, Lazarus e Folkman nel 1980 (Heinemann, 1995) hanno elaborato un questionario, il Ways of coping checklist (WCC), suddiviso in due sottoscale che misurano, appunto, l’emotion-focused coping e il problem-focused coping. Esso è costituito da 68 affermazioni che rappresentano le diverse modalità che un individuo può o meno utilizzare per far fronte ad un evento stressante. I soggetti devono indicare se usano o meno ognuna delle strategie proposte. Successivamente i due autori hanno rielaborato tale questionario, in quanto diversi studi avevano rilevato l’eccessiva semplicità della formula fattoriale. Così nel 1985 Lazarus e Folkman ne propongono una nuova versione, il Ways of Coping Questionnaire (WCQ), che è costituito da 66 items, ad ognuno dei quali il soggetto deve rispondere in base ad una scala Likert a 4 punti. Questo strumento è suddiviso in otto sottoscale, che rappresentano le diverse modalità di coping che possono essere messe in atto di fronte ad una situazione stressante:
· 1 scala di risoluzione programmata del problema,
· 1 scala di ricerca di sostegno sociale,
· 6 scale focalizzate sulle emozioni.
Infine, partendo dal lavoro di Lazarus e Folkman, nel 1990 Endler e Parker hanno individuato tre tipologie di coping predominanti:
1 coping centrato sul compito (task coping): è rappresentato dalla tendenza ad affrontare il problema in maniera diretta, ricercando soluzioni per fronteggiare la crisi;
2 coping centrato sulle emozioni (emotion coping): rappresentato da abilità specifiche di regolazione affettiva, che consentono di mantenere una prospettiva positiva di speranza e controllo delle proprie emozioni in una condizione di disagio, oppure di abbandono alle emozioni, come la tendenza a sfogarsi o, ancora, la rassegnazione;
3 coping centrato sull’evitamento (avoidance coping): rappresentata dal tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema.
Partendo da tale classificazione Endler e Parker hanno costruito e validato uno strumento, oggi, molto utilizzato e che è stato, peraltro, impiegato anche nel presente lavoro di tesi, selezionandone, però, soltanto alcune scale. Si tratta del Coping Inventory for Stressful Situation (CISS, 1990). Esso è composto da 48 items, che indagano le diverse modalità di reagire ad un evento difficile e stressante. Le risposte, da scegliere su una scala Likert a 5 intervalli (da “per niente” a “moltissimo”), vengono raggruppate nelle dimensioni sopra descritte (Task Coping, Emotion Coping e Avoidance Coping). Anche se il CISS non è stato creato specificatamente pensando alla malattia come evento stressante, è facilmente applicabile anche a questo contesto, sia per l’adattabilità delle domande sia perché gli items descrivono modalità di reazione osservabili anche nel corso di una malattia. L’impiego di questi strumenti in ambito clinico ha permesso di rilevare che le modalità con cui una persona affronta la sua malattia influenzano significativamente il suo benessere psicofisico. In particolare gli studi sugli stili di coping nel corso di malattie croniche (Scharloo, Turner, Jensen e Romano, 2000) hanno evidenziato che l’essere attivi, il pensare positivamente e l’esprimere le proprie emozioni correla positivamente con livelli di funzionamento significativamente più alti, con punteggi più positivi nelle misure cliniche della malattia e con migliori livelli di adattamento psicologico. Nell’ambito degli studi sulle strategie di coping nel corso di malattie croniche, si colloca il lavoro di Brown e Nicassio (1987) sulle modalità di coping dei pazienti con dolore cronico. Essi propongono una formulazione delle tipologie di coping alternativa rispetto a quella tradizionale, proposta da Lazarus e Folkman. I due autori, infatti, descrivono due principali strategie di coping:
1 strategie attive di coping: rappresentate dal tentativo del paziente di controllare in qualche modo il proprio dolore (per esempio, facendo gli esercizi consigliati dal terapista) oppure dal tentativo di mantenere un buon livello funzionale, nonostante il permanere del dolore stesso,
2 strategie passive di coping: per cui il paziente lascia il controllo del proprio dolore ad altri o permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore.
Secondo tale formulazione la differenza fondamentale tra strategie attive e passive si fonda, quindi, sul fatto che il paziente faccia affidamento su risorse interne a sé o esterne nella gestione del proprio dolore. Brown e Nicassio nel 1980 hanno, inoltre, elaborato uno strumento self-report, il Vanderbilt Pain Management Inventory, molto breve e di facile somministrazione, finalizzato ad indagare le dimensioni sopra descritte (strategie di coping attive e passive). Esso è composto da 18 items, ciascuno dei quali propone una strategia di coping che il paziente può o meno mettere in atto per far fronte al dolore (ad esempio, nel coping attivo troviamo la soluzione attiva del problema oppure la distrazione, mentre nel coping passivo ritroviamo la preghiera o la tendenza al catastrofismo). Il paziente deve indicare, scegliendo su una scala Likert a 5 intervalli, la frequenza con la quale mette in atto ognuna delle strategie proposte. Da studi trasversali e longitudinali (Jensen, Turner; Romano e Karoly,1991) è emerso che l’impiego di strategie di coping attive è associato a livelli più bassi di severità del dolore, di depressione e di disabilità funzionale, rispetto all’impiego di strategie passive. Tuttavia il limite di tale strumento sta nell’eccessiva semplicità, che non consente di analizzare adeguatamente la relazione tra coping e adattamento, in quanto accomuna sotto la stessa etichetta strategie che sarebbe, invece, importante distinguere, poiché non è detto che tutte le strategie passive siano ugualmente disadattive (Smith e Wallston, 1993). Ancora nell’ambito della ricerca sul dolore cronico è stato successivamente elaborato un altro strumento, il Coping Strategies Questionnaire (CSQ) (Rosenstiel e Keefe,1983), che comprende una gamma più ampia di strategie di coping. Anche se è stato inizialmente validato su un campione di pazienti con dolore cronico, esso può essere, tuttavia, applicato e adattato a qualsiasi malattia. Questo strumento è composto da 44 items che valutano sette strategie di coping: sviare l’attenzione, reinterpretare le sensazioni di dolore, pregare o sperare, essere catastrofici e incrementare il livello di attività. Due domande addizionali, inoltre, chiedono al soggetto di indicare 1) quanto controllo possiede sul dolore 2) quanto è abile nel diminuirlo. Ad ogni item il paziente deve rispondere scegliendo su una scala Likert a 7 intervalli. Infine recentemente Smith e Wallston (1994), attingendo da questionari di coping generali o specifici per il dolore cronico, hanno costruito un questionario che prevede una gamma ancora più ampia di strategie di coping. Si tratta del Vanderbilt Multidimensional Pain Coping Inventory. Esso prende in considerazione nove strategie di coping:
· soluzione attiva del problema,
· distrazione dal problema,
· uso della religione,
· minimizzazione del problema,
· sfogo di emozioni negative,
· autocolpevolizzazione,
· isolamento,
· catastrofismo,
· pensiero desideroso.
Dall’applicazione di tale questionario gli autori hanno rilevato un dato interessante: le diverse strategie di coping, siano esse attive o passive, interagiscono tra loro nel determinare risultati positivi. In altre parole il successo dell’adattamento alla malattia dipenderà dalla interazione tra i diversi stili di coping e dalla situazione a cui essa viene applicata. Ciò conduce alla considerazione che, in realtà, non esistono stili di coping adattivi o disadattivi a priori, in quanto strategie che possono risultare efficaci in una situazione, potrebbero non esserlo in un’altra e modalità reattive che risultano positive, se usate moderatamente e temporaneamente, possono divenire negative se usate in modo esclusivo (Zeidner e Saklofske, 1996). Si può quindi concludere che l’elemento essenziale per un buon adattamento allo stress, soprattutto nel caso di eventi stressanti duraturi nel tempo, sia la flessibilità nell’uso delle strategie di coping, la capacità, cioè, di non irrigidirsi su un’unica strategia, ma di riuscire a cambiarla qualora si dimostri inefficace e disadattiva.
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