C’è un fatto criminale nuovo. Un inedito, se vogliamo: non tanto per la sua tipologia di illecito penale, ma soprattutto per la diffusione incredibile che sembra avere. A sentire i giornali si direbbe che il fenomeno fuga a seguito di incidenti stradali sia ormai uno dei reati più comuni. Sono mutati i tempi, senz’altro, ma ora si scappa davvero di più: si parla di ventimila pirati della strada che ogni anno colpiscono e fuggono, spesso dopo aver ferito, spesso dopo aver ucciso. Un comportamento, che trae la sua origine dal cattivo comportamento sulla strada divenuta il Far West di tutti, al punto che diventa impossibile perfino tracciare un identikit sommario dell’individuo-conducente irrispettoso delle norme previste dal Codice della Strada. Così un sinistro stradale, che la nostra esperienza ci insegna essere nel 99% dei casi causato da infrazioni (gravi ma purtroppo comuni), fatto colposo per eccellenza, diventa il trait d’union verso un successivo comportamento doloso: la fuga, l’omissione di soccorso, altre violazioni al codice, il tentativo di far perdere le proprie tracce. Abbiamo in passato cercato di tirarne le somme, ma l’evoluzione rapida di questo fenomeno ci consente soltanto di fissare situazioni alla stregua di un fotogramma, dandoci a stento il tempo di analizzare i dati in nostro possesso. E di dati, anche questo lo dobbiamo dire, ce ne sono davvero pochi: si parla di ventimila episodi l’anno, e nel susseguirsi di clamori strappati alle cronache terribili, spiccano storie tragiche di ragazzi travolti e trascinati per chilometri, aggrappati sul cofano di un’auto, come è successo a Seveso il 23 ottobre scorso, o di pensionati travolti più volte nel tentativo dell’assassino di scrollarseli di dosso, come recita il bollettino di alcuni giorni più tardi relativamente ad un fatto accaduto a Gambettole, nel forlivese. Tale condotta, se operata da un serial killer, sarebbe definita over killing, volontà omicida che prosegue anche dopo l’atto volontario letale. Bestie ferite, impaurite forse: ma sempre bestie e i pirati devono pagare i crimini commessi. La loro impunità mette a rischio il concetto stesso di civiltà al quale sembriamo esserci tanto attaccati dal triste 11 settembre dello scorso anno. Un comportamento del genere sarebbe stato punito migliaia di anni fa già dall’efficiente e antica polizia egizia del deserto di Ramses, mentre oggi chi uccide e scappa, quando viene individuato, la passa puntualmente liscia. Esempi? Centinaia, forse migliaia. Uno per tutti: il 27 agosto 1995 Paolo Urbano percorre in sella al suo motorino via Colombina, a Campi Bisenzio, nell’hinterland fiorentino. Indossava regolarmente il casco, ma tanta prudenza non gli servì perché una Panda a folle velocità gli passò sopra, lasciandolo agonizzante. Lottò contro la morte, per la vita, 27 interminabili giorni prima di mollare, mentre il suo investitore, non visto da alcuno e individuato solo a distanza di tempo, stava accoccolato su una spiaggia di Ibiza a godersi la vita dopo averne cancellata una. Alla fine il pirata è stato condannato a cinque mesi e dieci giorni, pena ovviamente sospesa, mentre la patente gli è stata tolta per due mesi. Se non ci fosse di mezzo la vita di Paolo e il dolore di sua madre, che da allora non ha mai smesso di lottare contro questo clamoroso impeachment legislativo, verrebbe da ridere. Ma non c’è spazio per l’ironia. Il sottosegretario all’Industria Mauro Fabris, padre ispiratore della legge sul casco, ha dichiarato in un’intervista al Quotidiano Nazionale, che per chi scappa dopo un incidente ci vuole la galera. Lo stesso Fabris, che dimostra di prendere sul serio i verbali di rilievo di sinistro della Polizia Stradale, nei quali si evince che l’evento infortunistico è causato in larga parte dall’incapacità di mantenere il controllo dei veicoli a causa della velocità troppo elevata o dall’assoluta inosservanza delle principali norme di comportamento, elenca in quella stessa intervista una lunga serie di mancanze, costituite da vuoti istituzionali e carenze legislative. Vediamo però di entrare nel dettaglio e di intraprendere un’analisi del fenomeno fuga, tentando di aggiornare l’identikit sociale del Pirata della Strada e di fornire anche alcune interpretazioni psicologiche del meccanismo interiore che potrebbe scatenare la fuga da uno scenario del quale si è sicuramente responsabili.
LA TRAGEDIA QUOTIDIANA
I dati Asaps sarebbero già di per sé allarmanti, se è vero che in una società che intenda definirsi civile è inaccettabile rilevare che presso i soli reparti di Polizia Stradale sono state presentate nel corso del 2000 la bellezza di 2.592 denunce per omissione di soccorso. Partendo dal presupposto ormai assodato che la Polizia Stradale lavora praticamente solo in autostrada o su arterie di grande comunicazione, riteniamo attendibile la corrente che vuole fissati in circa 20.000 casi le omissioni consumate ogni anno in Italia: in quest’assurdo bollettino da Twin Towers, “solo” 900 morti sono pedoni, massimi rappresentanti della cosiddetta Utenza Debole. Altre cifre non le vogliamo citare, perché non siamo un istituto demoscopico in lotta con altri e non possiamo improntare una ricerca di questo tipo solo sui numeri. I morti provocati dai Pirati della Strada sono tanti, nell’ordine delle migliaia, punto e basta. Poco ci interessa sapere se i pedoni, i ciclisti, i ciclomotoristi, quelli più classicamente alla mercé dei Pirati, muoiono di più a Milano o a Palermo, se al momento dell’impatto indossavano il casco o se impegnavano un incrocio. Il loro sangue è per terra, a disposizione di tutti, basta voler guardare. E allora facciamoci coraggio e guardiamo. L’autunno caldo del Pirata ha portato in prima pagina dieci casi eclatanti in poco più di un mese. Troppi, al punto che anche il celebre settimanale “Panorama” ha consultato la nostra associazione per sapere il nostro parere. Cosa ne pensiamo? Riteniamo che la legge sia blanda, che la pena prevista sia ridicola, che il deterrente non esista, come non esiste la vera educazione stradale: la norma lo prevede, ma alla Pubblica Istruzione non ne vogliono sapere, bontà loro. Vediamo una cosa per volta: la semplice fuga dallo scenario del sinistro è sanzionata amministrativamente dal Codice della Strada, quando non vi sia concomitanza con fatti più gravi: lesioni o morte, tanto per dirla breve. In questo caso il colpevole rischia anche l’arresto, ma è più una questione di moralità per il poliziotto che mette le manette al “killer suo malgrado” che un’effettiva punizione. Dopo la convalida della misura precautelare l’indagato potrà tornarsene in giro, esibire la fedina che resta quasi immacolata, quando non venga applicata la non menzione, e riprendersi la patente. A nostro modesto parere il Pirata della Strada è il risultato di una miscela di mancata educazione, di scarsa preparazione e conoscenze giuridiche, unite alla totale assenza di requisiti psicofisici. A questi soggetti che, tutto sommato, pur con nostro rammarico, potrebbero essere considerati ancora in buona fede, aggiungiamo il campione offerto da delinquenti comuni, da ricercati, da extracomunitari privi di patente e da altri personaggi privi della copertura assicurativa, o più semplicemente da conducenti in stato di ebbrezza alcolica o da sostanze stupefacenti, i quali, pur essendo in grado di coordinare braccia e gambe per i comandi dell’auto e di ragionare in funzione del proprio stato allorquando venissero sottoposti a controlli di polizia, potrebbero anche cavarsela con una segnalazione amministrativa, un processino ai sensi degli articoli 186 o 187 del Codice della Strada e l’incapacità di intendere e di volere per tutto il resto. Visto lo scenario – e qui se ci viene consentito parliamo da poliziotti – di soggetti citati che sono continuamente in giro per le strade, il cocktail mortale è presto fatto. Quotidianamente persone corrispondenti al sommario identikit che abbiamo sopra fornito, investono qualcuno e poi scappano: di questi più o meno solo uno su tre viene individuato. E anche se viene beccato? L’azione penale farà il suo corso, ma tra avvocati e leggi praticamente solo simboliche, difficilmente si potrà dire “giustizia è fatta”. In effetti un Pirata individuato, anche se dichiarato in arresto, trascorre in guardina non più di un paio di giorni, salvo che non abbia commesso altri reati più gravi; nonostante la norma preveda l’arresto fino a 12 mesi, una multa fino a 2 milioni (!!!) e la sospensione della patente di guida fino ad un anno (!!!), al momento di andare in dibattimento, il reo preferisce nella stragrande maggioranza di casi ammettere la propria colpa e beneficiare del rito abbreviato, con il risultato che quella pena massima (fino a 2 anni di carcere per lesioni e 5 anni di carcere per omicidio colposo) sarà notevolmente diminuita e il condannato finisce col pagare una pena pecuniaria.
GIUSTIZIA È FATTA?
Mai. Se si eccettuano i casi anomali dell’albanese Bita Panajot, sulla cui figura abbiamo incentrato la nostra precedente inchiesta e che uccise un ragazzino a Roma, fuggendo e commettendo in seguito ogni tipo di reato e che trascorse in galera qualche mese, o il caso del suo connazionale Ardian Ostrovica, che nei pressi di Pisa, mentre inseguiva ubriaco fradicio ed a folle velocità un altro albanese per ucciderlo, si scontrò con l’auto di tre ragazze (tutte morte sul colpo) finendo poi con l’essere condannato a 20 anni, il resto è davvero ridicolo. Alla luce di fatti come questi è possibile affermare che praticamente solo in concomitanza di eventi in grado di suscitare forti emozioni, sdegno o allarme sociale, ci si può ritenere soddisfatti delle punizioni (ammesso che una punizione possa di per sé soddisfare). D’altro canto la cronaca, che ci viene puntualmente in aiuto, segnala anche altre tendenze: in generale le punizioni sono ridicole ed in alcuni casi, se l’investito è un extracomunitario e il pirata un italiano, si può arrivare anche a sentenze clamorose. È il caso di un cinquantenne bergamasco, Antonio Detta, che all’inizio dello scorso anno investì un giovane marocchino fuggendo. Beccato, subì il peso di una giustizia che lo condannò a 20 giorni di reclusione e un milioncino e mezzo di multa; pena, ovviamente, sospesa. Così, mentre in Parlamento ci si scanna neanche tanto onorevolmente per la separazione delle carriere e i mandati di cattura internazionali, questo stillicidio continua. È forse l’aggettivo colposo che allontana così tanto il diritto di giustizia? Forse no. Proprio mentre scriviamo assistiamo all’ennesimo colpo di scena processuale nel triste calvario della famiglia di Marta Russo, la giovane studentessa uccisa all’Università di Roma 4 anni fa. Quante famiglie come quella di Marta dovranno subire analoga tortura prima che qualcuno non si decida ad oliare i meccanismi di un’amministrazione così lenta e a volte incomprensibile come quella della Giustizia? Criticherà, l’osservatore attento, il nostro chiaro atteggiamento di parte. Ma è nostro diritto, perché siamo noi a tracciare quei lugubri segni col gesso sull’asfalto attorno ai “corpi straziati”, vittime di killer senza nome; e siamo noi a bussare alle porte elle famiglie o a far trillare il telefono nella notte.
IDENTIKIT DI UN ASSASSINO
Sarebbe più corretto “identikit degli assassini”, perché se alla fine il risultato è sempre lo stesso, le energie che animano questi killer senza nome sono davvero tante; talmente tante che a questo punto sarebbe opportuno avviare il motore di un osservatorio specifico del fenomeno, composto da psicologi e sociologi, da legali ad analisti e gente di mestiere. Infatti nel corso di studi che abbiamo condotto si è stati in grado di rilevare che non esiste una semplice categoria di pirati della strada: è più corretto dire che una certa tipologia di reati, uniti nella loro commissione da una sorta di nesso di casualità, sono perpetrati da più categorie di utenti-conducenti. E’ come se tante strade venissero percorse per raggiungere la stessa località. E a parer nostro questa condotta criminale è solo uno dei mali di cui soffrono, senza distinzione di età, sesso o razza, i componenti anche clandestini della nostra società, perché sia chiaro che ci sono tanti clandestini retti, che non fuggono davanti alle proprie responsabilità: sì, abbiamo detto proprio questo. Guardiamoci in faccia e tiriamo fuori il marcio: grattiamo. Scopriamo, a patto che la nostra possa essere una riflessione condivisa, che non è solo un problema di fare l’identikit del pirata della strada. La cronaca ci ha infatti insegnato che il pirata è un giovane e un adulto, un clandestino povero in canna e un italiano benestante, tanto per dirne quattro. Forse in prevalenza uomini sopra i 33 anni, ma non riusciamo a trovare riscontri statistici in questa media proposta da una trasmissione radiofonica, e poi le statistiche – lo abbiamo detto – non ci interessano. Non è che forse il male è quello di una società che alleva i suoi rampolli in confortevoli habitat fatti non di troppe parabole e computer, di belle auto e fiction surreali, ma soprattutto di troppi “sì”? Noi poliziotti, qualche anno fa, fermavamo i ragazzini in motorino e poteva scapparci un rimbrotto, o magari anche la multa, soprattutto quando andavano di moda i cinquantini che diventavano ottantini, con carburatore da 19mm (invece del 14-12), con le marmitte rumorose. Arrivava un padre o una madre e minimo ci scappava un urlo, a volte un ceffone. Senza entrare in merito all’opportunità propedeutica di mollare uno schiaffo al figlio, di sicuro il ragazzino era davanti alle proprie responsabilità, senza alcuna difesa se non la propria. Oggi, se fermi un ragazzo con lo scooter elaborato e il casco indossato “alle ore 12”, appoggiato pericolosamente alla base del rachide cervicale, la cui frattura comporta la tetraplegia, non hai diritto di sgridarlo, perché rischi di finire in tribunale, alla sbarra. Né lo farà il genitore, che tirerà fuori una frase del tipo “sono le compagnie”, o un più semplice “faccia quello che deve fare e rimproveri i suoi, di figli, al mio ci penso io. E tu stai tranquillo, ci pensa papà, faccio ricorso”. Così, con una generazione dopo l’altra, il ragazzo cresce con la consapevolezza che è meglio tentare di farla franca, in generale. Certo, in generale il pirata fugge per paura delle conseguenze, ma paradossalmente – a nostro parere – non per la paura di dover affrontare il giudice, ma solo perché avrebbe la patente sospesa o perché ha preferito, pur di utilizzare l’automobile, andarsene in giro senza assicurazione, ubriaco o drogato. Che tristezza. E’ dunque un problema culturale? Sociologico? È davvero una questione di irresponsabilità diffusa? D’altra parte siamo cresciuti con Ustica. Abbiamo fallito nel cercare l’identikit del pirata della strada, perché non è possibile tracciarne i contorni. Questi stanno nella stessa società in cui viviamo e di cui facciamo parte. Tutti noi, ammettiamolo, corriamo in autostrada o in città. Tutti noi non mettiamo sempre le cinture o lampeggiamo quando notiamo una pattuglia intenta a far controlli. Sono atteggiamenti trasgressivi, che fanno di noi tanti piccoli pirati.