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Mente

Orfismo, rapsodie e aspetti latenti nelle origini dell’idea di Europa

Parole chiave: Antropologia, Economia, Europa, Inconscio, Rapsodia, Viaggio.
Abstract: L’Orfismo è un tratto unificante della cultura occidentale, i cui elementi costitutivi appaiono attraverso un’interpunzione che costella le arti e il pensiero, trasparendo come in filigrana mediante il costante richiamo ad un sistema mitico-simbolico che ne costituisce il nucleo fondamentale. Tuttavia, a dispetto di questa diffusione profonda e generalizzata, la linea egemone della cultura occidentale rifiuta di riconoscere questo ruolo all’Orfismo, relegandolo in una posizione di relativa marginalità, se non di assoluta damnatio memoriae. L’intransigenza del passato, l’inclusione dell’Orfismo tra le eresie, sono ragioni storiche che non impediscono di vedere in trasparenza l’elemento unificante che racchiude epoche, luoghi e stili diversi, dovendo includere tra questi punti decisivi come la genesi stessa dell’idea d’Europa. Cogliendo queste connessioni, non è difficile avvicinarsi al nucleo fondamentale dell’Orfismo, che consiste soprattutto in una geografia simbolica chiamata ad evocare la sorgente della memoria ed i suoi fiumi. Questi fiumi, irreali e tuttavia presenti nella letteratura europea ancor più di quelli veri, persistono nell’immaginario attraverso le elaborazioni dei più grandi poeti e trovano corrispondenze formidabili nei remoti testi dell’antichità: e qui basterà accennare al fatto che nell’Antico Testamento, il nome attribuito al Mediterraneo è Acheronte e che questo simbolismo si aggancia al mito mesopotamico del fiume che collega la terra al cielo.
Una presenza lieve.
Il concetto d’Europa, sin dal nome, trae origine da un mito orientale. Figlia del re fenicio Agenore, della stirpe di Oceano, la leggenda vuole che Europa fosse rapita da Zeus, trasformatosi in un toro bianco.
Così Zeus la portò sulle sue spalle, prendendo il largo nel mare al tramonto, conducendola con sé sulla rotta delle isole, tra vulcani in fiamme e lussureggianti foreste sulle rocce nere.
Agenore mandò Cadmo, Fenice e Cilice, i fratelli d’Europa, che la cercarono ovunque: e da questa ricerca mai più http:\\/\\/psicolab.neta fu uguale a ciò che era stato, ed anche loro non tornarono più a casa, divenendo fondatori di colonie.
Accanto alla ragione storica che può agilmente leggere il motivo simbolico del processo di espansione, di viaggi, di ricerca e di fondazione di nuove colonie che caratterizzò la Grecia dell’VIII-VII sec. a.C., la leggenda è comunque affascinante e misteriosa per il senso della sua inafferrabile necessità.
L’Orfismo, che di queste leggende è il veicolo nella storia dell’arte, non può essere semplicemente ricondotto ad un’origine e consegnato ad un’entità storicamente chiusa. Le immagini d’Europa raffigurate da pittori insigni come Guido Reni e Gustave Moreau sono intenzionalmente, dichiaratamente orfiche.
L’Orfismo è la corrente artistica che costituisce il più straordinario tratto unificante della cultura occidentale, i cui elementi costitutivi appaiono attraverso un’interpunzione che costella le arti e il pensiero, trasparendo come in filigrana mediante il costante richiamo ad un sistema mitico-simbolico che ne costituisce il nucleo fondamentale. Tuttavia, a dispetto di questa diffusione profonda e generalizzata, la linea egemone della cultura occidentale rifiuta di riconoscere questo ruolo all’Orfismo, relegandolo in una posizione di relativa marginalità, se non di assoluta damnatio memoriae.
Ancora in età rinascimentale, ritrovate fonti preziosissime in seno all’Accademia Platonica di Firenze, Marsilio Ficino esitava a renderne pubbliche le traduzioni, per il rischio d’essere accusato d’eresia.
L’intransigenza del passato, il confinamento dell’Orfismo tra le dottrine esoteriche, l’inadeguatezza delle categorie religiose di fronte al progredire della scienza, sono ragioni storiche che non impediscono di vedere in trasparenza l’elemento unificante che racchiude epoche, luoghi e stili diversi, dovendo includere tra questi punti decisivi come la genesi stessa dell’idea d’Europa.
L’apertura al trascendente.
L’Orfismo è una dottrina del trascendente che possiede ascendenze e radici antichissime, con un tronco ampio e robusto nella Grecia classica e ramificazioni salde e possenti nelle più alte espressioni del pensiero occidentale. Tuttavia, a dispetto della sua dimensione ed estensione, resta una concezione misconosciuta, relegata in una posizione di latenza, marginale rispetto ai grandi flussi ed alle correnti secondo cui viene tradizionalmente rappresentata la cultura occidentale.
Con una citazione che offre un perfetto esempio rispetto a questo status di marginalità, in un diffuso dizionario di filosofia (Abbagnano, 1971), al lemma Orfismo, si legge:  “Una setta filosofico-religiosa assai diffusa nella Grecia a partire dal sec. VI a.C. e che si riteneva fondata da Orfeo. La credenza fondamentale della setta era che la vita terrena fosse una semplice preparazione per una vita più alta, che poteva essere meritata per mezzo di cerimonie e riti purificatori, che costituivano l’armamentario segreto della setta. Questa credenza passò in diverse scuole filosofiche della Grecia antica (Pitagorici, Empedocle, Platone); ma l’importanza attribuita da alcuni filologi e filosofi, nei primi decenni di questo secolo [s’intende il Millenovecento, nda], all’O. nella determinazione dei caratteri della filosofia greca non viene riconosciuta da alcuno.”
Il giudizio drastico contenuto nella parte finale del brano sopra riportato lascia trasparire qualcosa di viscerale e di profondo, quasi una damnatio memoriae con cui la cultura egemone ha voluto precludere lo sguardo e l’interesse per l’indagine e la ricerca dei contenuti e delle implicazioni dell’Orfismo.
Eppure nell’Orfismo trovano collocazione alcune figure mitopoietiche fondamentali che costituiscono gli archetipi della cultura occidentale. Il nucleo saldo intorno al quale questi sono intessuti è il sistema dei fiumi dell’Ade: Leté, Acheronte, Flegetonte, Cocito, Eunoé; in breve, si tratta di un immaginario che costituisce l’infrastruttura onirica su cui hanno proiettato la propria opera sommi poeti come Virgilio, Dante, Milton, Goethe, Rilke, Pessoa (con innumerevoli derivazioni e diramazioni nell’arte europea) per descrivere le dimensioni ulteriori dell’esistenza.
Caratteri e forme.
La struttura in forma di Inni delle più antiche testimonianze orfiche, unitamente al contenuto dottrinale che ne veicola una compiuta teogonia, rimanda alle più remote radici d’Oriente. Come nota G. Faggin (Faggin, 1986), “tutti indistamente gli Inni presentano un carattere liturgico e cultuale, ma non sono molti quelli (…) che abbiano stretti rapporti con la teologia antichissima, rapsodica”.
Le rapsodie orfiche costituiscono strutture narrative non sistematiche, immagini spezzate di una teogonia in cui gli elementi mancanti sono lasciati all’intuizione di chi le ascolta, con l’intenzione manifesta di offrire sostegno e stimolo al recupero di funzioni di memoria latenti, rievocando tracce mnestiche che hanno l’effetto di lambire forme pure del pensiero, archetipi dell’inconscio collettivo.
Il carattere rapsodico della forma narrativa mette in gioco una forma lirica il cui elemento di suono fondamentale è il incedere del tamburo, con una voluta dimensione di allineamento sui battiti del cuore. Questo impianto riconduce al modello arcaico di svolgimento delle sacre cerimonie tra i quali s’impone, per antichità, celebrità e diffusione, quello sviluppato in Mesopotamia (frutto di un complesso processo di derivazioni e stratificazioni, che riguardano antichissimi modelli sumeri ed assiri) la cui forma più compiuta e nota è il rito dell’anno nuovo celebrato in Babilonia (Castellino, 1977).
Questo rito dell’anno nuovo consisteva nella recitazione dell’ Enuma Elish, il poema della nascita degli dei, accompagnato da suoni di cembali, tra cui quello che teneva il tempo fondamentale, percosso con un bastone.
Radici insondabili.
Esaminando la struttura dell’Enuma Elish (cfr. L.W. King, 1902), il primo rilievo che emerge è che questo poema costituisce certamente il contenitore in cui sono precipitati Inni più antichi cui si è data forma unitaria, assumendo così la struttura di memoria di un trapassato remoto che ritorna, trasfigurato in simboli, come teogonia, come racconto della nascita degli dei.
La teogonia in quanto racconto della nascita degli dei conosce una molteplicità di varianti, che inducono a ricordare la lezione dell’antropologia strutturale in base alla quale un mito è composto dall’insieme delle sue varianti e che non esiste una versione “vera”, poiché tutte le versioni appartengono al mito (Lévi-Strauss, 1998); il metodo strutturale conduce poi al confronto degli scarti differenziali che sussistono tra le varianti.
Lo “scarto zero” e cioè la regolarità di fondo che si incontra tra le diverse versioni offerte dalle teogonie orfiche (antiquissima o aristotelico-eudemea, hieronymiana-damascena, rapsodica) poste a confronto con opere consolidate nella forma e nella testimonianza storico-letteraria quali la Teogonia di Esiodo o l’ultimo racconto di Socrate, pone la necessità di prendere atto di questa sorgente di memoria per la quale la nascita degli dei traduce queste entità in forze naturali che hanno origine dal caos originario.
Questa “invariante” rende chiaro il rapporto di omologia che sussiste tra le teogonie orfiche e le remote radici mesopotamiche, dove il caos è rappresentato dal drago dell’abisso Tiamat. Sull’equivalenza tra Tiamat e l’immagine dell’abisso espressa dal termine ebraico Théom, che appare al secondo versetto del libro della Genesi, sono stati versati fiumi d’inchiostro per mettere in evidenza la continuità logica e dottrinale tra il mito della creazione del mondo quale appare al principio dell’Antico Testamento e l’omologo contenuto nell’ Enuma Elish (cfr., ad esempio, Graves-Patai, 1988).
I fiumi dell’altrove.
Un’equivalenza che non può non essere osservata è quella segnalata dal nome con cui il Mar Mediterraneo viene denominato in lingua ebraica, che è esattamente Acheron. Il segnale di questa identità trasforma il mito di questo fiume dell’Ade ad una identità sublime, che ricongiunge la terra al cielo (cfr. De Santillana-Von Dechend, 1983) legandoli con le corde di Tempo e Necessità.
Questo fiume primevo, attraverso il nome Hubur che assume nel poema mesopotamico Enuma Elish riconduce poi alle antichissime forme rituali, poste in essere dai suoi sacerdoti, i misteriosi Habiru, gli inafferrabili Cabiri, chiamati anche Kureti o Coribanti (Kerényi, 1979).
Discesa nell’abisso.
Strettamente collegati ai misteri della Grande Madre, i Cabiri assumono un ruolo centrale nello sviluppo delle forme rituali, di cui sono i sacerdoti arcaici. La metamorfosi del loro nome in Coribanti rende esplicita la natura di questi rituali nella forma di celebrazioni fortemente connotate da danza e musica, in una dimensione nella quale ciascuno dei partecipanti ammessi, in base al grado della propria esperienza e delle proprie abilità e conoscenze, aveva un ruolo attivo.
Percuotitori di tamburi e di metalli, i Cabiri sono i sacerdoti di un arcaico culto matriarcale che sopravvisse trasformandosi secondo il modello dell’Enuma Elish e dei Misteri di Eleusi. Cabiria, la Gran Madre degli Dei, è una divinità femminile che, per un eccesso d’amore, giunge ai confini del mondo. L’originaria forma del racconto, assume l’identità tra il fiume Hubiru e il drago Tiamat. Il fiume celeste viene poi trascinato in Apsu, il profondo abisso. Questa antichissima versione del mito venne poi riletta e adattata in forma umana attraverso le figure di Ishtar e Persefone, conservando però il tratto originario della discesa agli inferi.
Prima del teatro.
Da Persefone nacque un figlio: Dioniso. Con Dioniso (che equivale in modo pressoché perfetto al babilonese Tammuz) si entra nel cuore di quei rituali celebrativi che presiedono alla trasformazione moderna dei riti arcaici. Dioniso è ancora un’entità intermedia che rappresenta il furore estatico, l’esaltazione dell’ebbrezza derivante dalla carne e dal vino. L’assorbimento telestico delle divinità nel corpo dei sacerdoti-sciamani che presiedono al rito è totale, ancora priva di un’intermediazione simbolica.
Un più compiuto livello di definizione propriamente artistica, con la sostituzione di incensi profumati ai sacrifici di animali e la recitazione coreutica, giunse propriamente con Orfeo, che di Dioniso si ritenne sacerdote (Schuré, 1989); alla sua opera e a quella dei suoi continuatori si deve la cristallizzazione formale degli Inni ed il loro successivo compiersi nella forma delle sacre rappresentazioni sul modello dei Misteri.
Questi Misteri, tra i quali per antonomasia quelli di Eleusi, con forme parallele e analoghe che furono proprie del genio di Empedocle e di Stesicoro, costituirono il veicolo di un sapere che veniva trasmesso attraverso l’ammissione ad una esperienza diretta.
L’ antropologia applicata al teatro.
Sotto il profilo artistico, si tratta di una concezione che precede il teatro. Teatro, infatti, è un termine che presuppone un osservare. Questa concezione si riflette anche nella struttura scenica: il teatro spezza il verificarsi dell’evento in due luoghi, separando chi esegue l’azione (l’attore) da chi la osserva (lo spettatore). Diversamente, la celebrazione orfica è un sistema in cui il cerchio è perfetto e non c’è separazione tra attori e spettatori.
Di più: si tratta di un sistema in cui l’evento è preparato da una processione che conduce i diversi partecipanti all’evento (divisi in cori, secondo il grado, i.e.: novizi, esperti, maestri) al luogo designato, dove li attende l’unificazione delle anime attraverso il battito del tamburo e dei sistri, delle siringhe e degli aulós, unitamente a qualcosa di ulteriore che viene espresso attraverso maschere, gesti ieratici e danze sacre.
L’applicazione al teatro delle categorie di ricerca etnologiche ed antropologiche ha fortemente contribuito al recupero di queste nozioni, non soltanto da un punto di vista teorico, ponendo l’accento sul fatto che un’esperienza non è mai completamente posseduta se non viene espressa attraverso azioni che la completano. Victor Turner in particolare (Turner, 1982) ha espresso questo concetto portandolo alle sue più chiare conseguenze: ricondurre il teatro ad un’istanza che precede la divisione tra spettatori e attori è un processo di retribalizzazione che infrange l’ordine costituito dello star-system e della macchina di produzione, generando la possibilità – anche sulla base della diffusione delle tecnologie e della loro crescente accessibilità – di fare dell’esperienza artistica un patrimonio condiviso, un’esperienza spirituale.
Esperienze, viaggi, iniziazioni, riti di passaggio.
Questa idea di confronto, condivisione e diffusione di conoscenze che gravitano intorno ad un teatro da vivere soggettivamente come esperienza diretta è qualcosa che già di fatto avviene in gruppi ristretti ma solidamente ramificati in sentieri internazionali (cfr. Barba-Savarese, 1991), capaci di andare al di là delle convenzioni linguistiche assumendo caratteri che collegano gesto e suono, ed operando in funzione dell’attivazione di automatismi per il recupero di tracce mnestiche di memoria inconscia.
L’effetto che ne deriva è quello di mettere in relazione tratti unificanti delle cultural heritages mediterranee ed europee e si traduce nell’opportunità, concreta ed attuale, di attuare percorsi avanzati per la costruzione di viaggi intelligenti che possono assumere le caratteristiche di esperienze guidate, stages, soggiorni speciali, workshop e performances.
Concezioni orfiche nelle origini dell’idea di Europa e attualità dei temi.
L’intendimento è quello di sollecitare operazioni orientate a contribuire alla costruzione di importanti nozioni connesse all’identità culturale, ai temi del rispetto delle diversità, dei diritti umani e di una nozione allargata di cittadinanza attiva.
Eduard Schuré, altro grande alfiere dell’Orfismo nel mondo moderno, sostenne sempre che l’Europa di una comune identità culturale avrebbe dovuto nascere da manifestazioni internazionali fondate sul teatro, alle quali far partecipare quanta più gente possibile, per coinvolgere l’anima delle persone in un modello di relazione più ampio, di più grande respiro.
Il simbolismo orfico – secondo il quale la nostra vita nel mondo non è che uno stato impermanente che è funzionale a renderci forti attraverso le prove della coscienza – richiede non una astratta negazione del mondo ma, pur comprendendone la consistenza transeunte, lo sforzo civile, sociale e politico di un impegno necessario a produrre quelle condizioni di consapevolezza senza le quali non sono possibili autodeterminazione e libertà, comprensione e rispetto.
Indubbiamente – e intenzionalmente – c’era un respiro orfico quando i padri della moderna Europa (cfr. Chabod, 1989) sostenevano che l’unificazione del Vecchio Continente doveva condurre ad affermare la Società degli Spiriti, e cioè uno spazio dove sia possibile affermare le condizioni perché per ogni uomo e per ogni donna vi sia la possibilità di progredire materialmente, intellettualmente e spiritualmente.

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Davide Crimi

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