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Scuola

Quinto Orazio Flacco e gli Adolescenti: un cortocircuito intramontabile

In un momento storico di trionfalistica affermazione scientifica e tecnologica, come interagire con la crescita interiore dei giovani? Quali esempi tangibili somministrare loro? Quali angoli della loro anima illuminare? Quali impliciti ammonimenti rivolgere? Quali codici innestare? Quali input potranno spingerli a erigere “monumentum aere perennius” (Orazio, Carm. III,30), un’opera scultorea più duratura del bronzo che “non imber edax”, non la pioggia che corrode, “non Aquilo inpotens”, non il vento di tramontana sfrenato, “possint diruere” (Orazio, Carm. III,30), potranno distruggere? Esortarli ad agire, a lottare, a confrontarsi, a celebrare “pudicum” (Orazio, Serm. I,6), l’onestà, “primus honos virtutis” (Orazio, Serm. I,6), cardine di ogni virtù, “qui servat non solum ab omni facto” (Orazio, Serm. I,6), che preserva non solo da ogni azione, “verum opprobrio quoque turpi” (Orazio, Serm. I,6), ma anche da ogni vergognoso pensiero … “Sono questi gli imperativi a cui la scuola e la famiglia, stringendosi la mano, devono riservare massima attenzione per guidarli e invitarli a mettersi in discussione, sempre e comunque” (M. Perriera, Psicolab, Marzo 2010).
Un fertile vivaio di spunti e di temi viene da Orazio, un artista fiero, indipendente, emancipato, vicino spiritualmente all’hic et nunc del XXI secolo, stupendamente contestualizzabile, “riflesso perenne di un’esistenza complessa, di un reticolo fittissimo di esperienze ed emozioni che è lecito vivere intensamente” (Portale antica Roma, Wikipedia, 2009), anche se, spesso, i protagonisti dell’avvenire vivono “lo studio della lingua latina come un dovere professionale faticosamente imposto, anacronistico e assimilato spesso con disappunto” (U. E. Paolida, Avventure e segreti del mondo greco e romano 1960).
“Nulla appare così difficile come penetrare nell’animo del grande di Venosa ” (U. E. Paolida, Avventure e segreti del mondo greco e romano 1960), eppure i suoi testi, in virtù della musicalità dei versi fluidi e carezzevoli come le acque di una sorgente, sono, ancora oggi, un paradiso artificiale in cui costruirsi delle convenzionali certezze per alimentare la luce fievole della gioia di un momento e permettere all’opera di divenire più celebre “regalique situ pyramidum” (Orazio, Carm. III, 30), delle regali piramidi, un bene inossidabile che non subisce la corrosione secolare.
Quante fanciulle, impaurite e perplesse, scoprendo di essere oggetto di desiderio per gli uomini, sentono la partecipazione emotiva dell’autore alle loro tensioni e si ritrovano in “Chloe” (Orazio, Carm. I, 23); attraverso ipotiposi evocative, esse si vedono rappresentate “similes inuleo, quaerenti matrem pavidam non sine vano metu aurarum et silvae”, come una cerbiatta che, “montibus aviis”, sui monti impervi, sussulta a ogni stormire di fronde e, terrorizzata, cerca la madre in pena (Orazio, Carm. I, 23). Il pupillo di Mecenate, con l’autonomia di giudizio e l’assenza di cortigianeria che lo caratterizzano, nel parlare ai ragazzi intrappolati nel mondo fantasmagorico dell’elettromatica, cerca di fornire la chiave giusta per raggiungere l’equilibrio interiore e vivere liberi da ogni costrizione , “recta natura” (Orazio, Carm. I,37), con la coscienza pulita e mai collusi con il potere.
Alla sconfitta di Cleopatra (Orazio, Carm. I,37), per esempio, mentre Ottaviano, dopo la folgorante vittoria, bracca lei “ab Italia volantem”, che fuggiva dall’Italia, “daret ut catenis”, per prenderla prigioniera, “nunc est bibendum”, è arrivato il momento di festeggiare – scrive -, l’incubo è finito, l’esultanza è generale. La regina egizia, il “fatale monstrum”, il mostro del destino di Roma, però, malgrado l’apparente iperbole propagandistica del poeta, prende il sopravvento e funge da correttivo allo zelo encomiastico dell’incipit. La donna, “privata”, spogliata del regno, è dipinta con la nobile fierezza di chi, lontana da ogni pietismo, “nec muliebriter”, pur nella fragilità del suo cuore, “voltu sereno”, con volto impassibile, “fortis ”, coraggiosamente, “quaeret <…> deliberata morte”, cerca la morte con l’orgoglio spietato di chi non vuol subire una prigionia umiliante, e “tractat asperas serpentes ut atrum corpore conbiberet venenum”, stringe in mano gli squamosi cobra1 per far assorbire il loro nero veleno nelle sue vene; l’eroina, così, non “humilis mulier” ma “regina”, si sottrae alla vergogna di adornare il superbo trionfo del Divo Augusto e si staglia come un essere superiore, unico e invincibile. L’affascinante creatura rimane senza nome, come se Orazio, con la sua sensibilità, la consideri il cireneo di una riflessione gnomica frutto della sua profonda humanitas; il suicidio della grande donna si configura, dunque, non come una vile rinunzia, ma come atto stoico nella difesa della libertà non solo propria, ma di tutti i giovani che, con titanico egotismo, dovrebbero essere sempre protesi verso il riscatto della propria identità.
Ogni circostanza rappresenta momento ideale per stimolare un dialogo perenne con le nuove generazioni e sottolineare i sacrifici dei padri sempre pronti a donare sé stessi, come ha fatto il suo, che, “custos incorruptissimus” (Orazio, Serm. I,6), custode esemplare, “circum doctores aderat” (Orazio, Serm. I,6), lo accompagnava di persona da un insegnante all’altro e, addirittura, “macro pauper agello” (Orazio, Serm. I,6), pur possedendo solo un fazzoletto di terra, “ausus est portare docendum” (Orazio, Serm. I,6), ha avuto il coraggio di farlo studiare prima nelle migliori scuole dell’Urbe e, dopo, in Grecia. “Laus illi debetur” (Orazio, Serm. I,6) perché gli ha insegnato che, talvolta, è proprio  la “paupertas audax” (Orazio, Ep.II,2), un patrimonio esiguo, a far uscire “ex tugurio magnus vir”, anche da un casato umile un grande uomo <…> e che “saepe sapientia sub sordido palliolo est” (Terenzio, Heautontimoroùmenos), la saggezza e la sapienza sono spesso nascoste sotto miseri panni.
Il poeta sta a braccetto con i lettori di tutti i tempi, persino quando “Soracte stat candidum nive” (Orazio, Carm. I,9), il S. Oreste, a qualche Km da Roma, svetta candido per la neve nelle giornate limpide e gelide d’inverno, “nec iam silvae laborantes sustinent onus”, nè più i boschi affaticati ne sostengono il peso, “geluque acuto flumina constitent”, e per il gelo pungente i fiumi si sono rappresi (Orazio, Carm. I,9). Questo delicato quadretto concentra pregnanti valori simbolici, preludio di profonde parènesi conative in base alle quali “ci si deve aggrappare al piacere del presente e liberare dall’ansia del domani, apprezzare ogni attimo di questa vicenda irripetibile che è la vita dell’individuo, punto luminoso ma effimero nel buio del tempo” (La Penna, Saggi e studi su Orazio, 1933). Tali riflessioni si sovrappongono al tema del “carpe diem” (Orazio, Carm. I,11), efficace binomio di matrice velatamente epicurea che il “libertino patre natum” (Orazio, Serm. I,6) affida alla sua “Лευκός νούς”, ragazza dall’animo semplice; in esso “s’intrecciano due concetti profondi, il carpe, la qualità, che connota e sottende il diletto catartico, e il diem, la temporalità del vivere, che sottolinea la transitorietà di un’esistenza da vivere intensamente, prima di essere bruscamente interrotta da qualsiasi accidente” (Portale antica Roma, Wikipedia, 2009).
Caro ragazzo (Orazio, Carm. I,9) – sembra ricordare Orazio –, nel creare le basi della tua felicità, “fuge quaerere quid sit futurum cras,”, evita di chiederti cosa avverrà domani, e “quemcumque dierum Fors dabit”, qualunque giorno la Sorte di darà, “adpone lucro”, consideralo un guadagno. Si nasce una sola volta e agli uomini non è stato riservato il dono dell’immortalità, ma, “pati quidquid erit” (Orazio, Carm. I,11), con il sopportare dignitosamente le contrarietà, “si potranno compiere delle scelte che aiuteranno a essere signori del domani” (Epicuro, Sentenze Capitali). “Carpe diem”, non lasciarti condizionare da ipotetiche speranze e ansiosi timori per il futuro o, peggio, da un passato irriproducibile … non mettere le nubi di domani davanti al sole di oggi … non lasciarti rinchiudere nella “trappola della lanterninosofia” (Pirandello, Il F. M. Pascal, 1904) … ricorda che il confronto attivo ha una funzione apotropaica in quanto implica la capacità virtuale di superare lo scoramento o di esorcizzare “la negatività del tempo vista come corsa ineluttabile, logoramento e distruzione” (La Penna,ibidem). Nella polirematica si accavallano inviti carichi di sollecitazioni arricchite da una struttura complessa in cui spicca il gioco degli iperbati verticali e delle allitterazioni onomatopeiche tanto efficaci da evocare persino il crepitìo del fuoco.
“Dissolve frigus”, impara a gustare le gioie dell’animo soffocato dal “frigus” della tristezza, sciogli le membra intirizzite, allontana il rigore invernale “large reponens ligna super foco”, nutrendo la fiamma con la legna. Se, quindi, il paesaggio stretto in una morsa di ghiaccio appare come allegoria della precarietà e fa salire alla ribalta i “cupressi” e gli “orni”, metafora della vecchiaia e della morte, l’atmosfera rassicurante dell’interno, accanto al focolare, deve far apprezzare il piacere di un convito. “Dum loquimur, fugerit invida aetas” (Orazio, Carm. I,11), finché parleremo avremo l’illusione di fermare il tempo invidioso che sottrae all’uomo la possibilità di gioire in maniera duratura.
La filmografia ha fatto tesoro del sintagma e, nel 1989, Peter Weir lo ha rigenerato ne “L’attimo fuggente”, “trasformandolo in forza propulsiva, fulcro per sviluppare lo spirito creativo, premessa per una più indovinata scelta di vita; il regista, servendosi di un canale fortemente congeniale agli stili cognitivi delle nuove generazioni, vi ha fatto scorrere, in 129 minuti, perle preziose, introiettandovi messaggi di ampio spessore e nodi problematici epocali nelle sue implicanze socio- politico- economiche e culturali, prime fra tutte quella degli atavici conflitti giovani-scuola, insegnanti-alunni, genitori-figli (M. Perriera, Psicolab, marzo 2010). La massima oraziana è esemplificata, in particolare, da due attanti, Neil Perry, che consolida la propria vocazione teatrale e, sfidando drammaticamente la ritrosia paterna, recita “Il Sogno di una notte di mezza estate”, e l’incolore Todd Anderson, che si rivela il vero eroe. “Quest’ultimo, infatti, urla, in un ossimòro assordante, la sua rabbia repressa, imparando anch’egli – e insegnando, a sua volta, ai compagni e agli adolescenti-spettatori – a salire sulla cattedra per guardare le cose da angolazioni diverse, a percepire il lieve bisbiglio dell’arte, a portare una ventata di aria fresca nell’ambiente che lo circonda, a trasformarsi in uccelli per librarsi nell’aria, decisi a non uniformarsi a regole imbalsamate e a schemi costrittivi” (M. Perriera, Psicolab, marzo 2010).
Il “grande mediatore di cultura” (Bettini, Alla ricerca del ramo d’oro, 2) non abbandona i suoi giovani lettori, mai, sa essere padre misericordioso ma anche censore, arbitro e giudice, li sollecita a meditare “quicquid dignum sapiente bonoque est” (Orazio, Ep. I,4), su tutto ciò che è degno di un uomo saggio e onesto, li frena, fedele al principio secondo cui “solo di rado s’incontra chi dica d’essere vissuto felice e, pago del tempo trascorso, esca di vita come un convitato sazio. <…> Est modus in rebus” (Orazio, Serm. I,1), c’è una misura in tutte le cose, ci sono, insomma, confini precisi al di là dei quali non può esistere il giusto e le giovani menti devono ricordare che la loro libertà finisce quando intacca quella degli altri. La risposta che viene data alle mille domande e ai mille perchè degli adolescenti di fronte a un futuro vacuo e incerto è, dunque, quella di cercare la “μηδέν ‘άγαν”, l’ “auream mediocritatem” (Orazio, Carm. II,10), unica via per raggiungere la meta; solo in questo modo si potrà godere di quanto si ha, “neque urgendo <in> altum”, senza spingersi verso il mare aperto, “neque premendo nimium litus iniquum”, nè rasentare eccessivamente la costa pericolosa per le secche e gli scogli” (Orazio, Carm. II,10), senza pretendere sempre le preziose orchidee e accontentandosi, talvolta, anche di umili violette.
Orazio, insomma, raccomanda a ciascuno di loro di garantirsi la dorata via di mezzo, in modo che “tutus, caret sordibus tecti obsoleti” (Orazio, Carm. II,10), sicuro, eviti la miseria di una casa fatiscente, o “sobrius, caret aula invidenda” (Orazio, Carm. II,10), sereno, si tenga lontano da un palazzo che susciti invidia. “Pectus bene praeparatum sperat infestis” (Orazio, Carm. II,10), un animo ben fortificato sa che potrebbe essere improvvisamente colto dalle sventure e che, “secundis”, nelle fortune, “metuit alteram sortem” (Orazio, Carm. II,10), deve temere il cambiamento della sorte. Marmoreo il carmen dedicato a Bullazio (Orazio, Ep.1,11), punto di partenza per delle riflessioni moraleggianti di grande attualità. Il dedicatario è quasi la personificazione dei tanti che, incalzati dalla “strenua inertia” (Orazio, Ep.1,11), dall’irrequieta indolenza, girovagano per luoghi ameni, alla ricerca di una felicità introvabile, pervasi sottilmente dalla triste sensazione di noia unita alla smania che spinge l’uomo alla “commutatio loci”, nella vana speranza di trovare la pace dello spirito. Fondamentale è, dunque, celebrare l’assioma secondo cui “caelum non animum mutant, qui trans mare currunt” (Orazio, Ep.1,11), non le località, la compagnia o la solitudine assicureranno “rationem et prudentiam” (Orazio, Ep.1,11), la prudente razionalità che “aufert curas” (Orazio, Ep.1,11), che allontana gli affanni; “ubi Bene, ibi Patria” (Cicerone, Pro Murena), laddove ci si sente bene, la c’è la patria, “quod petit, hic est” (Orazio, Ep.1,11), quello che si cerca si potrà trovare con l’equilibrio del proprio spirito, e, “si non deficit animus aequus” (Orazio, Ep.1,11), se si riflette attentamente, chi lo possiede non ha bisogno di http:\\/\\/psicolab.neta, neppure di viaggiare.
Il “monumentum” (Orazio, Carm, III,30) è, per i giovani lettori, la lente attraverso cui osservare la quotidianità, exemplum di chi non perde mai l’autocontrollo; vivido, in particolare, è rimasto un prototipo con cui il poeta, implicitamente, suggerisce ai giovani di non aggredire mai l’altro e di ricorrere sempre alla più idonea arma della diplomazia, ideale stratagemma “per sconfiggere l’avversario senza avergli dato l’impressione di essere stato sconfitto” (Chamfort, Maximes et Pensées, 1795, postumo). La sentenza, dal sapore gnomico, è inserita nel contesto virtuale di un mini spettacolo teatrale apparentemente comico per disegnare il ritratto nitido di due attanti, una “vittima” e il suo “carnefice” (Orazio, Serm. I,9) incapace di notare quanto il Ministro di Augusto fosse “praesertim cautus dignos adsumere in amicorum numero” (Orazio, Serm. I,6), rigoroso nel giudicare e distinguere i meritevoli di stima, particolarmente prudente nell’invitare a far parte del suo circolo persone “ambitione procul” (Orazio, Serm. I,6), estranee al malevolo arrivismo.
L’energia del dettato si raggiunge anche attraverso il linguaggio utilizzato, che, variando costantemente, si adegua non solo allo status sociale dei parlanti ma, soprattutto, al bozzetto da dipingere, facendo risaltare, plasticamente, la sfacciataggine, la tenacia impertinente, l’arroganza degli arrampicatori sociali. Il “convictor” (Orazio, Serm. I,6), l’intimo amico di Mecenate, infatti, con l’alternanza di toni, da quello sostenuto del prologo, al familiare e colloquiale della fabula, all’avvicendamento di registri dell’epilogo, contribuisce a sottolineare la sottile parodia insita nel dialogo e rende “vera” la rappresentazione. Il “garrulus”, l’indiscreta figura decisa a garantirsi buoni agganci (Orazio, Sat, I,9), dunque, non occupa un ruolo da protagonista, ma è un attore secondario, una “maschera” (Pirandello) di cui il narratore, di volta in volta etero-omo-autodiegetico, si serve per stigmatizzare un tipo umano con cui oggi ci si deve confrontare. Orazio, colto alla sprovvista, lo vorrebbe allontanare, prima con il garbato “Num quid vis?”, hai bisogno di qualcosa? … poi con sproporzionati complimenti, o, in una climax spassosissima, ricorrendo ad altri stratagemmi che rasentano i limiti della buona educazione, mentre “sudor ad imos”, il sudore gli cola dalla testa ai piedi … ma ogni tentativo risulta vano al punto che, alla fine, egli “demittit suas auriculas”, abbassa metaforicamente le orecchie (Orazio, Sat, I,9).
Situazione oggi assurda? Assolutamente no, specialmente nelle comitive allargate, quando il bulletto del gruppo vuole piegare il ragazzo più debole che, non potendo più http:\\/\\/psicolab.neta contro l’ostinazione del persecutore, si sente “asellus iniquae mentis” (Orazio, Sat, I,9), come un asinello recalcitrante, “cum dorso subiit gravius onus” (Orazio, Sat, I,9), quando si trova sulla groppa un carico troppo pesante.
L’antico “scriba quaestorius” (Orazio, Serm, I,6), nelle raffinate composizioni “splendidior vitro” (Orazio, Carm. III,13), ha lasciato di sé l’immagine di un poeta semplice, animato da quel gioioso sogno che apre un nuovo orizzonte nel grigiore della vita di tutti i giorni, invitando i giovani a inseguire i propri sogni, a far sanguinare le proprie mani arrampicandosi su per raggiungere la vetta, a impiegare tutte le proprie forze per un obiettivo in cui si crede veramente, a scardinare ogni certezza monolitica, perché “omnem diem sibi diluxisse supremum” (Orazio. Ep. 1,4), ogni giorno potrebbe essere per loro l’ultimo … Andare avanti, sempre e comunque, lasciandosi condurre “non patre praeclaro, sed vita et pectore puro” (Orazio, Sat, I,6), non dalla propria estrazione sociale, bensì dal comportamento morale, “sia che il vento del nord spazzi la terra o che l’inverno accorci, tra la neve, l’arco del giorno” (Orazio, Serm. II, 6).
Con una scherzosa autocaricatura, destinata a perdurare nell’iconografia ideale del grande di Venosa, il “porcus pinguis et nitidus de grege Epicuri, bene curata cute” (Orazio. Ep. 1,4), il porcellino, grassottello e lucido del gregge di Epicuro, dalla pelle ben curata, stempiato, tarchiatello, pieno di una sorridente bonomia, si è imposto all’attenzione dei secoli per stigmatizzare implicitamente modelli etici contrapposti e far risaltare l’ideale incarnato dal “mus rusticus” (Orazio, Serm. II – 6) che vive sereno in una casa modesta di contro al “mus urbanus … currens, in locuplete domo, trepidans”(Orazio, Serm. II – 6), che, in una reggia fastosa, corre qua e là per le sale, impaurito e senza fiato. Marmoreo, poi, è il carmen dedicato a Bullazio (Orazio, Ep.1,11), punto di partenza per delle riflessioni sentenziose di grande attualità. Il dedicatario è quasi l’esploratore dei tanti che, incalzati dalla “strenua inertia” (Orazio, Ep.1,11), dall’irrequieta indolenza, girovagano per luoghi ameni, alla ricerca di una felicità introvabile, pervasi sottilmente dalla triste sensazione di noia unita alla smania che spinge l’uomo alla “commutatio loci”, nella vana speranza di trovare la pace dello spirito. Il poeta invita l’amico a godere di “quamcumque horam deus fortunaverit”, di qualunque ora lieta gli dèi avranno concesso; solo così, “quocumque loco fuerit”, in ogni situazione, “dicet vixisse libenter” (Orazio, Ep.1,11), potrà affermare con certezza di non aver sprecato la propria vita.
L’eccelso maestro di eleganza stilistica, dunque, lascia ai giovani l’assioma secondo cui “caelum non animum mutant, qui trans mare currunt”, non le località, la compagnia o la solitudine potranno “auferret curas” (Orazio, Ep.1,11), allontanare gli affanni; “quod petit, hic est”, l’equilibrio dell’animo è da cercare in sé stessi e, “si non deficit animus aequus” (Orazio, Ep.1,11), se si riflette attentamente, chi lo possiede non ha bisogno di http:\\/\\/psicolab.neta, neppure di viaggiare. Stupende asserzioni, echi sempre nuovi, seppur remoti, di mondi sommersi dal tempo che aprono un varco nel cuore di adolescenti spesso confusi in un contesto socio-economico-culturale soffocante, oppresso da scadenze, impegni, orari, compiti, progetti, castelli di carta e promesse spesso vanificate. Nell’impietosa e affannosa velocità dei nostri giorni, dunque, “l’amante della Venere facile e dei piaceri della tavola” (www.supereva.it, febbr. 2002) è ancora vivo, “vitavit Libitinam” (Orazio, Carm. III, 30), ha sconfitto Proserpina, dea dei funerali, ha sfidato l’usura del tempo e il suo status effimero, ha augurato “suis alumnis” (Orazio. Ep. 1,4), ai suoi appassionati lettori, di “sàpere” (Orazio. Ep. 1,4), di essere saggi, “fari quae sentiant” (Orazio. Ep. 1,4), esprimere liberamente le proprie idee, conservare “mundus victus” (Orazio. Ep. 1,4), uno stile di vita decoroso, e “lottare contro chi non riconosce le proprie piaghe o, peggio, preferisce coprire le proprie piaghe con le bende dell’ipocrisia” (Montale, Auto da Fè).
Malgrado le frequenti perplessità, con i suoi capolavori di psicologia, che né “innumerabilis series annorum” (Orazio, Carm. III,30), il trascorrere dei millenni, né “fuga temporum” (Orazio, Carm. III,30), l’avvicendarsi delle stagioni, potranno diroccare, parla ancora agli adolescenti del XXI secolo e trasmette loro il proprio entusiasmo, affinché essi possano riappropriarsi del culto dei valori antichi e sentirli imprescindibilmente determinanti nella formazione della loro personalità. “Hoc erat in votis“ (Orazio, Serm. II – 6), la sua previsione di immortalità si è concretizzata, spostando l’attenzione, attraverso un vigoroso processo di mitopoiesi, dal “monumentum” (Orazio, Carm III, 30) a sé stesso. La sua poesia, “laude recens” (Or., Carm III, 30), cercando la lode dei posteri, ha vinto il tempo, egli può ancora contare su un cortocircuito intramontabile e dire ai giovani di ogni tempo,“Non omnis moriar” (Orazio, Carm. III, 30), IO NON MORIRO’!!!

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Matilde Perriera