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Mente

Ogni Cosa È Illuminata, di Liev Shreiber

Proprio come l’avvenire
il passato lo si assapora
a poco a poco,
e non tutto insieme.
Marcel Proust

Ogni cosa è illuminata coniuga in maniera armoniosa l’aspetto ironico e poetico della narrazione; è un film divertente con risvolti tragici, una perfetta metafora della vita, che è, lo abbiamo provato un po’ tutti, commedia e tragedia insieme.

La vicenda è ambientata nell’oggi e nell’oggi si ride ; ma non si ride più quando si sfiorano o si toccano i luoghi e i fatti di sessant’anni fa. Del resto, come si potrebbe?

Ogni cosa è illuminata è sostanzialmente un film sulla memoria, o meglio, sui diversi modi di viverla, su come il passato può schiarire il nostro presente o può oscurarlo, velarlo, e il messaggio è forse quello di riflettere sul rapporto con i nostri ricordi individuali e collettivi.

La storia: Jonathan è un giovane studente e scrittore americano di origine ebraica. Raggiunge l’Europa sulle tracce di una foto vecchia di sessant’anni. La sua meta è Trachimbord, dove vuole ritrovare la donna che, durante la guerra, aiutò il nonno a fuggire dai nazisti.

Siamo in Ucraina, a Odessa; qui Jonathan Incontra Alex, giovane ucraino, suo interprete ed accompagnatore. Alex fa proprio questo di mestiere: accompagna stravaganti e ricchi ebrei nella ricerca dei parenti perduti. Appartiene ad una famiglia, quella sì, alquanto stravagante, fuori dalle regole, fuori dalle righe. Alex è anche la voce narrante e il suo inglese strampalato è l’aspetto davvero divertente del film.

Condivide la sua “professione” il nonno, autista cieco e svogliato di un’automobile decisamente poco rassicurante. Unico suo affetto: una cagnetta psicopatica e poco affidabile, dalla quale non si separa mai. Jonathan ne ha terrore, poi le si affeziona, mentre si abitua ai modi di fare di Alex.

Un tema molto interessante del film, ma che lasciamo sullo sfondo, è quello dell’incontro con l’altro da sé, col diverso, potremmo dire, senza paura di esagerare, con l’ombra. Jonathan impara insieme ad Alex ad essere un po’ meno rigido, Alex, accanto a Jonathan, si scopre molto meno superficiale. E proprio lui darà voce al senso del loro stravagante viaggio verso la consapevolezza: “Ogni cosa è illuminata dalla luce del passato”, dirà alla fine del film.

I tre (anzi, i quattro se si conta anche la cagnetta: una compagnia piuttosto malassortita!) partono per la loro ricerca: una rigida ricerca, dice Alex, dove rigida forse sta per rigorosa.

Fin qui la commedia. Dicevamo, però, si tratta di un film sulla memoria. I tre personaggi infatti sembrano indicarci tre diverse modalità nevrotiche di vivere il passato.

• Jonathan colleziona ricordi, imprigionandoli in piccoli sacchetti di plastica trasparente (come farebbe un poliziotto della scientifica), che meticolosamente affigge su una parete di casa, simili a lugubri ex-voto. “Ho paura di dimenticare” è la sua spiegazione.

• Il nonno di Alex è un ebreo che ha cancellato la sua ebraicità, fino a diventare antisemita; ha soffocato i suoi di ricordi, barattandoli per una vita inautentica e rabbiosa, l’unico modo che ha conosciuto per archiviare un passato insostenibile.

• Alex, dal canto suo, assume atteggiamenti di noncuranza nei confronti di ciò che è stato. “Il passato è passato e dovrebbe rimanere sepolto”.

Ma il viaggio sarà l’occasione buona per capire che se non si può cambiare il passato, se ne può almeno correggere la visione.

Lo sguardo distorto dei personaggi è filtrato dai loro occhiali: il nonno si nasconde dietro lenti di una cecità fasulla, un sipario calato sul trauma della sua gioventù. Jonathan porta lenti talmente grandi, che sembrano finte. Porta le stesse lenti, delle stesse dimensioni, anche in un flash-back in cui lo si vede bambino, quasi a dire che ha scelto, come difesa dal dolore familiare, una sorta di attenzione amplificata sul mondo.

Illuminatissima invece la scena in cui i nostri arrivano vicini alla meta: uno splendido campo di girasoli e tante lenzuola stese al sole, candide di bucato. Decisamente la sequenza più bella del film.

In questo luogo da sogno incontrano Augustine, l’anziana donna che custodisce tutti gli oggetti del villaggio cancellato dai nazisti. I suoi ricordi sono inscatolati a riempire la piccola casa di legno in cui vive, lei, l’ unica sopravvissuta e vestale di questo luogo chiamato Trachimbord. Qui il viaggio termina; le verità vengono svelate.

Nel momento della separazione Alex affermerà: Ogni cosa è illuminata dalla luce del passato. I ricordi non si possono imbustare , come fa Jonathan, che coglie del presente solo ciò che vorrà ricordare domani, né ha senso inscatolarli : Augustine ha scelto per tutta la vita una dimensione sospesa, in un tempo che non è qui, ma si è fermato là ed allora.

I ricordi non possono nemmeno essere rinnegati, come ha fatto, a spese della verità, il nonno di Alex; né trascurati , se non si vuole pagare il prezzo di una preoccupante mancanza di spessore, quella di Alex, prima di questo salvifico percorso. Né semplicemente vanno tenuti a bada. Con i ricordi bisogna fare i conti, almeno una volta nella vita, se vogliamo evitare che ad un certo punto il nostro futuro ci si pari davanti come uno straniero nella notte (M. Proust).

Bello anche il libro (di Foer Jonathan S., caso editoriale di qualche anno fa) sia per la lingua – spassosissime le parti raccontate da Alex – sia per la solida e originale struttura.

Struggente la storia dello Stetl, vivo come tutti i villaggi yiddish che ci sono stati raccontati, e resa in modo parallelo al viaggio del presente , con una vita propria, come un secondo romanzo, ambientato nel passato (dalla fondazione di Trachimbord alla sua scomparsa), ed inserito con sapienza nel romanzo del presente.

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Margherita Fratantonio

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