Molti ragazzi vedranno le Cronache di Narnia. Qualcuno le leggerà anche, ma saranno pochi, stando alle statistiche che registrano l’uso che si fa in Italia di un libro dopo che si è comprato.
Solitamente gli educatori considerano questi dati con rammarico, perché pensiano che l’immagine del mondo che i libri danno ai ragazzi sia più ricca e più vera di quella che arrivano a formarsi davanti alla televisione o alla playstation.
Questa concezione ha trovato in questo secolo molti sostenitori, ma anche alcuni avversari e qualche critico.
L’autore dei sette romanzi delle Cronache di Narnia, C.S. Lewis, aveva idee interessanti sull’educazione e sulla parola scritta che forse vale la pena discutere mentre facciamo la coda per vedere il film.
Chi ha visto “Viaggio in Inghilterra” si è fatto un’idea dell’ambiente in cui visse C.S Lewis: era un professore di Oxford caustico e pedante, ma una storia d’amore lo mise in contatto con le zone d’ombra della vita. Le Cronache di Narnia, in effetti, sembrano scritte da un professore di Oxford, si ha anzi l’impressione che nelle cronache Lewis parli per bocca di Digory, che ripete ad ogni passo “E’ come aveva detto Platone!”.
Sappiamo anche che Lewis era anglicano e che scrisse un libro per spiegare alla gente “Il cristianesimo così come è” e anche questo si intuisce leggendo le Cronache di Narnia, specialmente gli ultimi due romanzi, La Sedia d’Argento e la Battaglia Finale, dove viene messo in chiaro il pensiero escatologico dell’opera, cioè la sua particolare concezione del lieto fine. Le Cronache di narnia infatti finiscono con la formula di rito: “E vissero tutti felici per sempre”, a cui però il professor Lewis fa seguire una mezza paginetta in cui spiega che questo mondo è solo l’ombra di quell’altro, anzi, per meglio dire è solo la copertina di un grosso libro in cui sono scritte avventure molto più belle e che da quel momento in poi comincia la Vita con la V maiuscola.
Come si vede, Lewis attinge a piene mani al linguaggio dell’editoria anche quando vuole illustrare i misteri della natura e del cielo, come del resto facevano Galileo, Newton e anche Freud. Ma che senso ha utilizzare questo linguaggio in un libro per ragazzi?
Qui emerge la particolare concezione dell’infanzia che ha Lewis: per lui il bambino non è un selvaggio come Victor o Mowgli, né un illetterato di quelli che piacevano a Josè Berguamin e non è neppure un empirico che provando e riprovando scopre le risorse del mondo e il giusto modo di utilizzarle, come pensava Jeremy Bentham. Per Lewis il bambino è un uomo di lettere, che si interessa non solo a quello che gli viene raccontato ma anche a come viene scritto.
Quando afferma che “Un libro non merita di essere letto a dieci anni se non merita di essere letto anche a cinquanta”, Lewis mette in chiaro che i bambini possono leggere appassionandosi a quello che leggono, interpretandolo, discutendolo e facendolo proprio, nei limiti della loro esperienza, ma senza limiti imposti all’opera da autori o editori preoccupati di semplificare.
In effetti le Cronache di Narnia sono costruite con idee prese dai libri, anche se toccano il cuore di chi legge; se poi queste idee vanno al “cuore delle cose”, come pretendono di fare, è un altro discorso. Il dato importante per la psicologia dell’educazione è che Lewis non considera i libri lontani dai ragazzi, egli anzi li considera congeniali ai bambini di dieci anni e più.
Si tratta di una idea libresca che prescinde dai dati di realtà? Non potrebbe essere una sopravvivenza dell’”uomo vecchio”, professorale e pedante, imbambolato di fronte alla cosmologia degli antichi e alle credenze medioevali, nel “nuovo” C.S.Lewis, attento ai ragazzi e alle cose della vita?
I grandi scrittori di fiabe cominciano sempre con una buona dose di pedanteria: i primi tentativi di Goethe e di Andersen sono insopportabili e si è dovuto aspettare che si disinibissero per leggere qualcosa scritto da loro che fosse adatto ai bambini. Si potrebbe pensare la stessa cosa di Lewis, se egli stesso non avesse scritto un libro in cui chiarisce la sua posizione.
E’ un libro che apparentemente non c’entra niente con le fiabe e con l’infanzia: “L’immagine scartata”, un saggio su come gli uomini del medioevo costruirono la loro idea del mondo. Lewis sostiene che era un’idea presa dai libri: anche gli spiriti, le magie e le fate, quei bravi monaci li avevano incontrati nei libri di Aristotele e di Platone prima che nei loro boschi.
.Sembra di sentir parlare la strega delle Cronache di Narnia, che nella “Sedia d’Argento” interroga Jill e i suoi amici sulla natura del sole e del leone, che essi conoscono solo per sentito dire. Allora la strega cerca di convincerli che si tratta di una creazione della loro mente, che vedendo una lanterna è arrivata a concepire il sole e vedendo un gatto ha pensato che da qualche parte potrebbe esistere un gatto più, grosso, il leone, appunto. La strega aggiunge che senza quelle distorsioni dei dati di realtà condurrebbero una vita più tranquilla e li invita a chiudere gli occhi e a non pensarci, ma Puddleglum le risponde per le rime:
”Quattro bambini che giocano, cara la mia Signora, possono essere così abili nel gioco del mondo da spazzare via il vostro mondo”.
Abbiamo dunque il confronto di due visioni del mondo, ottimo materiale per attività di filosofia con i bambini di dieci anni, ma anche spuntop di riflessione per chi lavora con la fantasia in contesti educativi.
L’apprezzamento di Lewis per il mondo della fantasia procede infatti di pari passo con l’apprezzamento per il rigore: rigore intellettuale, perché pretende che bambini di dieci anni si interroghino sul senso dei loro giochi (e non è uno scherzo) e rigore morale, al punto che nel 1953 il professor Lewis nella “Sedia d’Argento” dice tutto il male possibile delle prime scuole miste , che secondo lui impartiscono una educazione che oltre che mista è anche confusa, perché mancano correttivi all’aggressività dei ragazzi e ritiene che, senza punizioni e senza sospensioni, sia impossibile arginare il bullismo.
Un retaggio medioevale?
Certamente, ma in piena coerenza con la sua psicologia, secondo cui la coesistenza di luce e ombra nell’uomo è solo passeggera, perché la luce, il leone, trionfa perché la sua forza risiede prima di tutto nella libertà della fantasia che parla ai bambini dalle pagine di un libro.
Lewis non vede un conflitto tra luce, libro e favola, perciò la disciplina scolastica non toglie ricchezza e spontaneità ai bambini, essa invece li sostiene finchè vivono in un mondo che, “Come diceva Platone”, è solo un’ombra e una copia di quello vero.