Scrivere articoli sui grandi nomi dell´arte e non considerare lui è praticamente impossibile.
Pittore dell´estremo nord, dove la luce si fa avida, figlio di una famiglia dove il dolore non è mai mancato, Edvard Munch è intenso e in un certo senso così spaventoso da essere stato categorizzato come cantore dell´angoscia.
Ma da dove viene questo senso di profonda disperazione che così fortemente ricama e incide la sua pittura? Dove nasce il segreto di quei tratti fluidi e mobili e disperati che l´hanno reso un innovatore?
Cosa che colpisce dell´infanzia del pittore (nato nel 1863) (non inusuale nell´esistenza di molti artisti, come ad esempio Mary Shelley), è la presenza della morte: una morte subdola, che si porta via persone care e preziose e giovani. La tubercolosi gli ruba prima la madre trentenne e, in seguito, l’amatissima sorella adolescente. Suo padre si chiude in una prostrazione e una disperazione che obbligheranno il ragazzino a crescere precocemente, ad avere responsabilità e consapevolezza non adatte alla propria età e a mancare di quei punti di riferimento e sostegno che sono fondamentali.
Nessuna serenità, in casa Munch.
Basta considerare che dei cinque fratelli solo uno arriverà a sposarsi, mentre negli altri sarà costante la solitudine e spesso la malattia (lo stesso Edvard avrà salute fragilissima). Suo padre, un uomo già piuttosto avanti negli anni al momento della sua nascita e rigidamente cattolico, non è in grado di gestire e alleviare l´enorme vuoto che grava sulla mente vivace e fantasiosa del figlio; l´unica compensazione da questa situazione inadeguata è data dalla presenza di una parente che si premura di coltivare quella già istintiva passione pittorica presente nel bambino, come un’inevitabile eredità. Scivolano via gli anni della crescita ad Oslo, e si iscrive alla scuola tecnica con lo scopo di diventare ingegnere, ma il suo fisico stato precario lo obbliga a interrompere gli studi – è costante la presenza del tradimento del corpo, nella sua biografia.
Decide dunque di dedicarsi totalmente alla pittura e frequenta la Scuola Reale d´Arte, mentre la sua vita famigliare continua a non avere pace: il padre (che morirà nel 1889) continua a instillare un orrore quasi ossessivo verso il peccato e l´inferno; un’altra sorellina soffre di una grave malattia mentale. A proposito di questa sua giovinezza ingiusta dirà in seguito che gli angeli che l´avrebbero seguito per tutta la vita furono la malattia, la pazzia e la morte.
Ecco dunque che i suoi tratti di pennello si fanno simbolici più che realistici – viene ripetuto il tema della bambina sofferente, ricordo dell´amata sorella – e le influenze impressionistiche non gli impediscono comunque di sviluppare uno stile proprio e individuale sin dalla prima età adulta.
Nel 1892 una sua mostra viene interrotta a causa delle controversie che i suoi lavori stimolano; questi accenni naturalistici utilizzati per descrivere stati dell´anima, questa inquietante staticità che diventa mobile nei volti atterriti e smarriti sono troppo sconvolgenti per il suo periodo.
È proprio mentre è a Berlino che si interessa di fotografia e litografia, mostrando l´ecletticità nella suo essere artista poliedrico – purtroppo il suo equilibrio mentale va alterandosi, e l´enorme ansia di cui soffre lo porta infine a un ricovero e probabilmente gli fa conoscere l’elettroshock.
In ogni caso, un’esperienza che lo cambia.
Una “diversità” mostrata dalle sue tele posteriori, che suggeriscono un maggior interesse paesaggistico, che sembra raccontare un’ apparente e momentanea serenità, o forse un´assenza di ciò che era prima.
Il suo essere innovativo non può certo venir compreso dal regime hitleriano, che bolla la sua arte come “degenerata” causandogli un profondo dispiacere: sentiva infatti la Germania come una seconda patria e a questo punto decide di ritirarsi vicino Oslo, dove in una piccola casa vive e lavora fino alla sua morte, avvenuta nel 1944.
Egli stesso scrive che dal suo corpo in decomposizione sarebbero nati fiori – “e questa è l´eternità” – si conclude dunque con un´immagine di colore e vita una storia che è stata ombrosa e penosa.
Nelle sue infinite opere, nei suoi numerosi notturni, nelle scene quasi grottesche nel loro disvelare (non ci sono tinte morbide, espressioni quiete, la consolazione della bellezza), traspare prepotentemente la disillusione e l’inquietudine che diventano vere e proprie fonti di un’incontrollabile angoscia – un´angoscia che quasi travolge, colma i vuoti, arrivando ovunque. Ma, soprattutto, è impossibile non fare riferimento a “L´urlo”, il suo figlio più celebre, che ha una ferocia primordiale quasi insopportabile, nel mostrarci questo corpo scarno e deforme che grida in un vuoto d´arancione tutto il proprio dolore e la propria impotenza di fronte ai nostri giorni insondabili e talvolta spaventosi.
Mai la natura umana fu rappresentata in maniera così debordante e senza abbellimenti nel suo essere quasi martirio. L´essere rappresentato diviene quasi parte del paesaggio, assorbito, risucchiato, un´onda mostruosa che quasi si dissolve nell´eco della propria voce schiantata in un http:\\/\\/psicolab.neta – un grido silenzioso che esce dalla tela.
E’ un´autobiografia senza precedenti.
Ciò che è interessante è renderci conto come, ancora una volta, il dolore diviene territorio per coltivare l´arte e l´arte luogo per far fluire via e lenire il dolore, in un cerchio vizioso che ci lascia lavori di inestimabile qualità e storie di notevole tristezza.
Come la morte, compagna di Shelley, aveva fatto partorire nel suo desiderio di vita Frankenstein, qui il bisogno di decantare quei tre angeli oscuri che accompagnano sempre è il tema centrale che lo segue fino alla fine. Di fronte alla coscienza di quanto possa essere tragico il destino, lo stato d´ansia del pittore arriva a vertici inauditi, in un´epoca che ancora non conosceva il supporto psichiatrico della chimica, ma solo metodi cruenti e inevitabilmente criticabili.
Il passaggio di corrente elettrica nel cervello come metodo terapeutico ebbe risultati controversi e seguiva quel filone tipico dell´epoca che vedeva in una maggior apatia un sintomo di miglioramento – esemplare di questa concezione senza apparenti alternative fu, terribilmente, la lobotomia.
Nel caso di Edvard, il continuo rimuginare e i comportamenti ripetitivi suggeriscono un disturbo ossessivo compulsivo che si aggiunge a una marcata depressione.
A seguito di questi metodi curativi il pittore riuscì effettivamente a lasciarci disegni di più vividi, meno angustiati, ma viene da chiedersi quanto sia dovuto alla momentanea mancanza di se stesso – un se stesso infelicissimo ma comunque unico che finì ovviamente per lasciarci il meglio di sé negli attimi di maggiore sconforto.
Le sue pennellate diventano l’esorcizzare un passato fortemente segnato: la madre, la sorella, se stesso – il destino non ha compassione, e fa sbandare lungo il ciglio, dove ti aspettano la pazzia e la malattia e la morte.
Non resta che urlare – farlo così forte e inutilmente, che nessuno ti sente.
Ma, dipingendo, almeno riesci a farti vedere.
Proiezione: il meccanismo difensivo primo degli artisti.
E così anche per Edvard, mai quieto, solo eppure non solitario: aveva accanto, purtroppo, ben tre angeli.