La sincerità dentro un’aula scolastica
Provate a leggere un po’ di recensioni consecutive su Monsieur Lazhar e incontrerete le stesse parole gentili che si ripetono: grazia delicatezza affetto. Potremmo aggiungere lievità, nel toccare un dramma; anzi due. C’è quello iniziale dei bambini undicenni, costretti ad un gesto di violenza inimmaginabile consumato a scuola: il suicidio per impiccagione della loro maestra, di cui Alice e Simon vedono addirittura il cadavere appeso, nella loro aula. E la tragedia del maestro improvvisato (ma quanto improvvisato?) Bachir Lazhar, algerino immigrato in Canada, dopo la morte dell’intera sua famiglia (moglie e figli).
La scuola non sa come affrontare l’emergenza emotiva dei giovanissimi studenti. Pensa che basti affidarsi ad una psicologa (una per tutti i bambini? Chiede un genitore in assemblea) e rimuovere l’evento molto presto. Troppo presto, per quel misto di rabbia, tradimento, nostalgia, dolore che preme sul cuore di ogni ragazzino e di ogni ragazzina. Quando Monsieur Lazhar si presenta per richiedere il posto rimasto vuoto in modo così cruento, alla direttrice pare una benedizione e non cura l’aspetto burocratico come dovrebbe. Lazhar viene assunto su due piedi e, nonostante nel suo passato non ci sia neanche un’ora di docenza, le sue lezioni funzionano.
Attraverso sistemi antiquati: detta testi di Balzac, usa nozioni grammaticali lontane dalle mode, non sa che nella scuola è vietato toccare i bambini. Ci scappa anche uno schiaffo leggero, ma gli allievi, dopo un primo momento di diffidenza, gli perdonano tutto. Alice, in particolare, la sua preferita, con cui, undici anni lei e circa cinquanta lui, l’insegnante scambia letture, con l’entusiasmo dei coetanei; lui, per la sua grande sensibilità apprezza i gusti di Alice, lei, particolarmente matura, è contenta delle attenzioni, perché le sente sincere. Tra Monsieur Lazhar e gli studenti, la comunicazione avviene infatti all’insegna della più totale sincerità, per cui presto i ragazzini si fidano di lui e gli si affidano.
Certo, non avere il titolo di studio in una scuola non è un dettaglio da poco, ma in questa storia ha un significato preciso e non è la prima volta, nel cinema, che professionisti senza laurea si rivelano così incisivi. Nel film “Il discorso del re” il logopedista Lionel Logue, pur senza l’abilitazione, riesce a dare la parola al futuro re Giorgio VI; e in “Confidenze troppo intime” l’impacciato consulente fiscale William fa rifiorire la sua “paziente”, nonostante niente sappia di psicoterapia. Il regista di Mensieur Lazhar, Philippe Falardeau, non vuol certo svilire i titoli di studio, né pensiamo vogliano farlo i suoi colleghi Patrice Leconte e Tom Hopper. In queste tre storie, così lontane tra loro, al centro di tutto c’è la relazione: educativa o terapeutica. L’intensità della relazione, quella che non s’impara nelle università.
Ancora più credibili i personaggi di questi film proprio perché le loro competenze empatiche non sono state loro insegnate, ma vengono messe in gioco nella situazione (per Confidenze troppo intime) o nascono da esperienze forti (Lionel Logue aveva già curato i reduci della prima guerra mondiale con difficoltà di linguaggio). Qui, monsieur Lazhar è tanto più attendibile quanto più fuori luogo. Non è il giovincello in cattedra che scimmiotta i metodi del prof. Keaton. No, siamo lontani dalle provocazioni dell’Attimo fuggente. E anche dalla resistenza eroica di Bruno D’Angelo, il protagonista del dirompente Diario di un maestro di Vittorio De Seta (1973). E pure dalle buone intenzioni, ma un po’ artefatte, del professor Prezioso nel nuovissimo Il rosso e il blu di Piccioni. Qui Riccardo Scamarcio inizia la sua lezione da supplente con la massima di, nientedimeno, Immanuel Kant: “Sapere aude”, abbi il coraggio della tua conoscenza. Lo schema è il solito: il professore la dice grossa, gli studenti rimangono diffidenti per un po’ e poi si abbandonano.
Bachir Lazhar non usa mezzucci: si offre con tutto se stesso e, dalla profondità del suo innominabile dolore, incontra le emozioni (innominabili) dei bambini. Soprattutto rabbia e senso di colpa, che solo in una relazione serena e non giudicante possono emergere fino alla comunicazione esplosiva, ma terapeutica. In particolare per Simon, il ragazzino più coinvolto, che, come gli adulti di questa scuola modello, vuole dimenticare l’accaduto e riesce a farlo, vivendo le sue giornate però in maniera scontrosa, sospettosa e sempre all’erta.
Lazhar è l’unico, forse per aver tanto sofferto o perché appartiene ad un’altra cultura, a chiamare le cose con il loro nome. A dire che il suicidio della maestra non può essere archiviato come ultimo gesto di una comune depressione, ma è una chiara violenza nei confronti di chi le voleva bene e ha poche difese. Gli altri tendono invece a mascherare tutto ridipingendo l’aula e non parlandone più, come se bastassero una mano di colore e qualche colloquio con la psicologa ad elaborare una morte che profana l’aula scolastica, il luogo della realtà e dell’immaginazione infantile. Eppure, anche gli altri sono a loro modo sinceri e pensano davvero di fare il bene degli studenti. In questo è proprio la cultura meridionale di Lazhar, oltre alla sua personale sofferenza, a fargli nominare naturalmente la morte e farlo tornare sull’evento, senza nessuna volontà di rimuoverlo.
Il suo comportamento si rivelerà altamente curativo per i bambini. D’altra parte, pare che il Canada sia nei primi posti del mondo per il tasso di suicidi, soprattutto tra gli adolescenti, a riprova che anche i migliori sistemi scolastici sono inefficaci per la solidità emotiva. Anche in Algeria sono aumentati i casi di suicidi, ma per ben altre ragioni, purtroppo!