Intimissime le memorie intime di Simenon, al punto da riuscire mentre le leggiamo persino imbarazzanti. Sembra non vogliano risparmiarci http:\\/\\/psicolab.neta e la nostra attenzione si sofferma, si stupisce davanti agli eccessi del loro autore: il sesso, la ricchezza, i viaggi, i cambiamenti di residenza, il lusso, la lussuria. E poi l’alcool, se pure Simenon sottolinea con decisione la sua sobrietà durante la scrittura.
Sicuramente, senza volerci accanire nell’indagine psicologica, si pensa subito ad una personalità compulsiva: “Volevo conoscere tutto e tutto sperimentare”. Lo era anche nella scrittura: una sola settimana per un Maigret, dieci giorni per i romanzi-romanzi, come definiva le storie senza Maigret, festeggiate tutte con una bottiglia di champagne alla parola fine.
Affamato di esperienze, non tollerava l’attesa (“L’attesa mi angoscia, mi sento sospeso nel tempo, nel vuoto”), non conosceva la pazienza che sarà costretto ad imparare, suo malgrado, verso la fine della vita; soprattutto dopo il suicidio della figlia Marie-Jo, amatissima e prediletta rispetto ai tre maschi, perché sentita come la più fragile, la più indifesa nell’affrontare il mondo.
Tre compagne, una ogni vent’anni circa, ognuna a condividere i cicli più importanti della sua vita. La prima, chiamata affettuosamente Tigy, ha condiviso la sua affermazione, il passaggio dalla giovinezza alla maturità, da una vita essenziale e povera alla creazione e alla fama di Maigret; la seconda, Denise, è stata complice di ogni esuberanza, colei che più delle altre ha accolto e assecondato il lato nevrotico di Simenon; la terza è la tenera accompagnatrice della sua fase notturna: serena, discreta, pacata. Un po’ madre, un po’ infermiera, sarà lei, Teresa, a condividere il dolore per la morte Marie-Jo, a curarlo di tutte le malattie, di tutte le ferite, vicina fino alla fine. Dice di lei con estrema gratitudine: “Io, che ho quasi sempre sostenuto, guidato gli altri, mi lascio finalmente sorreggere”.
Dopo aver letto le mille pagine di queste lunghissime memorie (una lettura che è quasi una sfida), ciò che rimane impresso è il rapporto convulso con la seconda moglie, Denise. A lei per tanti anni Simenon ha dedicato tutta la pazienza del mondo e viene da chiedersi perché.
Quando la incontra, Denise ha venticinque anni – lui parecchi di più – e già un tentativo di suicidio alle spalle (Marie-Jo si suiciderà proprio a venticinque anni!). Non è bella, almeno non particolarmente bella, ma accende un fuoco amoroso senza limiti, quasi devastante per il futuro di Simenon: “E’ questa la passione, una malattia che nel mio caso ha rischiato di essere mortale”.
Inevitabilmente Denise richiama alcune figure femminili dei suoi romanzi a dispetto del suo avvertimento: “Gli psicologi, i biografi, gli psicanalisti che hanno voluto scoprire la mia verità attraverso i miei personaggi poi si sono sbagliati tutti”.
Eppure non può non venire in mente la Marie del porto, quella ragazza poco avvenente, quasi insignificante, in apparenza debole ma di cui il protagonista si innamora a tal punto che da conquistatore diventa conquistato, tanto da cadere prigioniero nella tela segreta costruita dalla sprovveduta Marie, novella Lachesi, la moira che avvolgeva sul fuso il filo della vita umana, decidendone la trama.
Chissà se Simenon, vorace anche nelle letture, aveva letto il piccolo romanzo La mite, quel grande capolavoro di Dostoevskij, che meglio di tutti indaga sui rapporti di potere tra uomo e donna. La protagonista femminile, figura assai enigmatica, si presenta come mansueta, docile e sottomessa, per rivelarsi poi, dopo il suicidio, nient’affatto mite.
Denise è apparentemente una ragazza bisognosa di protezione. Tutto in lei fa pensare alla gracilità, persino la brutta ferita di un recente intervento chirurgico, che, nonostante sia proprio sulla pancia, ai primi amplessi non diminuisce affatto per Simenon il suo potere di attrazione, anzi.
“Credevo di sentirla debole, disarmata, senza punti di appoggio, lacerata da aspirazioni contraddittorie”. Le aspirazioni di Denise saranno poi la causa della loro rovina. Esageratamente competitiva nei confronti del marito, con un nevrotico desiderio di possesso verso gli oggetti di lusso, il denaro, i simboli più appariscenti dell’opulenza, e in più una sessualità sfrenata spesso vicina alla perversione, fino alla caduta nell’alcoolismo, fino alla deriva della malattia psichiatrica.
E lui che viveva lo stesso sintomo nevrotico dell’eccesso –ma che aveva almeno imparato che a fasi dionisiache doveva alternare momenti di pacatezza – lui che si vantava di aver posseduto diecimila donne (sarà poi vero?), che viveva una vita in ogni senso esagerata, non era certo la persona più adatta a colmare i vuoti psicologici di Denise. L’obiettivo poi che si era posto all’inizio della relazione (“Volevo farle ritrovare la sua identità”) era talmente ambizioso da fargli perdere di vista la situazione reale.
Denise in famiglia prima di sposarsi era chiamata La Diva, per la sua mania di grandezza, per le sue menzogne, per la sua totale inautenticità. Fare di lei una persona autentica era forse l’ultima cosa che ci si poteva ripromettere; Simenon si è addirittura illuso che convincerla a far crescere i capelli e abbandonare i trucchi, avrebbe potuto essere un primo passo per renderla una persona genuina e spontanea!
Inoltre, in casa Denise aveva vissuto una profonda rivalità nei confronti dei fratelli e Vincent Miller sostiene che un matrimonio in crisi altro non è se non la versione grottesca di questa rivalità.
Divenuta la signora Simenon, Denise darà espressione al suo forte desiderio di rivalsa nei confronti del mondo, o del suo personalissimo modo di avvertirlo: amplia via via il personale di servizio per il piacere di tiranneggiarlo, cura gli affari del marito occupando sempre più spazi. Eppure, lui la lascia fare, accettando anche le ingerenze e gli sconfinamenti, comportandosi in modo aggressivo-passivo con l’effetto di un escalation dei comportamenti aggressivi e parecchio attivi di lei.
Ma Simenon continua a dire: “Voglio che sia felice, così come sogno un mondo in cui tutti siano felici!”. Chissà da dove nasceva il bisogno di salvare Denise, il bisogno di salvare il mondo!
“Da giovane ho visto un così gran numero di esistenze finir male, sprofondare nella tragedia, che mi sono chiesto come mai non ci fosse, per gli individui momentaneamente in difficoltà, l’equivalente dei medici che si adoperano per guarire le malattie del corpo. Pensavo a qualcosa di vago e complesso, a uomini che per esempio svolgessero nella società un ruolo di riparatori, di riparatori di destini”. Nonostante le sue letture freudiane, Simenon diffidava di psicologi e psicanalisti, ma a quanti psichiatri dovrà poi affidare prima la moglie Denise e poi la figlia Marie-Jo!
Diamogli ancora la parola: “In molti dei miei romanzi i personaggi, siano famiglie, coppie o individui isolati, si trovano improvvisamente di fronte ad un evento che cambierà la loro sorte. Mi fa male vedere la vita di un uomo prendere all’improvviso una svolta pericolosa, come se un sasso lo facesse inciampare quando meno se lo aspetta!”
Questa compassione, questo amore per l’uomo, come lui lo definiva l’uomo nudo, è presente in tutti i suoi romanzi ed è, lo sappiamo, condivisa in pieno dallo stesso personaggio di Maigret.
Alcuni eventi drammatici dell’ultimo periodo con Denise non vengono qui volutamente raccontati, perché anche a noi fa male capire come Simenon, nel tentativo fallimentare di salvare la moglie da se stessa, sia poi inciampato, senza rendersene conto, verso un destino che forse non meritava.
Concludiamo invece con le parole amare, ma realistiche, di Dostoevskij: « Da un essere umano, che cosa ci si può attendere? Lo si colmi di tutti i beni del mondo, lo si sprofondi fino alla radice dei capelli nella felicità, e anche oltre, fin sopra la testa, sì che alla superficie della felicità non salga che qualche bollicina, come sul pelo dell´acqua – gli si diano la tranquillità e di che vivere, al segno che non gli rimanga proprio nient´altro da fare se non dormire, divorare pasticcini e pensare alla sopravvivenza dell´umanità; ebbene, in questo stesso istante, proprio lo stesso essere umano che avete reso felice, da quel bel tipo che è, e unicamente per ingratitudine, e per insultare, vi giocherà un brutto tiro. Egli metterà in gioco persino i pasticcini, e si augurerà la più nociva assurdità, la più dispendiosa sciocchezza, soltanto per aggiungere a questa positiva razionalità un proprio funesto e capriccioso elemento. Egli vorrà conservare le sue stravaganti idee, la sua banale stupidità… »
Con le nostre parole: non è sano dare troppo e ricevere troppo poco, così come non è sano voler cambiare chi non vuol essere cambiato. Insistere su questa strada risponde solo ai bisogni di controllare l’altro, deleteri per chi controlla e per chi è ossessivamente controllato.