Le piaghe di “ieri”, esulcerate dalla corruzione, dall’inganno, dal tornaconto personale, sono ancora oggi purulente, anticipate e implicitamente commentate, nel 1965, dalla rivisitazione cinematografica di Alberto Lattuada.
“La Mandragola” è un “gioiello” tanto incisivo da oltrepassare i secoli e “dipingere” l’età contemporanea attraverso le strabilianti avventure dei personaggi. Firenze, 1520. Niccolò Machiavelli apre il suo scenario su una cena goliardica durante la quale Callimaco s’infiamma per la casta Lucrezia egregiamente rappresentata da Rossana Schiaffino, “moglie” di messer Nicia, gretto notaio infarcito di una cultura pedantesca e deciso a qualsiasi espediente pur di avere un erede. Con l’aiuto dell’amico Ligurio, del servo Siro e di uno spassoso Totò fortemente “tipizzato” che, nelle vesti di Fra Timoteo, è “portatore di una recitazione umanizzata e densa di grovigli psicologici” (Ennio Bìspuri), “un illustre medico” convince Romolo Valli, l’anziano e impotente “marito”, a far bere alla moglie una pozione di Mandragola.
Un solo problema. L’erba miracolosa guarisce dalla sterilità, ma può far morire il primo che abbia rapporti sessuali con lei. Il gretto notaio, terrorizzato, acconsente che “un poveraccio” consumi il primo rapporto con la giovane donna ancora sotto l’effetto della pozione; un “garzonaccio” sarà “acciuffato per strada” e lo si farà “giacere” con la recalcitrante Lucrezia. L’appassionato innamorato, travestito, sarà “casualmente” scelto per sostenere la “difficile parte” mentre la moglie, dietro le sollecitazioni di Nilla Pizzi, nel ruolo della “madre” Sostrata, e di Fra’ Timoteo, “don Abbondio in formato ridotto, caratterizzato non dalla paura ma dal denaro” (www.antoniodecurtis.org), sopporterà la profanazione del suo corpo.
Tutta per lei la comprensione del lettore … prima … l’evviva alla giovinezza e all’amore, subito dopo, quando le sarà svelato l’inganno dall’apollineo Callimaco. Si scoprirà, allora, una Lucrezia “virtuosa”, decisa a “garantirsi per sempre quello che gli altri le hanno imposto per una notte” … “come obbedienza al divino volere”. Il “magister doctus e sollicitus”, Philippe Leroy, diventa il suo amante e un cinico Romolo Valli, che aveva mostrato totale indifferenza verso le conseguenze morali del suo gesto, dovrà “cullare un figlio non suo”.
Il regista, nella “lettura” della commedia più rappresentativa del Rinascimento italiano, segue la costruzione e il linguaggio del testo originale, sottolineando in modo eccellente i chiari rinvii ai temi del Decameron incentrati sul raggiro e la beffa “a discapito degli sciocchi mariti”; egli, però, ha liberamente aggiunto divertenti scene, piccole curiosità o gli assurdi tentativi di Messer Nicia nel guarire Lucrezia dalla sterilità, esperimenti che raggiungono l’apice con il bagno nel pepe indiano o con il sasso bollente appoggiatole sul ventre. La fantasia nel film non disturba, anzi rende più ingegnose le strategie di Ligurio e la sua spontanea dote di cogliere al volo quanto la “verità effettuale” esige.
Nell’opera teatrale il “rapimento” di Callimaco avviene senza problemi, nel film, invece, passa attraverso l’errore dell’aggressione a un passante e l’incontro col bargello, che viene evitato facendo credere il povero “straccione” un indemoniato; il primo incontro tra Callimaco e Ligurio, nella commedia, è antecedente all’inizio della avventura, mentre nel film avviene quasi a metà dell’opera. L’idea, nel film, di utilizzare la mandragola, facendola scaturire dall’incontro del “servus currens” di plautina memoria con un negromante, entusiasta delle proprietà magico-terapeutiche della pianta, connota la naturale tendenza dell’autore, sempre desideroso “di trarre esperientia” dalla quotidianità.
Al di là di possibili inesattezze o personalizzazioni, quindi, si coglie la sinergia ideale tra l’autore e il regista; il “vero” Machiavelli, infatti, è sempre presente tra le righe con il suo amaro sorriso sui “rei tempi” e il suo bisogno di indagare su fatti passati per trasformarli in “istrumentum regni”.