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Maledimiele non è un film sull’anoressia o sull’adolescenza, ma su anoressia e adolescenza insieme, sull’incontro tra due esperienze totalizzanti, quasi mistiche: l’una potenzia l’altra, amplifica e radicalizza scelte di vita estreme. L’adolescenza capita; il rifiuto del cibo si sceglie, ma può diventare coazione a ripetere, logica stringente alla quale è difficilissimo rinunciare.
Così passano le giornate di Sara, dalla fine dell’estate all’autunno, blandite e possedute dalla malattia. I sintomi sono chiari per noi, che già sappiamo, ma le persone a lei vicine non riescono a coglierli. Perché Sara è una brava ragazzina, responsabile a scuola e in famiglia, e sa anche essere leggera con le amiche. Non ama mostrarsi e si infagotta nei vestiti abbondanti del padre, a nascondere il corpo che sboccia ( e il cappuccio della felpa a coprire i bei capelli); cammina un po’ curva, viso e sguardo abbassati, imbarazzata dal suo diventar donna. La goffaggine da quindicenne, opposta alla spigliatezza delle coetanee, potrebbe essere un segnale, ma solo per noi, appunto, che già sappiamo. Quanti adolescenti, come lei, si muovono maldestramente, impacciati nel corpo che non riconoscono!
Sara è ripresa il più delle volte a figura intera, spesso in casa o al parco da sola; ma anche i genitori sono resi nella loro solitudine. I corpi non si toccano, non si sfiorano. Prevalgono gli sguardi; la madre (Sonia Bergamasco) che in silenzio osserva il marito attraverso una vetrata, mentre lui suona il pianoforte; il padre (Gianmarco Tognazzi) che si preoccupa della moglie e della figlia, ma è troppo preso dal suo lavoro. Non a caso è proprio un oculista, una persona che cura gli occhi degli altri. L’attenzione verso i personaggi è infatti molto concentrata sugli sguardi. Giochi di sguardi in casa che non si traducono in dialoghi aperti, ma che rimangono nei confini riduttivi della consuetudine. Affetti reali, ma scarsamente dichiarati, che non si esprimono nei gesti. Famiglia borghese come tante, in cui ognuno è distratto dalla propria realizzazione, ma non per questo giudicato colpevole.
Sapiente la descrizione della famiglia ristretta di Sara che vive nel benessere della grande città (una Milano difficilmente riconoscibile, restituita in interni alto-borghesi, dove i personaggi sono raramente insieme nella stessa inquadratura e quando avviene c’è sempre una certa distanza tra loro). Silenzi nelle scene in cui Sara è in automobile, sia col padre che con la madre. «Sara e i suoi genitori sono come tre monadi», Eppure non c’è condanna, non c’è determinismo. Marco Pozzi non vuole dirci che l’anoressia nasce necessariamente da genitori distratti, perché genitori distratti lo siamo oggi un po’ tutti. Non vuole dare lezioni di vita, ma solo osservare, in maniera autentica e non compiaciuta i segni della malattia e il suo contesto emotivo, relazionale, sociale.
Spazi e colori a rimarcare solitudini vere o anche solo fantasticate. Lunghi corridoi, ambienti freddi e luci altrettanto fredde, molto colore bianco: «Se per il mondo occidentale il bianco ha sempre avuto un significato essenzialmente eucaristico, il bianco di Maledimiele è un bianco che non è rassicurante, ma nemmeno preoccupante, è il colore dell’anaffettività, il colore del vuoto, un’astrazione». E intanto l’anoressia s’insinua sempre più subdola nella mente di Sara. La costringe a puntare la sveglia di notte per esercizi fisici estenuanti, la fa resistere venti minuti in una vasca d’acqua ghiacciata per bruciare calorie, le fa registrare il peso maniacalmente con l’obiettivo dei 38 chili, “il peso perfetto”. Girellare un po’ tra siti e blog che inneggiano all’anoressia (consultati dal regista e dalla sceneggiatrice) fa davvero impressione. Abbondano di suggerimenti e Sara li segue alla lettera.
Eppure, nonostante il tema così forte, non ci sono scene respingenti. A parte l’accesso bulimico dell’incipit del film, Marco Pozzi ci ha narrato la vita e la psicologia di un’adolescenza anoressica dosando le emozioni, ben interpretando il limite del pubblico nel sostenerle e costruendo una storia adatta a tutti, adolescenti compresi. Racconta durante le sue presentazioni del film, di aver accompagnato il suo lavoro nelle scuole e di aver raccolto testimonianze toccanti, anche di ragazze che si sono dichiarate simili a Sara, con gli stessi identici problemi.
Maledimiele ha allora un doppio merito: la riuscita dal punto di vista formale e la capacità di parlare, in modo sobrio ed efficace, di un grave problema che è insensato censurare: «è un problema sociale, e il fatto che non si riesca a parlarne nonostante le morti significa che c’è un tabù, una resistenza, dovuta al fatto che è il nostro modus vivendi che viene messo in discussione».
Ha resistito Marco Pozzi a tutti i luoghi comuni sull’anoressia, le facili conclusioni, le troppe esibizioni. Il risultato è questa narrazione, semplice e complessa insieme, che si offre al pubblico con diversi livelli di lettura. Un adolescente può coglierne i messaggi immediati, identificarsi (com’è di fatto avvenuto), proiettare parti del Sé, emozionarsi quando la vicenda incontra un suo particolare momento esistenziale o la sua personalità non ancora definitivamente strutturata.
Gli adulti, quelli più abituati al cinema, soprattutto, apprezzano anche i rimandi, le aperture (di cui il film è molto generoso), le citazioni: la più bella tra tutte, quella de “Gli anni in tasca” di Truffaut. E quel misto di realismo e linguaggio simbolico che fa di Maledimiele un’opera ricca, di cui volentieri si discute e con la quale volentieri ci si confronta.
Auguriamo a Marco Pozzi e al suo coraggioso film di continuare ad essere ben accolti nelle scuole perché, ha ragione lui, di anoressia bisogna parlare e parlarne con gli adolescenti. Winnicot diceva che per loro “è una gioia nascondersi, ma è un disastro non essere scoperti”: ben venga allora un lavoro così, che rende visibili tragedie individuali e collettive e offre l’opportunità della condivisione.

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Margherita Fratantonio