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Mente

L’Ospite Inatteso di Thomas McCarthy

Mentre il personaggio di Walter Vale si delinea, mentre si svela il vuoto delle sue giornate, si affacciano alla mente  ricordi di personaggi che come lui vivono vecchi grigiori e, nello stesso tempo, nuovi desideri: dare finalmente alla vita, perché no, qualche pennellata di colore.
 
 E’ lo stesso passaggio esistenziale di Manesquier, nell’Uomo del treno di Leconte (un docente in pensione, interpretato dal superloquace Rochefort); ed è lo stesso di Roland Verneuil, stimatissimo professore di storia, reso da un altrettanto bravo Fabrice Luchini, nel film Parigi.
 
Ed ora L’ospite inatteso, con Richard Jenkins nei panni del docente universitario che ha perso la creatività, il senso del ruolo, forse di tutta la sua esistenza, consumata in solitudine.
 
Tre professori in crisi d’età. Insegnanti rigidi, irrigiditi da decenni di scuola o di università; la scelta della professione in questi tre film è solo un caso? Preferisco pensare di sì, e prendere le distanze da personaggi così tristemente irrisolti a tarda età (perché anch’io, da sempre, insegno per vivere): meglio affidarsi ad un sorriso dolce e amaro come dolci e amare sono queste tre storie.
 
Tristissima la scena in cui Walter Vale ricicla il programma (e lo fa ormai da vent’anni!) cancellando l’ultima cifra con la scolorina! Quella scolorina che si fa simbolo del suo vivere tetro e rinunciatario; un cancellare che è anche un cancellarsi, in tempi sempre uguali ripetuti ordinatamente. Sono i quattro quarti della musica classica, un ordine che non sempre coincide con l’armonia dell’anima.
 
Fino all’arrivo provvidenziale dell’ospite inatteso, non ci sono e non ci possono essere varianti nella vita di Walter: lo studente che consegna il lavoro in ritardo, per esempio, è un fuori programma non previsto. Non ascolta le giustificazioni – vere o fasulle – dell’allievo; non fa niente per verificarle, risultandoci piuttosto antipatico nella sua indisponibilità.
 
E’ molto più comodo non ascoltare, non chiedere: semplicemente la relazione scritta fuori tempo non viene accettata, e in questo modo neanche la relazione con l’altro.
 
Poi, in questa abitudine al rifiuto emozionale, irrompe lo straniero, che viene da lontano e porta il soffio di una vita diversa. All’inizio, solo incredulità e diffidenza, ma non potrebbe essere altrimenti perché, per un errore,  Walter  lo straniero se lo trova addirittura in casa: è il giovane siriano Tarek che insieme alla sua ragazza africana Zainab si è piazzato nel suo appartamento newyorkese.
 
Molto presto però lui li invita a restare, impietosito dallo spaesamento dei due, cacciati dall’Eden del Greenwich Village  e finiti in strada senza un tetto sulla testa. Come mai  Vale, che abbiamo visto poche scene prima  così chiuso al dialogo, per fastidi sicuramente minori, è così cambiato? Si può solo supporre che ci sia stata una lenta trasformazione interiore di cui non siamo testimoni. Come sempre accade, la parte più significativa di un cambiamento è quella nascosta, ciò che lentamente matura,  rendendolo possibile.
 
Grazie alla comune passione per la  musica, nasce una bellissima amicizia tra i due uomini, a dispetto della forte differenza d’età. Già nella prima sequenza avevamo visto Walter prendere lezioni di piano, nonostante lo scarso talento, come omaggio alla moglie, una brava pianista, morta cinque anni prima. Si ostina (ma chi di noi non lo fa?) a ripetere gesti e progetti che  non rispondono a bisogni autentici, e non sono affatto l’espressione di quello che profondamente vorrebbe.
 
Lo strumento a percussione di Tarek invece diventa da subito l’oggetto del desiderio segreto di Walter, finché Tarek stesso non gli insegnerà come toccarlo, con lievità e non rabbiosamente. Bisogna abbandonare l’idea della musica classica, quella ordinata dei quattro tempi per lasciarsi andare a movimenti ritmici in tre tempi, diversi, fantasiosi.
 
E così Vale lo farà prima vergognandosene; ma quel ritmo gli entrerà dentro così prepotente da dargli un grande coraggio: suonare al parco, insieme a Tarek e ad un gruppo allegro di percussionisti improvvisati. E’ la scena più bella del film: Walter finalmente in sintonia con se stesso e con gli altri,   trascinato dal ritmo di una musicalità tutta nuova.
 
Che andrà così lo si intuisce già prima, quando entra in casa e si trova solo davanti al djembe; gli si siede di fronte, lo afferra in maniera maldestra e comincia a suonarlo.
 
Lo strumento è così dissonante rispetto al  personaggio! La scena somiglia a quella in cui nell’Uomo del treno  il professor Manesquier  indossa il chiodo con le frange del suo ospite (il ladro interpretato da Johnny Halliday) e si guarda compiaciuto allo specchio. Ma per il professore di Leconte non è facile indossare abiti altrui, perché sarebbe come prendere il treno, lui che il treno lo ha sempre e solo visto passare.
 
Così come per il professore del film Parigi, Roland Verneuil, non è facile cambiare valori e comportamenti; sì, è vero, lo fa  innamorandosi di una ragazza troppo giovane a cui manda messaggini con i versi di Baudelaire, ma la sua intraprendenza coincide con l’inizio di una crisi e di una terapia che non sappiamo come si concluderà.
 
Il cambiamento di Vale, nonostante l’età, nonostante l’eccesso del nuovo, sembra essere facilitato da Mouna, la madre di Tarek arrivata a New York dopo l’arresto fortuito di suo figlio. Come potrebbe Walter non innamorarsene? E’ oramai così disponibile, così aperto a tutto ciò che accade! E il volto di lei così espressivo, così intenso! E’ l’attrice israeliana Hiam Abbass (la stessa della Sposa siriana, rivista da poco  nel film struggente Il giardino dei limoni).
 
Davanti a lei, alla sua docilità e alla determinazione di una donna che per il figlio è disposta a tutto, Walter riesce a rivelarsi, a parlare della sua crisi identitaria, di come ha costruito e mantenuto finora il suo falso sé. Lei lo ascolta e non lo giudica, perché da lui ha ricevuto solo bene, solo generosità, solo gentilezze.
 
E anche noi siamo toccati dalla grazia di questa storia. Come dice Tullio Kezich, “Siamo di fronte ad un bel film che fa del bene; ti insegna ad accettare l’ospite inatteso, anche quando è profondamente diverso e, mantenendo la fionda del messaggio politico, non trascura di impartire un augurio esistenziale. Possa il ritmo vitale dello jambè rimettere la tua anima in movimento facendo balenare due soldi di speranza”.
 
Ne abbiamo proprio bisogno! Abbiamo bisogno di storie in cui è possibile  dare, senza per forza ricevere in cambio, se non la gratificazione del dono di sé. Abbiamo bisogno di storie che alimentino un po’ di ottimismo (anche se la situazione americana ritratta nel film – molto vicina alla realtà – faccia ben poco sperare o forse proprio per questo).
 
E abbiamo bisogno di amicizia e di amore narrati, che superino i confini della cultura, delle generazioni, delle distanze. Walter, Tarek, Zainab e Mouna sono capaci di legami assolutamente non tradizionali, intrecci di coppie che si amano di amori diversi, tutti molto intensi.
 
I primi fotogrammi sembrano suggerirci il desiderio di coppia, di simmetria: due sedie, due grandi finestre, due poltrone, nella casa di Walter nel Connecticut. In realtà lui è solo e le stanze trasudano  assenza: una moglie che non c’è più e di cui lui non sembra parlare volentieri. I ricordi non compaiono mai: sono appena suggeriti. Ma come dice Nadia Fusini nel suo libro L’amore necessario; “La vita si perde, quando se ne perde la memoria. I ricordi sono il solo filo che possa cucire il tessuto strappato dell’esistenza”.
 
Lasciata l’immobilità della casa del Connecticut, a New York vedremo finalmente le coppie formarsi e la vita che scorre dentro ognuna: Tarek e Zainab  (lui siriano, lei africana che si amano appassionatamente); Tarek e Walter che iniziano un’amicizia nient’affatto paterna, (è  il più giovane a trasmettere l’amore per il ritmo della musica, del cuore, della vita stessa).
 
Profonda è la relazione tra Walter e Mouna, uniti dall’amore e dall’affetto per Tarek, ma anche da come le loro anime si rispecchiano l’una nell’altra: l’assenza del coniuge, la sofferenza a lungo trattenuta e una solitudine che non è più rassegnazione.
 
Ultima coppia, ma non ultima, quella di Mouna e Zainab: quando Mouna  vede la giovane donna del figlio, dice: “E’ tanto nera!” quasi non l’accettasse, ma da subito nasce un grande affetto, perché non possiamo non amare le persone vicine a chi ci è molto caro.
 
Coppie che la vita unisce per poi cinicamente separare, che la stupidità allontana, in questo caso l’ansia tutta americana del dopo 11 settembre. Restano  la tenerezza, la drammaticità, l’affetto gratuito, l’amore appassionato, l’umanità dolente, le vicinanze, la fiducia in relazioni possibili che da un momento all’altro, se solo lo vogliamo e le sappiamo valorizzare, cambiano  la nostra vita.
 
E una parola rimane alla fine della visione: habibi, anima mia, cuore mio, pronunciata da Mouna tra le lacrime: nel dolore, certo, ma anche in una dolce, dolcissima tenerezza. Anzi, meglio dire delicatezza, che Roland Barthes definisce ancora più efficace della compassione.

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Margherita Fratantonio

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