Come la polizia informa i congiunti, destinati poi a scontrarsi con la macchina della giustizia e dei risarcimenti. Come si forma il popolo dei parenti delle vittime.
Non è una novità, per noi. Tutto comincia a un tratto, all’improvviso. Un’auto che perde il controllo, una moto che scivola a terra, un impatto fatale. E poi è silenzio, seguito dai soccorsi e dalle telefonate. Lunghi momenti scanditi da pause fatte di “rumoroso” silenzio. Il campanello che trilla, un telefono che suona, una divisa che irrompe nel cuore della notte. Ancora silenzio. Quante volte lo abbiamo raccontato, questo “dramma tutto dei poliziotti” che fanno capolino in una casa che non avevano mai visto e che non rivedranno mai, in un istante fatto di lunghissima tensione, di parole cercate a fatica, di silenzi che parlano da soli e che nessuno dimenticherà più? Già, perché quel “dramma tutto dei poliziotti”, quell’istante muto gridato in quella famiglia è di per sé un altro impatto, di portata devastante: quello di una notizia gettata in faccia in chissà quale modo a persone inermi e disarmate, impreparate come i poliziotti che vanno a dire a quella famiglia che il figlio o la figlia, il padre o la madre, stavolta non torneranno più: non dobbiamo, noi operatori di polizia, aver paura di dire a noi stessi la verità, perché nessuno – questa è la verità – ci ha insegnato a dire le cose in un determinato modo, seguendo un protocollo (solo da poco si sta tentando qualcosa in questa direzione). Questione delicata, ma che non passa inosservata né in Italia, né in Europa, tanto che la Federazione Europea delle Vittime della Strada, insieme a 16 associazioni satellite e alla Commissione Europea, ha deciso di effettuare uno studio per monitorare la condizione dei nuclei familiari a partire da quel momento successivo, che dovrebbe precedere il follow up. Una ricerca che ha fornito dati sconvolgenti che qui, ora, affrontiamo.
L’indagine ha riguardato un campione di 10mila vittime e di superstiti della strada, residenti in nove diversi stati dell’Unione Europea, ai quali è stato fornito un questionario sui cui risultati è necessario soffermarsi ed effettuare, sulla scorta dell’analisi fornita dalla FEVR, alcune riflessioni.
L’INCIDENTE STRADALE, L’IMPATTO CHE SI RIPETE
La prima: l’incidente stradale non è mai questione di un attimo, ma è un impatto che si ripete, al quale segue un decadimento della qualità della vita dei superstiti sopravviventi. Se questi subiscono danni permanenti o muoiono, il decadimento è subito da chi sta loro vicino, con una degenerazione della vita il cui inizio viene convenzionalmente fissato all’imprinting che un evento del genere provoca, inaspettato, sulla propria vita. Lo studio ha infatti evidenziato una serie di fattori che noi del settore – è doveroso ammetterlo – non sempre teniamo nella giusta considerazione ma che senza dubbio intuiamo. Quante volte abbiamo pensato “ma come faccio a dirglielo?”
In molti casi le vittime di incidenti stradali lamentano carenze e lacune informative a proposito dei propri diritti e delle proprie tutele, lamentano latitanza o assenza totale di apparati sanitari in grado di fornire sostegno psicologico a loro stessi ed alle famiglie, per non parlare dell’insoddisfazione circa l’efficienza della giustizia penale e civile in tutti gli stati.
La stragrande maggioranza degli intervistati, costituita dal 91% delle famiglie delle vittime decedute, e dal 78% di quelle degli invalidi, ha fatto notare l’assoluta mancanza di informazione da parte delle istituzioni circa i propri diritti.
Quali diritti? Tutti, a partire dalla semplice possibilità di porre domande, al disbrigo delle formalità per essere legalmente rappresentati nelle inchieste o anche solo per sapere i tempi giuridici necessari per ricorrere in appello successivamente ai primi gradi di giudizio. Tra gli intervistati l’85% ha lamentato la più totale assenza di informazione circa i possibili supporti o le organizzazioni di vittime.
Di più: nonostante le vittime più numerose sulla strada siano di giovane età, secondo lo studio della FEVR solo 10 famiglie su 100 sarebbero state contattate per la donazione di organi, a dispetto della scarsità di donatori. Questo ci istilla qualche ragionevole dubbio, perché per effettuare un espianto da un soggetto deceduto devono ricorrere alcune condizioni. Ci pare che quando queste condizioni si verifichino – almeno in Italia – gli stessi medici della struttura ospedaliera ove il soggetto defunto o cerebralmente morto sia stato trasferito, procedono all’informazione necessaria nei confronti dei familiari per richiedere l’autorizzazione al prelievo degli organi riutilizzabili. È possibile però che trattandosi di una ricerca “empirica” molti abbiano recepito la non-richiesta di espianto (perché non si erano verificate le condizioni) come una possibilità effettivamente perduta di trasformare la morte di un congiunto in nuova vita.
Ma una delle critiche più ricorrenti rivolta dalle famiglie delle vittime alle istituzioni, che è stata mutata in richiesta specifica alla Commissione Europea – è quella di essere stati informati della morte del congiunto da parte di qualcuno non addestrato specificamente per questo compito. Su questo specifico argomento Il Centauro sta realizzando un’inchiesta che uscirà sui prossimi numeri.
E poi? Si tratta di richieste più umane, come quella di avere immediatamente accesso al corpo del proprio caro, spesso soggetta al parcheggio “da fine settimana” negli obitori. Si tratta di lunghi periodi caratterizzati dall’assoluta mancanza di supporto immediato, spesso registrata anche nel lungo termine, da parte di psicologi e legali da parte di professionisti che dovrebbero fornire, per conto delle istituzioni, un’informazione immediata sui propri diritti, sui procedimenti legali e sull´inchiesta e su tutte le circostanze dell’incidente.
Proprio sulla questione legale è interessante riportare il pensiero delle vittime e dei loro familiari, circa la parte che potremmo definire pratica, e relativa allo svolgimento del processo penale aperto successivamente all’evento: a tal riguardo l’89% delle famiglie dei morti e il 68% di quelle degli invalidi ritengono di non aver ottenuto giustizia, mentre il 75% e il 61% sostengono che la pena comminata ai responsabili non sia stata adeguata. Il 70% degli intervistati totali, e questo deve dare spunto di riflessione, ha avuto la sensazione di essere trattato in maniera non appropriata e assolutamente irrispettosa.
UNA GIUSTIZIA TROPPO LEGGERA
Ora, pur ribadendo più volte gli autori della ricerca di aver seguito un metodo empirico, è questo un argomento da tenere in debita considerazione, come del resto i desideri espressi dalle famiglie. Quali? L’effettuazione dell’analisi del sangue del guidatore che ha causato l´incidente, per esempio, o la sospensione della patente degli imputati almeno finché non arrivi il pronunciamento del tribunale, rappresentante di uno Stato che spesso esclude le famiglie delle vittime nei processi e che prevede, sempre secondo le vittime, pene troppo morbide imposte con sentenze nelle quali sanzioni come il carcere o anche la sospensione a vita della patente per i recidivi non figurano mai.
Stessa “condanna”, nel giudizio esposto da vittime e familiari, subiscono le assicurazioni e le cause civili, soprattutto nei confronti delle prime: in relazione ai rapporti vittime/familiari e compagnie assicurative infatti, l’80% degli intervistati ha dichiarato aperta insoddisfazione dei propri rapporti con le assicurazioni e dei risarcimenti loro offerti: il 60% di coloro che hanno compilato il “form” si è lamentato dell’esame medico obbligatorio richiesto dalle compagnie, sul quale spesso gravano pesanti perizie di parte, tanto che è divenuta consuetudine trovare un accordo tra una proposta delle vittime, che restano insoddisfatte, e quella della controparte, che alla fine decide.
Il 95% vorrebbe essere rappresentato da un avvocato di parte civile immediatamente dopo l´incidente, mentre le necessità più immediate a cui dovrebbero provvedere le assicurazioni sono le spese funebri, la perdita di guadagno e i trattamenti sanitari.
In ordine a questo specifico punto, che chiama in causa le compagnie assicurative, è doveroso sottolineare che un 50% circa delle vittime rese invalide da un evento infortunistico occorso sulla strada ha dichiarato di aver raggiunto una certa stabilità della propria condizione fisica (comunque con esiti invalidanti) solo dopo almeno tre anni. Il restante 50%, però, è destinato a non recuperare più una condizione che possa dirsi stabile e quindi sopravvive con postumi in evoluzione. A tal proposito il 60% delle vittime e dei familiari considera la percentuale di invalidità fisica riconosciuta dalle compagnie di assicurazione assolutamente insufficiente.
IL DISAGIO POST TRAUMATICO E I RISARCIMENTI
Alla luce di quanto appena accertato, se si riconosce all’indagine una certa validità, si può parlare di europeismo del disagio post traumatico, riferito anche all’inesistenza – e qui entriamo nel campo risarcitorio e previdenziale – di riconoscimenti legali circa il cosiddetto danno di lungo termine successivo al trauma cranico importante, patologia infortunistica assai frequente (come l’Istituto Superiore di Sanità ha spesso ricordato, anche sulle pagine de “Il Centauro” per il tramite dei propri autorevoli rappresentanti).
Riguardo la sofferenza psicologica di vittime e familiari, definita fortissima e di lunga durata, lo studio FEVR ha appurato che il tempo non lenisce le ferite e che anzi il danno da mancanza di un congiunto sparito in un sinistro o il danno da infermità, sono destinati a crescere e farsi sentire, ingenerando malattie conseguenti serie, in grado di condurre perfino alla morte. Tanto per citare il caso italiano, vale la pena ricordare che nel nostro paese sono pochissimi i centri di recupero per i para e i tetraplegici, peraltro tutti operativi al centro e al nord: non conosciamo la realtà degli altri paesi dell’Europa, ma qui in Italia la struttura sanitaria idonea a garantire assistenza specializzata per i para e tetraplegici più a sud è quella di Perugia. Scendendo oltre, chiunque abbia la sventura di riportare in eventi traumatici o in altre patologie una lesione midollare, ha forti probabilità anche di morire. In effetti tale tipologia di lesioni è purtroppo irreversibile e per questo bisognosa più di altre patologie traumatiche di un’assistenza continua, anche di carattere psicologico, sia per la cura che per il reinserimento nella società. Senza un’adeguata assistenza può accadere che il paziente-vittima, riesca a sopravvivere alla fase acuta per poi soccombere a complicazioni di carattere vescicale o per infezioni successive alla formazione di piaghe da decubito.
Abbiamo detto di conoscere l’Italia: in generale, nei nove paesi in cui si è svolta la ricerca, la situazione non è però migliore, se è vero che il 40% di vittime e familiari ha dato un giudizio negativo sulla qualità delle cure mediche e riabilitative. A proposito del trauma cranico grave, solo il 37% delle vittime che hanno subito danni alla testa è stato pienamente riabilitato entro i primi tre anni, e solo un ulteriore 19% lo è stato più tardi.
Secondo la FEVR c’è un restante 44% condannato a patire danni neurologici o cerebrali permanenti, consistenti in disfunzioni neurologiche tra le più disparate: si va da un 78% che soffre di perdita di memoria e che incontra incapacità di concentrazione, ad un 70% che non riesce a svolgere mansioni cosiddette ordinarie, mentre un 59% non riesce ad articolare il linguaggio. Statisticamente, dopo i primi tre anni le percentuali scendono rispettivamente a 61, 52 e 29%.
Sarebbe dunque la dimostrazione che le conseguenze fisiche e mentali di un incidente stradale possono avere effetti di lungo termine che incidono per sempre, in maniera negativa, sulla qualità e sul livello di vita delle vittime o, se queste muoiono, dei loro familiari. Eppure – sempre secondo la federazione europea delle vittime della strada – gli effetti di un trauma cranico spesso non vengono riconosciuti perché non sono sempre visibili, benché possano costare alle vittime il lavoro o la capacità professionale, con serie conseguenze economiche per l´intera società.
Al questionario proposto dalla FEVR era stata aggiunta una parte in cui ognuno dei diecimila intervistati ha proposto impressioni, punti di vista e suggerimenti, ritenuti così importanti dagli artefici dell’analisi da costituirne poi l’ossatura e la sostanza stessa, con il risultato di centrare l’obiettivo ed uscire allo scoperto con una “lista della spesa” che la Commissione Europea dovrà fare sua per fornire nuove linee guida agli Stati Membri.
IL DANNO “DI SECONDO MOMENTO”
Una precedente ricerca intitolata “studio sul danno secondario fisico, psicologico e materiale inflitto alle vittime e alle loro famiglie dagli incidenti stradali”, aveva evidenziato come il 90% delle famiglie dei morti e l’85% delle famiglie di vittime di incidenti sopravvissuti, ma con invalidità permanenti elevate, dichiarasse un significativo, e in metà dei casi drammatico, declino permanente della qualità della vita. Inoltre, circa il 50% delle famiglie colpite dal lutto e il 60% delle vittime di infortunio riferiva di una caduta – di lungo periodo, sostanziale e talvolta drammatica – del livello di vita.
Con questo nuovo questionario il 50% degli intervistati dichiara complessivamente di aver consumato per lunghi periodi (e rispetto a prima dell’incidente) maggiori quantità di sostanze psicotrope, dai semplici tranquillanti ai sonniferi. Ma anche più nicotina, alcool e droghe, creando quindi una sorta di circolo vizioso.
Tra gli scopi dell’indagine vi era anche la ricerca di fattori di cambiamento successivamente agli eventi: è consuetudine, da parte chi subisce a qualsiasi titolo un infortunio, ritenere che a causa della tragedia il rapporto con normali partner sociali sia soggetto a deterioramento. Dall’analisi dei risultati, la FEVR ha dedotto però che ciò non accade sempre: per il 36% dei parenti dei morti non è stato registrato alcun cambiamento nelle proprie relazioni amicali, mentre il 20% parla di relazioni migliorate e il 23% peggiorate. Circa il destino delle coppie, il 34% dichiara nessun cambiamento, il 16% e il 21% un miglioramento e un peggioramento. Con i colleghi, le rispettive percentuali sono del 45, 6 e 16%. La stessa cosa è accaduta ai parenti dei disabili e agli stessi disabili, ma in queste due categorie il cambiamento – quando si presenta – tende più al peggio che al meglio.
Per quanto riguarda l’evoluzione all’interno dei nuclei familiari, è necessario effettuare una diversa considerazione: dopo la tragedia il 49% delle famiglie dei morti è andata incontro a mutamenti al nucleo familiare, che nel 6% dei casi si è sciolto e nel 5% ha comportato divorzi effettivi. 28 famiglie su 100 hanno segnalato figli che hanno lasciato la casa, mentre il 33% ha traslocato. Il 3% si è risposato.
Anche il 47% dei disabili e delle loro famiglie ha subito evoluzioni: per loro separazioni e divorzi sono stati molto più numerosi. Per motivi di spazio non possiamo toccare la questione della cosiddetta “aspettativa di vita”, ma confessiamo che leggere le righe di questa inchiesta ci ha molto colpito, offrendoci un importante spunto di riflessione, rivelando un impatto finora rimasto nascosto ai più. Ovvero, rivelando un lato oscuro ma comune a tutti i soggetti colpiti, a qualsiasi titolo, dagli incidenti stradali. E questo vale sia per le famiglie delle vittime che degli invalidi, confermando peraltro la gravità delle conseguenze per questi ultimi. L’indagine ha affrontato anche la questione dell’enorme costo sociale a lungo termine sul bilancio nazionale provocato da queste tragedie, ma su questo eravamo già informati.
Secondo la ricerca il 60% dei parenti dei morti, l’80% dei parenti dei disabili e il 70% dei disabili hanno dovuto cambiare occupazione, perché costretti dalle circostanze. Tra coloro che hanno perduto il lavoro il 65% dei familiari delle vittime, il 33% di quelli dei disabili e il 33% dei disabili stessi danno la colpa a questioni psicologiche. I restanti, ovviamente, per ragioni fisiche.
Lo stretto legame che c’è tra vittima-familiari-invalidi e la società costituisce un costo concreto che è umano e sociale. Per questo i promotori della ricerca hanno effettuato una ricognizione identificativa delle cause responsabili della caduta sostanziale di qualità e di livello di vita subita dalle famiglie delle vittime, individuando e quindi proponendo riforme amministrative e legislative.
Sembrerà banale, ma si tratta di sofferenza. Una sofferenza definita estrema, patita dalle vittime – che muoiono o restano invalide – e dalle famiglie, spesso lasciate sole al loro destino ma che necessitano di sostegno psicologico e materiale.
È giusto dunque che l’impatto degli incidenti stradali debba essere studiato a fondo e riconosciuto sia dalla società che dal sistema giuridico, in maniera tale da poter sostenere vittime e familiari con assistenza legale, individuando giuste forme di corresponsione, al termine dei processi, dei danni in relazione alla gravità patita, anche come postumi, garantendo procedimenti penali e civili più semplici e veloci, fissando standard risarcitori più alti, per assicurare ai superstiti ed ai familiari il mantenimento del livello di vita precedente.
IMPATTO PSICOLOGICO E FISIOLOGICO SULLE VITTIME E SUI LORO PARENTI
Vittime e parenti soffrono poi di insonnia, cefalee e incubi notturni destinate spesso a protrarsi oltre i tre anni, indice di una sofferenza psicologica che spesso diviene permanente. Una larga percentuale dei parenti delle vittime, morte e disabili, così come gli stessi disabili, soffre di disordini psicologici. La situazione peggiore è quella dei parenti dei morti, che nei primi 36 mesi pensa al suicidio nel 37% dei casi. Nello stesso periodo, il 72% ha perso interesse per le attività quotidiane, come l’attività professionale, il lavoro di casa, la cucina o gli studi; il 70% lamenta perdita nelle capacità di guida, il 49% perdita di fiducia in se stesso, il 46% ha attacchi d´ansia, il 37% ha sperimentato propositi suicidi, il 64% soffre di depressione, il 27% di fobie, il 35% di disordini alimentari, il 78% prova rabbia e il 71% risentimento. Tutte patologie di cui molti hanno dichiarato di soffrire insieme ad altre, rendendo la stima dei valori percentuali più difficile da interpretare, ma senz’altro significativa.
Dopo tre anni, queste manifestazioni decrescono in media solo del 10%. In particolare il pensiero del suicidio cala solo dal 37% al 26%, lasciando una grande percentuale di soggetti in angoscia estrema. Con l’eccezione dell’aspirazione al suicidio, i parenti degli invalidi presentano un quadro simile a quello dei parenti dei morti. Sorprendentemente, pur con i loro frequenti disordini – neurologici o di altro tipo – gli invalidi si presentano leggermente meglio (dal punto di vista psicologico ) dei loro parenti, in particolare per quanto riguarda gli attacchi d’ansia, le fobie, i disordini alimentari, la rabbia e il risentimento. Ancora una volta, i genitori dei morti sono i più colpiti (70%) da problemi relazionali, da difficoltà di comunicazione e da problemi sessuali. La percentuale per i parenti dei disabili è del 40%, per i disabili stessi del 50%. Dopo tre anni questi problemi non diminuiscono come ci si aspetterebbe, ma peggiorano di circa 5 punti per ogni categoria.
CONCLUSIONI
L’incredibile livello di sofferenza che la ricerca FEVR mostra, rivela una dinamica in continua ascesa e in proporzione al livello di morti e lesioni violente riportare sulle nostre strade. Fin qui, però, almeno noi del settore ci eravamo arrivati anche da soli. Ciò che invece la FEVR denuncia in maniera così marcata da risultare praticamente inedita, è che nessuna tra le nostre istituzioni ha realizzato la vera portata dell’incidente stradale grave. Chiunque subisca la privazione violenta di una o più persone care, chiunque subisca invalidità o debba assistere soggetti invalidi a seguito di un evento traumatico, deve fare i conti non la quasi totale assenza di aiuto. Non c’è comprensione del fenomeno che ad oggi possa limitare il declino della qualità e livello di vita.