L’empatia è, sì, un’arte, una tecnica che si apprende, che ci permette di stare con l’altro, in un ascolto autentico, sincero, profondo. Grazie alla presenza davvero empatica del counselor, l’incontro tra lui e il cliente diventa unico e irripetibile, occasione di crescita e cambiamento, oltre che opportunità per un nuovo modo di relazionarsi agli altri.
“Conoscere l’empatia significa sottrarre alla casualità i molteplici modi in cui viviamo le relazioni”. La definizione è di Laura Boella ed è tratta dal suo libro “Sentire l’altro”; l’approccio dell’autrice è di tipo filosofico, ma fin dall’inizio e per tutta la trattazione l’empatia è considerata sostanzialmente un’abilità che si può apprendere. Laura Boella afferma che “sentire l’altro” coinvolge corpo, emozioni, conoscenze, volontà e che esiste una pratica dell’empatia.
D’altra parte, secondo le ultime convinzioni delle neuroscienze, noi saremmo strutturati biologicamente per partecipare alle emozioni degli altri, grazie ai neuroni battezzati neuroni specchio e ribattezzati, non ricordo da quale scienziato, neuroni Dalai Lama proprio per la loro specifica proprietà, la compassione.
Ma al di là delle argomentazioni scientifiche e filosofiche, noi, interessati all’aspetto psicologico e relazionale, siamo convinti che è possibile esercitare ed esercitarsi nell’empatia e che la si possa acquisire nel tempo, con molta cura, con molta pazienza, con meticolosità.
E’ difficile dire come si progredisce nell’apprendimento di questa qualità; sono tutte le vite che ci vengono raccontate (con il loro carico di sofferenza e di leggerezza) o a volte basta un incontro per farci capire come la capacità di stare con l’altro si sia affinata.
Ad un certo punto del percorso di Counseling avviene. E’ l’intuizione che “ogni vita merita un romanzo” per dirla sia con Flaubert che con Polster, il quale nell’introduzione del suo interessantissimo libro (Ogni vita merita un romanzo, appunto) precisa che nessuno può fare a meno di essere interessante . Anche la vita meno illustre, anche quella apparentemente più scialba sono dense del loro fascino, e solo quando si subisce la seduzione dell’altro si riesce con naturalezza a stargli vicino, a condividere, senza per questo cadere nel pericolo della confluenza.
Quanto poi questa abilità sia avvertita dal cliente e dal cliente restituita, questo invece è più facile da intuire. Le sedute diventano più fluide, la persona più rilassata…. E più rilassato il Counselor. La fiducia non necessita di grandi dichiarazioni: la si legge nella qualità e nella quantità del dire, o anche nella profondità dei silenzi e in una piacevole, preziosa complicità.
Solo se il counselor ascolta con il cuore, il cliente si sente accolto, accettato, non giudicato e fa suo il messaggio “Vai bene così” che è la base per un reale cambiamento. Solo un ascolto vero fa sì che si crei quello spazio protetto in cui il cliente si permette di essere quello che è e in cui può riconoscere e dare voce, forse per la prima volta, alle parti ancora inesplorate di se stesso.
Soprattutto durante i primi incontri, se si vuole davvero avviare un processo autentico, è fondamentale creare un clima di reciprocità e affidamento. All’inizio le tecniche apprese possono essere di grande aiuto. Utilissima la lista di ciò che il counselor non deve fare: insistere con le domande, interpretare, indagare, valutare, frapporsi, sovrapporsi, fornire giudizi, eccedere nei consigli, offrire inutili avvertimenti o facili consolazioni. In sintesi, non farsi prendere dall’ansia di prestazione e stare il più possibile in sintonia con l’altro.
Viene in mente l’episodio raccontato da Frankl (e riferito da Marcella Danon), che riguarda una donna straniera la quale, dopo una seduta fortemente partecipata nella sua lingua, sconosciuta al terapeuta, ha affermato di averne avuto molto giovamento.
Viene in mente anche il film di Leconte “Confidenze troppo intime”: la storia di una donna che per errore (sbagliando semplicemente porta) si rivolge ad un consulente fiscale, anziché allo psicoanalista. Funziona. Le sedute continuano con risultanti brillanti, sia per lei che per l’improvvisato terapeuta. Una storia paradossale e provocatoria, certo; ma che noi Counselor abbiamo apprezzato molto, perché molto dice sulla qualità e sull’efficacia di un ascolto sincero.
A proposito di ascolto sincero, ricordo con tenera nostalgia il clima delle mie sedute di counseling nel ruolo di cliente. Ricordo soprattutto i silenzi, silenzi d’attesa per lo più, e quell’intimità – la porta alla quale ho bussato era sicuramente quella giusta! – l’intimità del dire e anche del non dire.
Dopo un buon percorso di counseling , resta la piacevolezza di un incontro così unico, così profondo; il cliente ne conserva intatto tutto il valore. Questo non significa che il giorno dopo si iscriverà ad un corso di formazione in counseling (a volte succede!), ma che sarà più attento ai rapporti con gli altri, alle sfumature, alla sua stessa capacità di esserci nella relazione.
E può rivivere, moltiplicare l’esperienza di scambi autentici, in modo che il processo di crescita del counselor, se ha lavorato con sapienza e davvero con empatia, possa diventare occasione di un processo di crescita per molte altre persone.