“…Ciò che bisogna fare è riuscire a rendere il terapeuta
più capace di utilizzare quelle parti di sé
che lui ha deciso di lasciare fuori
…perché ritiene inappropriate come terapeuta…”
R. de Bernart
La capacità del terapeuta riutilizzare diverse parti di sé e della sua storia, restando una “persona intera” (De Bernart, 1989) per entrare in relazione con l’altro, permette l’evoluzione del processo, attraverso un continuo movimento di entrata e uscita che lega le immagini dell’altro alle proprie, introducendo ottiche diverse e possibilità di rapporto alternative. Per far questo è necessario che il terapeuta abbia una sorta di osservatore interno che sia in grado di attuare una integrazione tra le diverse esperienze emotive e i suoi schemi concettuali, per trovare nuovi nessi e nuove relazioni, traducendo ciò in informazioni significative nel rapporto con l’altro (Andolfi, 2000).
Questo modo di entrare in rapporto rappresenta la situazione che si viene a determinare quando il terapeuta riesce a parlare con la famiglia attraverso le emozioni, i sentimenti, i silenzi, attraverso il racconto delle vicissitudini personali. Il terapeuta attua un’azione in cui entra in contatto con l’uno e separarsene subito dopo per riconnetterlo all’insieme familiare. Andolfi (Andolfi e Angelo, 1989) paragona questo movimento al meccanismo respiratorio, dove espirazione ed inspirazione sono altrettanto fondamentali e complementari tra loro.
A questo punto, definita la necessità di creare un contesto terapeutico che favorisca l’emergere di nuove storie e percorsi evolutivi, dato che il mezzo per “curare” siamo noi, viene da chiedersi quali sono le caratteristiche che possono facilitare l’entrare in relazione.
Questa domanda apre una riflessione non nuova nell’ambito della terapia familiare, infatti il problema del Sé comincia ad essere presente nelle riflessioni di molti teorici sistemici. Anche Boscolo (1996) nel suo libro “Terapia individuale sistemica” gli dedica uno spazio importante. Infatti, il tema è molto complesso in quanto, quando si parla di Sé, ci troviamo di fronte ad un concetto proteiforme e per certi versi sfuggente che può portare a incomprensioni e fraintendimenti. Boscolo afferma che il “non detto” si connette con il nostro cosciente influenzando il nostro modo di porci in terapia. Di conseguenza la conoscenza che il terapeuta ha del Sé diventa una conoscenza irraggiungibile fatta di un bagaglio teorico ed esperenziale difficilmente conoscibile nella sua pienezza. Questo, per molti aspetti, Boscolo (1996) lo rappresenta come “le piante dei piedi che quando ci si poggia sopra è impossibile guardarle” . Nonostante questo, se attribuiamo un ruolo importante alle emozioni, questo implica però che il clinico sia in grado di riconoscerle, esplorarle ed anche esprimerle in qualche modo. Questa pratica richiama il concetto di controtransfert che anche Losso (2000) ritiene una delle risorse più importanti del lavoro terapeutico, in cui il clinico deve avere una “sensibilità alle emozioni libera e pronta”. Per quanto riguarda questi concetti alcuni film risultano particolarmente chiarificatori: “La stanza del figlio” di N. Moretti (1999) in cui la rabbia lo portano a fare scelte sbagliate ed “Terapia e pallottole” di H. Ramis (1999) in cui il terapeuta è distratto dai suoi pensieri che lo allontanano dalla relazione. A tal proposito, secondo la visione di Losso (che condivido pienamente), il ruolo del supervisore e del gruppo sono fondamentali per restituire al terapeuta una maggiore consapevolezza di Sé, un punto di vista esterno delle sue emozioni, dei pregiudizi e delle modalità che egli porta all’interno del sistema terapeutico.
Gagnarli (1992) evidenzia l’importanza di far sì che il terapeuta acquisisca aspetti specifici che possano portarlo a produrre un’idea di Sé di affidabilità. In particolare, tali aspetti sono rintracciabili in alcuni concetti come la leggerezza (considerata come “avere peso essendo leggeri”), la rapidità (intesa come agilità, mobilità e disinvoltura rispetto al pensiero e allo stile), l’esattezza nell’avere un obiettivo chiaro da raggiungere, la “visibilità”, la molteplicità dei punti di vista che possono essere accolti senza rinunciare alla profondità e la consistenza, intesa come capacità di non soccombere sotto il peso delle richieste emotive della famiglia, il superamento del giudizio e il riconoscimento del limite. Questi elementi, sostiene Gagnarli, permettono al terapeuta di porsi in modo che la famiglia lo percepisca come persona autorevole.
Sulla stessa linea si pone anche Malagoli-Togliatti (1998) la quale sostiene che “…la costruzione dell’idea del terapista come validatore autorevole è un prerequisito indispensabile per la terapia, è il motivo per cui il paziente prende sul serio la possibilità di cura”.
Andolfi (2000) sottolinea come la possibilità di creare un clima affettivo intenso che permette alle persone di sentirsi accolte senza pregiudizi è legato anche ad aspetti non verbali della comunicazione del terapeuta, ossia attraverso il tono, il calore della voce e la gestualità il terapeuta può costruire una relazione intensa, dato che ha un peso preponderante rispetto al contenuto.
Sul tema dell’uso del Sé del terapeuta Loriedo (2000) propone, in modo molto pragmatico, delle “coordinate” (disponibilità, distanza, disciplina e creatività) che permettano al terapeuta di posizionarsi nel processo in divenire e nel “hic et nunc” della terapia. Ossia che gli permettano di orientarsi con maggiore consapevolezza all’interno di una relazione in divenire, in cui vicinanza e distanza sono aspetti imprescindibili e ugualmente importanti.
Per poter avere coscienza dei propri stili comunicativi non verbali e capacità di posizionarsi in modo adeguato all’interno della relazione, come indicato da Loriedo, il terapeuta, secondo Giacometti (1991) deve avere una “capacità riflessiva” (che nell’impostazione della terza cibernetica è facilitata dalla presenza del supervisore dietro lo specchio), ossia si deve porre in una posizione riflessiva rispetto all’interazione tra sé e il sistema osservato ed alle premesse che attribuiscono significato a tale interazione. Da qui la necessità del terapeuta di interrogarsi su quali caratteristiche deve avere la relazione in grado di garantire un processo di riflessione ed elaborazione capaci di ridare movimento alla famiglia.