Volendo cercare una collocazione all’Antonio e Cleopatra nel panorama teatrale shakespeariano, il dramma può essere inserito fra le cosiddette opere storiche. In linea logica, è la prosecuzione del Giulio Cesare, dal momento che si apre nel periodo del triumvirato andando avanti nella storia e mostrando il passaggio di potere da tre uomini a uno. L’opera quindi mette in scena un periodo epocale della storia romana, che è anche un momento di rottura e di svolta. Si descrivono, infatti, gli avvenimenti che portarono alla nascita dell’impero, che a sua volta può esser interpretata come la nascita di un nuovo mondo. Tali avvenimenti tuttavia rappresentano contemporaneamente anche la fine di un mondo, quello repubblicano, che, per quanto si fosse da tempo indebolito, riceve adesso il colpo mortale.
Nella tragedia questo passaggio di mondi risalta soprattutto dalla contrapposizione tra la Roma di Cesare Ottaviano e l’Egitto di Cleopatra: la terra nell’opera risulta così divisa in due. È però riduttivo considerare questo contrasto una semplice opposizione tra razionalità, concretezza politica, autocontrollo da una parte, e passione, immobilità, eccesso dall’altra. L’Egitto, in realtà, custodisce anche valori della Roma passata: la virtù e l’eroismo della generazione precedente, di cui Antonio è l’ultimo superstite, non risultavano poi così inconciliabili con quella terra. Il grande Cesare e Pompeo Magno, i padri dei medesimi protagonisti, erano stati gli amanti di Cleopatra, come Shakespeare sottolinea in numerose circostanze. Vi sono, ad esempio, i ricordi di Cleopatra: “O Cesare / dall’ampia fronte, quando eri qui, e ancora vivo, / ero un boccone da re. E il grande Pompeo / si fermava a guardarmi e spalancava gli occhi / come volesse ancorare il suo sguardo al mio viso, / e morire contemplando la sua vita” [I, v, 29-34]. Un’altra occasione è il dialogo tra Agrippa ed Enobarbo dopo la riconciliazione dei loro generali, “Una ragazza degna di un re! / Per lei il grande Cesare ha messo a letto la spada. / L’ha arata, e lei ha dato frutto” [II, ii, 227-229].
Nella nuova Roma di Ottavio, la virtù eroica lascia il posto alla misura, al freddo calcolo razionale e all’abilità politica. Nell’osservazione di Pompeo, “un uomo non [deve essere] più di un uomo” (II, vi, 19), si può in un certo modo vedere la trasformazione che ha caratterizzato la successione dei figli ai padri, i quali, col loro valore, avevano mostrato di essere “più che uomini”. La caduta di Antonio e dell’Egitto, quindi, segna la fine di un’epoca, la catastrofe di un mondo: segna cioè la fine di un’epoca nella storia romana, rappresentando la fine dell’eroico mondo repubblicano – di cui Antonio è l’ultimo rappresentante – per l’avanzare di un nuovo mondo, nel quale domina la scaltrezza politica del giovane e ambizioso Ottaviano.
L’Antonio e Cleopatra ripercorre questa storia a partire dai suoi versi iniziali:
Cleopatra – Se è davvero amore dimmene la quantità.
Antonio – È povero l’amore che consente misura.
Cleopatra – Metterò dunque un limite fino a cui essere amata.
Antonio – E allora dovrai trovare un nuovo cielo, una nuova terra.
Nelle ultime parole di Antonio, che invocano un nuovo cielo ed una nuova terra, è facile avvertire la suggestione della scoperta galileiana. Cleopatra non può tracciare un limite perché non vi sono limiti al loro amore come, dopo Galileo, non vi sono più limiti tra cielo e terra. A conferma di ciò, più avanti, la Terra diviene una «piccola O» (V, ii, 80), che ci trasmette quel sostanziale ridimensionamento della posizione terrestre portato dalla teoria copernicana.
Si può affermare, in generale, che le opere shakespeariane registrano il fatto che oltre all’uomo anche Dio perde la propria posizione con la nuova scienza. Nell’Antonio e Cleopatra, infatti, la Cristianità appare addirittura qualcosa di superato: Shakespeare non dà a Ottaviano lo spessore del salvatore della patria, né tanto meno dello strumento divino che aprendo un’epoca di pace preparerà il terreno per la venuta di Cristo. Ottaviano è piuttosto il politico senza scrupoli, l’abile manovratore che per il potere personale non esita a sacrificare «una sorella che nessun fratello / potrebbe amare con eguale tenerezza» (II, ii, 151-152).
Con l’epoca moderna l’uomo sperimenta un senso radicale di perdita dovuto alla messa in discussione di quelle certezze, ereditate dalla tradizione, su cui si fondava il mondo occidentale. Le convinzioni scientifiche, religiose e politiche cominciano a franare lasciando il posto a un fenomeno destabilizzante che giunge alla consapevolezza con la filosofia di Cartesio. Di stampo cartesiano è, per il filosofo americano Stanley Cavell, lo scetticismo riscontrabile nel teatro di Shakespeare, per quanto la critica tenda solitamente ad attribuire tale scetticismo alla lettura di Montaigne. In effetti, pur non volendo sottovalutare l’influsso di Montaigne, bisogna riconoscere che la tragedia shakespeariana sembra andare oltre lo scetticismo ‘positivo’ e intriso di classicità di questo filosofo, che si limitava a consigliare di rassegnarsi di fronte alla mutevolezza del mondo. Gli eroi shakespeariani non sembrano vivere semplicemente una condizione di incertezza, sembrano piuttosto prospettare il problema dell’assenza di fondamento avanzato da Cartesio. Solo alla luce di tale questione, difatti, si comprende l’esigenza di provare la nostra esistenza, di trovare un autore che le dia legittimità, nell’estremo tentativo di non lasciare l’uomo in balia dello scetticismo.