“Lungo il muro, la coda si allunga a poco a poco. Siamo lì in trenta, in cinquanta, estranei ai passanti, girati verso il cinematografo, uniti per alcuni minuti dalla sola cosa che abbiamo in comune, l’attesa di uno steso film, e pronti a parlare – per così poco tempo – di quel legame provvisorio. Nei brevi commenti che circolano, appare la trama di una rete di corrispondenze, di interazioni, di influenze, basate sul pretesto costituito dalla proiezione. Siamo venuti a vedere il film perché se ne parla, perché bisogna averlo visto, perché vi figura il tale o il tal altro, perché si ha bisogno di verificare-contraddire-discutere i giudizi che già corrono, perché ci si troverà un soggetto di conversazione, perché se ne ha abbastanza di esser quelli che non osano dirne niente (…). Assistere – o non assistere – a uno spettacolo: la scelta, a volte, è più importante dell’oggetto che si tratta di vedere; rivela degli interessi, un’attitudine, dei rapporti con l’ambiente, che non si riassumono nell’atto, semplicissimo, di prendere un biglietto e sedersi; eppure è proprio da quest’oggetto che si tendono altre reti, che si costituiscono nuove relazioni. (…)”(Sorlin 1974)[1].
Si è scelto di aprire questa parte con un breve estratto dal libro Sociologia del Cinema di Sorlin, perché a nostro parere, riassume perfettamente tutte le caratteristiche che sono proprie, non solo di questo mezzo, ma anche di tutto l’universo di persone e relazioni che gli gravitano intorno. Sono proprio questi caratteri che fanno del cinema una prospettiva interessante con la quale guardare la società e le sue evoluzioni: le pellicole riflettono lo “spirito sociale” del tempo che le produce, ecco perché la sociologia, anche a dispetto di un’ iniziale diffidenza, si occupa di analizzare questo medium e le sue dinamiche di funzionamento e rappresentazione.
Per come lo conosciamo tutti nella nostra più immediata esperienza, il cinema è magia, evasione: gli uomini vedono se stessi e le loro vite riflesse sullo schermo come in uno specchio, rivivono drammi e gioie della loro realtà attraverso i protagonisti delle pellicole e fanno esperienza di mondi futuribili o realtà fantastiche, varcando le porte dell’immaginario, solo, scostando le tende di velluto che stanno all’entrata della sala.
Ma il cinema è anche molto altro: è partecipazione ad un rito collettivo, è proiezione di sentimenti, aspirazioni e tendenze sociali, i segmenti di celluloide contengono gli indizi e i sintomi dei mutamenti dei tempi e della società. In una parola, il cinema è un fenomeno sociale. Sorlin scrive il suo pezzo nella prima metà degli anni ’70 e in quegli anni, ad esempio, andare al cinema a vedere un film piuttosto che un altro o frequentare un circolo di un certo tipo poteva avere ben altri significati che esulavano dal semplice momento di svago o dalla pura passione cinefila: poteva trattarsi di un vero e proprio atto politico, di una scelta identitaria, poteva essere un segnale di “affiliazione” a certe correnti di trasformazione che, prima, si vedevano sulla pellicola, poi, nel concreto comportamento individuale.
Una riflessione più approfondita sul fenomeno cinema, quindi, introduce tutta una serie di interrogativi che necessitano di risposte palesemente di matrice sociologica, ovvero: che cosa evoca negli individui il potere dello spettacolo? Che cosa guardano e che cosa vedono realmente sullo schermo? Come si concilia la dicotomia arte-industria? E soprattutto: Come e a quale fine si riproducono sullo schermo i conflitti o le stratificazioni sociali? Che cosa comporta la loro visione nella realtà concreta?
Considerata la ricchezza di aspetti analizzabili partendo dalla considerazione del cinema come fenomeno sociale che riproduce e, in un certo senso, “oggettivizza”, il mondo dei rapporti tra gli individui, l’approccio pluridisciplinare auspicato da Brancato (2003, 2005) per la sua comprensione, pare il più adeguato e la sociologia ben si presta a costituire il terreno per la sinergia di varie correnti disciplinari.
Nonostante quanto detto fino ad adesso l’analisi del cinema e, di conseguenza dell’immagine come rappresentazione della realtà, ha sempre risentito di una certa supremazia della scrittura, come tradizionale documento della realtà sociale. Il linguaggio dell’immagine, giudicato in superficie, appare, infatti, troppo diretto e approssimativo per assurgere alla dignità scientifica o all’attendibilità del testo.
La cautela con cui la sociologia si avvicina al cinema e ai suoi prodotti si estende, non solo alle sue tipiche forme narrative o fantastiche, ma anche a quelle che possono essere considerate le più rigorose e attendibili, come il cinema documentario.
In questo caso, la macchina da presa registra, così come sono, i referenti empirici della rappresentazione, dando l’idea di una riproduzione del reale fedele e oggettiva, ma questo è vero solo fino a un certo punto. La macchina, infatti, “prende” quella porzione di realtà che entra nel campo dell’obbiettivo, ma quale essa sia è strettamente dipendente da tutta una serie di variabili che vanno dalla sensibilità e gusto artistico del regista, agli intenti che questo si propone di raggiungere con la sua rappresentazione cinematografica, fino ad arrivare a qualsiasi tipo di condizionamento esterno a cui può essere soggetto durante le riprese. Per questo motivo, senza http:\\/\\/psicolab.neta togliere all’attendibilità documentaria di un certo tipo di film, è più corretto dire che più che la realtà, il cinema rappresenta un particolare punto di vista attraverso il quale guardarla.
A questo punto, lo scetticismo degli studiosi nei confronti dei materiali filmici come oggetti di ricerca, appare, forse, più capibile, ma basta allargare leggermente l’ottica con cui considerare questo fenomeno e soffermarsi a pensare che le sensibilità, le tendenze e le finalità che influenzano la realizzazione del prodotto cinematografico sono figlie del tempo e del contesto culturale che le produce, per capire come forniscano utile materiale d’analisi per la comprensione della società che rappresentano. Se, quindi, non possiamo parlare del cinema come rappresentazione documentale esatta della realtà, possiamo sicuramente parlare di questo medium e dei suoi prodotti, in termini di valida testimonianza dello svolgimento della vita sociale nel corso della storia. A questo proposito, è interessante guardare alla riflessione proposta da Sorlin sul rapporto cinema-ideologia-mentalità, dove il primo rappresenta, in un certo senso, lo specchio delle altre due. Come ogni tipo di produzione intellettuale, anche il cinema può essere interpretato come espressione ideologica (nella maggioranza dei casi, del gruppo egemone) o come riflesso della mentalità caratterizzante un certo aggregato sociale. Per la differenziazione tra i due concetti di ideologia, anche se, come vedremo, è più corretto parlare di insiemi di espressioni ideologiche di un aggregato sociale, e di mentalità, ci si atterrà a quella proposta nel suo Sociologia del cinema dallo stesso Sorlin[2]. Innanzi tutto, facendo riferimento agli insiemi di espressioni ideologiche, l’autore evidenzia come i processi di dispersione legati allo sviluppo del capitalismo, la trasformazione continua del sistema di produzione e la coesistenza di settori finanziariamente e tecnicamente eterogenei, comportino, nei paesi industrializzati, l’impossibilità di far riferimento ad un’unica ideologia, come invece era stato possibile fare in altri periodi storici. L’ideologia comunque, o l’insieme delle sue espressioni, rappresenta una traduzione dei sistemi di relazione utilizzabile sia in tempi di crisi che di tranquillità; non è evidentemente estranea ai rapporti reali, ma ne dà una visione deformata e adattata. Nella misura in cui la vita sociale è fondata su una disuguaglianza che si basa, in ultima analisi sul ricorso alla forza, l’ideologia rappresenta la serie di filtri attraverso i quali questa disuguaglianza, pur essendo individuata, viene ad essere giustificata. Diffusa da stampa, letteratura, scuola, vale a dire dei canali di cui la classe dominante si è assicurata il possesso, l’ideologia circolante in una data formazione sociale è necessariamente quella della classe dominante[3].
La mentalità, invece, si configura come una nozione più aperta e disponibile a differenti approcci interpretativi: rappresenta, infatti, le modalità con cui gli individui, o i gruppi, creano significati e strutturano il mondo in modo da trovarvi uno spazio e una direzione. Ogni gruppo, pur essendo ovviamente collegato all’insieme sociale è depositario di una particolare mentalità che interpreta, in funzione delle abitudini e delle pratiche culturali specifiche che gli sono proprie, il sistema di norme e valori dominante (ideologia). Ecco, che anche in questo caso si parla di mentalità al plurale perché queste si distinguono, secondo gli ambienti e i collettivi di riferimento, varie linee interpretative della realtà.
Ogni società, quindi, si caratterizza per la presenza di un gruppo egemone che, attraverso l’esercizio del potere simbolico di cui è depositario, tende a rinsaldare la propria posizione di supremazia sociale, socializzando gli individui membri ai propri valori e alle proprie norme, utilizzando anche strumenti psicologici e intellettuali che assicurino un certo grado di controllo sull’opinione pubblica.
Come già dimostrato a proposito del sistema mediale in generale, i mezzi di comunicazione di massa hanno da sempre esercitato un ruolo fondamentale, a supporto di questi processi.
Quindi, anche i film, come tutti i prodotti simbolico-culturali dei media, strutturati attraverso l’utilizzo di schemi ideologici o rispecchianti le mentalità, si prestano, nella loro analisi, ad indirizzare la comprensione della società e delle sue dinamiche (di potere) interne. Ecco come la produzione cinematografica acquisisce il proprio ruolo di perpetuazione di istanze ideologiche e stabilizzazione degli status quo, attraverso la rappresentazione dei conflitti interni alla società, evidenziandoli o travestendoli, o diffondendo, tramite le storie dei suoi personaggi, modelli di comportamento e di pensiero che siano consoni a quello dominante. Detto ciò, però, c’è da aggiungere che esistono alcuni tipi di produzione cinematografica, oltre a quelle strettamente legate al cosiddetto cinema indipendente e militante che, risultando parzialmente libere da certi vincoli di tipo strutturale, producono materiale simbolico alternativo rispetto a quello tipico della cultura egemone.
In questo caso non si intende fare riferimento alle produzioni strettamente sperimentali o d’avanguardia, ma piuttosto a quelle che possono rappresentare istanze minoritarie rispetto a quella dominante, supportare specifici segmenti di mentalità alternative, presentando punti di vista diversi dai quali guardare alla realtà.
Nonostante queste considerazioni, specialmente nel vecchio continente rispetto agli studi statunitensi, l’analisi di questo tipo di linguaggio espressivo è rimasta più indietro, ancorata a tradizionali prospettive di considerazione di tipo estetico-umaniste.
Il cinema, sia come forma tecnologica che come forma di linguaggio, rappresenta il frutto e lo specchio della moderna società industrializzata, ma ha dovuto abbattere numerose barriere di pregiudizio scientifico, prima di arrivare ad ottenere l’importanza che in realtà si merita.
L’atteggiamento delle scienze sociali, infatti, nei riguardi delle varie manifestazioni della creatività individuale e collettiva, così come dei linguaggi premoderni a forte caratterizzazione affettiva, si è storicamente evoluto sulla base di una sottovalutazione della dimensione rituale della cultura che queste rappresentano, ma che invece fonda la logica stessa delle comunicazioni di massa. Il tema della diffidenza intellettuale nei confronti di questo particolare oggetto di studio, verrà trattato più approfonditamente nel capitolo seguente, esaminando le radici storiche e culturali che hanno portato alla nascita delle varie problematiche teoriche e metodologiche riguardanti questo peculiare ambito di studi.