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Psicoterapia e Psicoanalisi

La Schizofrenia: dal Genotipo al Fenotipo

ABSTRACT:
L’autore riflette partendo dall’esperienza di un Servizio di Salute Mentale sugli aspetti psicopatologici della Schizofrenia. Tema matriciale di ogni formazione dello psichiatra e che si declina in nuove sensibilità negli assetti di cura comunitari.

Ripensare la schizofrenia sembra essere uno dei compiti prioritari della psicopatologia clinica e della nosografia psichiatrica, portando con se tutti i dubbi sulla sua definizione e delimitazione. E tuttavia nella pratica ci confrontiamo con dei pazienti che ci inducono a percepire una “somiglianza di famiglia”, sono quei pazienti che tendono ad evolvere verso un grave distacco intersoggettivo e verso la costruzione di un mondo non condiviso. Se questo gruppo di pazienti li definiamo “schizofrenici” si deve concludere che si tratta di una possibile strada che riguarda un gruppo di pazienti psicotici e quindi la schizofrenia è una variabile del percorso psicotico: schizoaffettività, schizofreniforme, in sintesi dal continuum alla psicosi unica. Ricordo qui Ey(1) per il quale il processo schizofrenico è il suo potenziale evolutivo verso l’organizzazione della vita autistica a partire da sindromi psicotiche diverse.
Pancheri(2) che da tempo lavora sulla diagnosi precoce di schizofrenia che appare statisticamente rilevante nella terza decade di età, sostiene che essendo l’adolescenza il periodo della vita forse a più alto stress esistenziale l’esordio può tuttavia, anche precedere la crisi puberale e riferisce di indagini retrospettive dove si scopre, parlando coi genitori, che anche se l’esordio della malattia è stato registrato a 15 anni, i primi segni di cambiamento erano presenti già 3-4 anni prima. Il problema che si apre è perciò se i prodromi sono da considerare segni aspecifici oppure se è una malattia già in atto, la qual cosa non è priva di conseguenze, se, infatti, consideriamo i prodromi come un segno di malattia in corso bisogna iniziare a trattare il soggetto, magari con antipsicotici atipici e a bassi dosaggi. Pancheri riferisce di dati preliminari che indicano che un trattamento in soggetti ad alto rischio e con sintomi sfumati e prodromici, nel gruppo di pazienti a buona compliance migliora nettamente la prognosi. Quest’ultima riflessione sempre più diffusa in ambito scientifico va sicuramente sottoposta ad una rigorosa discussione critica.
Le tecniche di neuroimaging hanno cominciato a mappare i sistemi neuronali implicati nell’autismo. Tali indagini hanno messo in evidenza in questo disturbo una maturazione difettosa dal punto di vista funzionale dei lobi frontali, un quadro che suggerisce una disorganizzazione del sistema corteccia- strutture limbiche- cervelletto, conclusioni che richiamano quelle di alcuni eminenti neuroscienziati sui sistemi neurocerebrali alterati nella schizofrenia e in particolare riferimento alla sintomatologia negativa-autistica: G. Goldbreg(3), M. Solms(4), E.R. Kandel(5).
La N. Andreasen(6) così sintetizza il tema: “Attualmente pensiamo ai sintomi della schizofrenia come possibili emanazioni di anomalie di due grandi sistemi dell’encefalo interconnessi, il sistema frontale e quello tempero-limbico”. Cioè:
1. La schizofrenia è una malattia molto diffusa, prevalenza stimata tra lo 0,7% e l’1%;
2. Nelle sue fasi precoci, la schizofrenia è una malattia dei giovani, spesso caratterizzata da un decadimento cognitivo;
3. La schizofrenia è caratterizzata da sintomi multipli e diversificati;
4. La schizofrenia è chiaramente una malattia del cervello, anche se è difficile da attribuire ad una specifica localizzazione;
5. La schizofrenia ha chiaramente componenti familiari e genetiche. Tuttavia non è puramente genetica, ma vi concorre qualche fattore ambientale.
Che fine ha fatto l’autismo schizofrenico descritto da Bleuler?
Uno dei paradossi dell’autismo schizofrenico è rappresentato dal fatto che questo non è riducibile ad un sintomo oggettivabile-operazionalizzabile ne corrisponde ad una specifica configurazione di vissuti nel paziente. Come è possibile allora concettualizzarlo e coglierlo nella clinica?
L´immagine del ritiro, del distacco dalla realtà esterna, dell´allontanamento dagli altri, è stata fin dall´inizio centrale nel concetto di autismo e n’è rimasto uno degli aspetti descrittivi più evidenti. Ma questa separazione dal mondo comune, di isolamento e solitudine, di crisi della comunicazione, cosa ha a che fare con il concetto di malattia mentale, di psicosi schizofrenica in specie? Eugène Minkowski(7) notava che in quel rapporto sempre fluido e mutevole fra isolarsi per salvaguardare la nostra originalità e recettività all´ambiente, non esistono precetti di salute mentale, se non forse proprio nella fluidità senza irrigidimenti di questo rapporto, il cui elemento regolatore è del tutto non razionalizzabile, e lo stesso Minkowski, in armonia con le sue tesi di fondo, lo indica come sentiment d´armonie avec la vie. L’assetto autistico si dispiega lungo uno spettro che va dal normale al patologico. La modalità del ritiro dal mondo, assieme alla “perdita dell’evidenza naturale” rappresenta il nucleo focale dell’autismo schizofrenico. Dietro ed oltre i sintomi positivi, e quindi dietro la produttività delirante ed allucinatoria, vive il nucleo profondo dell’autismo, che si manifesta attraverso l’area dei sintomi negativi: individuabili, certamente, da parametri empirico-descrittivi, ma non riducibile ad essi. L’autismo deve essere anzitutto intuito nella relazione, e solo in un secondo momento confermato dall’anamnesi e dagli eventuali messaggi del paziente, oltre che dalla verificata vigenza dei parametri empirici sopra ricordati. Intuito significa, qui, sentito empaticamente nella forma e nella struttura. L’autismo deve essere sentito come rumore di fondo. In definitiva, il “modo di essere propriamente schizofrenico (…) forse è più coglibile proprio in quelle forme in negativo, paucisintomatiche, afferenti ai tipi ebefrenici o simplex della schizofrenia” (Arnaldo Ballerini(8)).Vale la pena, credo, mettere a fuoco con molta attenzione quest’approccio, onde evitare il rischio che il procedimento fenomenologico possa colludere con una terapeutica farmacologica sbrigativa e riduzionista, volta a sopprimere o ad abbassare la produttività delirante e allucinatoria, prima ancora di aver valutato la sua inerenza alla struttura personologica del paziente. Esiste, in altri termini una relazione tra la dimensione produttiva dei sintomi e la loro qualità “negativa” sia nell’adulto che nell’infanzia-adolescenza? E tale relazione, qualora esista, è in grado di arricchire la comprensione del mondo interno del soggetto da parte del gruppo dei curanti? Alcuni autori, studiando la produttività allucinatoria, hanno fornito un’argomentata risposta affermativa a queste domande, mi limito a menzionare Ron Coleman(9) e la sua partecipazione a gruppi di “uditori di voci”. Lo aveva ben compreso e ribadito anche Bleuler(10): il delirio schizofrenico, indagato in termini psicoanalitici, è considerato un derivato, una conseguenza, un’articolazione del “pensiero autistico”. In Bleuler l’intreccio tra modo di esistenza autistica e delirio è molto stretto: tra i due livelli – che in ogni caso rimangono, a mio parere, sufficientemente differenziati e relativamente autonomi – vige una forte e significativa continuità. Questa prospettiva – pur correndo il rischio di non separare nettamente i “suoni” dal “rumore di fondo” – ha il vantaggio, mi sembra, di ricondurre alle qualità peculiari del mondo interno di ogni singolo paziente l’intera gamma della sua sintomatologia: le manifestazioni produttive assieme alle caratteristiche negative. Il forte privilegio accordato al profilo negativo del ritiro, al suo “tipo ideale” non corre forse il rischio di riportarci ad un fondo (il cosiddetto nucleo autistico), assolutamente comune ad una certa tipologia di pazienti? L’ancoraggio a questo fondo non è forse difficilmente declinabile nei termini di un’analisi personologica individuale e non generica? E questo stesso ancoraggio non è forse, di conseguenza, poco favorevole ad un approccio psicoterapico giocato sulla peculiarità di una storia di vita, sulla singolarità di un vissuto, sulla sua specifica ed irripetibile appartenenza al mondo? E questo pensiero fenomenologico/psicoanalitico alla fine dovrà pure fare i conti con l’epistemologia delle ricerche e conferme neuroscientifiche? Il “percorso psicotico” che sfocia nell’autismo diventa, nel tempo, disastrosamente distruttivo dell’intersoggettività, ma anche costruttivo di un particolare ed esclusivo “universo personale”. Da forme psicotiche aspecifiche, il soggetto transita ad una forma specifica, ad una maniera di essere pervasivamente schizofrenica. Mi limito, per il momento, a porre problematicamente questi interrogativi, attorno ai quali, da qualche tempo, alcuni servizi psichiatrici fiorentini stanno lavorando.

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Sandro Domenichetti

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