A tutti coloro –
professori, medici, infermieri e infermiere –
che, negli ospedali e non solo,
cercano di comprendere e di soccorrere
l’essere più sconcertante al mondo:
l’uomo ammalato.
Da Le campane di Bicetre di Geroges Simenon
“Preferisci un medico che ti tenga la mano quando muori o uno che ti salvi la vita?” Pressappoco è questo il quesito provocatorio del dott. House. E ci sta: va d’accordissimo con il suo personaggio ribelle, irriverente, rancoroso.
Ma è una domanda falsa, alla quale vien subito da rispondere: “e perché non tutti e due?” Perché non un medico che mentre ti guarisce, non proprio ti tenga la mano, ma sia educato, gentile, caloroso? Insieme ad infermieri benevoli e disponibili alla relazione?
Il dott. House, diciamolo, ci è simpatico, perché osa concedersi ciò che non ci permetteremmo mai; dar voce al lato oscuro, all’Ombra, e soprattutto alla rabbia, tra le emozioni ancora la più condannabile. House non esita a manifestare capricci, invidie, gelosie, narcisismo; e passa come niente dallo stato d’animo all’azione.
Immaginiamo un attimo, un attimo soltanto però di incontrarlo come nostro dirigente, come collega, o quel che è peggio, come medico in corsia. Immaginiamo, solo un attimo, di trasferirlo dallo schermo alla realtà. Beh, penso proprio che ci risulterebbe insopportabile. E pur sapendo di medici presuntuosi e arroganti che si aggirano nei nostri ospedali, non è a loro che sono rivolte queste riflessioni.
Piuttosto alle persone normali che mentre portano avanti con onestà il loro lavoro omettono un gesto, una parola, uno sguardo, un sorriso, un’attenzione, un saluto, importantissimi per il paziente. Distrazione? Stanchezza? Abitudine?
L’abitudine alla sofferenza altrui, sostiene qualcuno, anestetizza, e forse è vero. Queste note, d’altra parte, non vogliono occuparsi di condanne senza appello, di malattie incurabili, di appuntamenti con la morte. Piuttosto di routine.
Ma quando è il nostro corpo a subire un intervento chirurgico non è mai quella che si dice un’esperienza di routine, bensì una realtà insolita, una brusca interruzione della vita, delle attività quotidiane, dei ruoli familiari e soprattutto del benessere.
Si può entrare in ospedale sani e uscirne feriti, dipendenti, ed è molto, molto spiacevole soprattutto per chi tende a tenere sotto controllo tutto: la casa, le cose, il lavoro. Insomma, per quanto si sia preparati, l’ingresso in ospedale non ci vede al meglio del nostro umore.
Che ovviamente peggiora entrando in sala operatoria; si può essere coraggiosi, saggi o rassegnati, avere mille risorse, ma non saremo mai insensibili al contatto con medici e infermieri e vorremmo un approccio personale, il più personale possibile. Vorremmo anche che operassero noi e non le parti del nostro corpo, come è successo di recente a me, anzi al mio piede destro. Che tristezza essere solo un piede!
“Per certi medici il sogno non sarebbe la malattia senza il malato?”: se lo chiede Rene Maugras il protagonista del bellissimo romanzo di Simenon Le campane di Bicetre. Eppure Rene è un paziente di riguardo; dirige il giornale più venduto a Parigi; è un’autorità, un personaggio pubblico; ospitato in stanza privata con il privilegio di due infermiere che si alternano, di giorno la giovane e deliziosa Blanche, di notte la procace Josepha. L’amico medico passa da Rene tutti i giorni e lo informa sui suoi progressi; lo stesso fa il direttore dell’ospedale.
Non potrebbe chiedere di più. Ecco cosa dice invece Simenon di medici e infermieri visti con gli occhi dell’ammalato Rene: “Se solo la smettessero di trattarlo come un bambino!” “Sanno giorno per giorno quello che dev’essere il suo stato d’animo oltre il suo stato di salute”. Sembrerebbero anche un po’ risentiti con lui, perché non partecipa all’entusiasmo generale dei suoi miglioramenti.
Rene invece sta ripercorrendo tutta la vita, i falsi rapporti, le inautentiche ragioni esistenziali che hanno preceduto la malattia. I pensieri di Rene, la sua stessa anima, sono analizzati da Simenon con la consueta lucidità, insieme alla profonda frattura tra chi vive un orizzonte limitato alla porta (e al suono delle campane) e “la commedia che recitano gli altri”, osservata e giudicata dal suo letto. Cosa possono sapere a Bicetre dei pensieri di questo stravagante paziente?
L’esperienza narrata da Simenon è decisamente complessa. Ma fa capire che se siamo diversi da sani lo siamo ancora di più da malati. La malattia può far regredire all’infanzia, risvegliare fantasmi, saldare conti col passato, inventare nuovi futuri, accettare la vita com’è, valorizzarla o diventare una buona opportunità di cambiamento. E ciò non avviene solo con le malattie di una certa gravità: l’ospedalizzazione in sé è sempre un piccolo grande trauma.
Certo non si può chiedere a medici e infermieri di leggere nelle pieghe dell’anima. Ma tra questo e l’assenza di relazione esistono parecchie sfumature, gradazioni, livelli d’intensità comunicativa.
Bene: ci sto girando intorno, ho scomodato il dott. House e Simenon, ma ora è meglio che racconti. Sono stata operata al piede in un ospedale del Nord, uno dei centri ortopedici più rinomati d’ Italia. Non sono Rene Maugras; quindi, nessun trattamento di riguardo; nessun privilegio, nessuna visita privata da un medico dell’Istituto, perché ci sono le questioni di principio e quelle vanno rispettate.
E ora, anche se è già passato un po’ di tempo, i ricordi spiacevoli non se ne vogliono andare. Sono tutti legati al silenzio, un silenzio spesso, sgradevole, direi offensivo. Neanche una parola mentre vengo accompagnata nei corridoi e in ascensore verso la sala operatoria (ma l’infermiera chiacchiera con tutti quelli che incontra!). Silenzio assoluto mentre sono parcheggiata vicino a tanti altri letti, vuoti o con persone come me mute. Nessuna attenzione da chi comincia ad armeggiare intorno al mio corpo (flebo, pressione, anestesia epidurale).
Eppure è tutto un vociare da una parte all’altra di questo spazio immenso, gelido, di letti allineati e spostati bruscamente, frettolosamente: gli infermieri parlano dei loro turni, spettegolano su un collega svogliato, contano quanti pazienti hanno ancora da preparare, sbuffano, commentano, si lamentano, discutono.
Ha dell’incredibile, ma per un briciolo di conversazione anch’io mi inserisco nel loro parlare, pur di esserci, pur di non venire ignorata. Ed è ancora più incredibile che dopo poco mi trovo a preoccuparmi del turno massacrante dell’infermiera! Però, non è che proprio dovrebbe funzionare così, che chi sta per entrare in sala operatoria consoli l’infermiera!
Va bene: mi occupo di counseling, ascolto adolescenti e genitori, da sempre insegno e da sempre lavoro per il benessere altrui. Ma anche mentre sto andando sotto i ferri, è davvero troppo! In quanto ai “ferri” poi, per fortuna, non sono suggestionabile, ma sento la voce del chirurgo solo quando dice: “Passami la sega”. Dio, che impressione!
La giovane infermiera che dovrebbe occuparsi di me restituisce le mie attenzioni tacendo per tutta la durata dell’intervento, lontana fisicamente e con lo sguardo rivolto ossessivamente alla porta. Aspetterà qualcuno, penso, oramai distaccata e priva di qualunque aspettativa. Ci fosse almeno una parola del chirurgo prima dell’operazione!
Piuttosto quel suo gesto, alla fine, di togliere i guanti e, senza un saluto, andar via. Non ci giurerei: mi pare anche che sospiri o qualcosa di simile; ma questo posso aggiungerlo io perché fa ancora più dottor House. Quindi mettiamo che l’espressione infastidita del suo viso l’abbia inventata, resta comunque l’omissione del saluto a una paziente che entra ed esce sveglissima dalla sala operatoria; insieme a quel passami la sega non è proprio l’esempio di una buona relazione terapeutica.
Infine, ancora silenzio mentre vengo accompagnata in camera, ma con le battute ad alta voce tra la mia infermiera e i colleghi che incontra nei corridoi. In tutto un’ora e quaranta minuti, durante i quali nessuno ha mai pensato di rivolgermi, almeno una volta, la parola.
Sappiamo che medici e infermieri lavorano e non sono lì per fare salotto con noi; però si vorrebbe se non il conforto, il riconoscimento. Se non proprio l’empatia, almeno l’essere visti, che è il primo gradino, ormai lo sappiamo tutti, di una comunicazione possibile; e poi non sarebbe bello essere chiamati per nome, come nei telefilm americani?
Non è proprio quello che ha fatto il medico delle mie dimissioni che è entrato in camera urlando quasi il mio cognome, come fossimo nell’esercito e stesse chiamando una recluta. Non da paziente, ma da signora mi è parsa una nota molto stonata, perché non sono queste l’intesa e la confidenza desiderate con le persone che ci curano.
Tra le altre mancanze: il sostare di alcuni infermieri vicino alla porta e lontano dal letto come se quei pochi secondi per raggiungerti rallentassero il lavoro, senza considerare che sono proprio quei pochi passi a far la differenza, se non altro perchè permettono al paziente di non sbandierare i propri bisogni ad alta voce.
Per fortuna la nostra memoria sapientemente seleziona e sa soffermarsi anche su ricordi migliori, su parole gesti e sorrisi, rivivendoli non come consuetudine ma con la piacevolezza di un dono.
Per me è la gentilezza informale del dottor B., giovane, gradevole, di bell’aspetto (beato lui!) e di buone maniere. Il suo modo di parlare pacato, di stare con i pazienti dando l’impressione di non avere fretta.
E’ la disponibilità del dottor L. visto più di un volta e più di una volta confermata. La sua discrezione insieme ad una bella modalità, riservata, di essere presente.
Infine, la sorpresa della leggerezza e del calore che il dottor P. ha saputo aggiungere alla serietà della sua visita, dopo una giornata estenuante di pre-ricovero che sembrava non finire mai.
Per il resto, meglio essere riconoscenti alla professionalità e alla ricerca di questi anonimi centri ospedalieri, perché sono affidabili e ci danno sicurezza. In fondo, rispetto ai pochi giorni trascorsi lì , conta assai di più l’esito positivo di un intervento chirurgico che ci accompagna tutta la vita.
Nel senso che se davvero dovessimo scegliere tra un medico che ci tenga la mano in punto di morte ed uno che ci salvi, è chiaro che sceglieremmo il secondo. Ma noi non crediamo al falso dilemma del dottor House, e continueremo ad aspettarci le competenze professionali e relazionali e a rimanerci male tutte le volte che non le incontriamo insieme.