Ci sono vite che non stanno in pochi fogli – e così le menti che le hanno abitate.
E talvolta sono vite controverse, complesse, di così tante sfumature, che non sai alla fine che pensarne.
Centouno sono stati gli anni che Leni Riefenstahl ha trascorso tra noi – e non ne ha sprecato nemmeno uno.
Era una di quelle donne terribilmente talentuose, in una maniera versatile e tutta sua, che non si è fermata nemmeno con l’età e che affonda le proprie radici e origini nella Belle
Époque in cui è nata.
Berlino, 1902: in una famiglia della middle class, con un padre dalla mentalità fortemente asburgica nasce la piccola Leni.
La piccola Leni che è testarda e ha una spiccata vena artistica: inizia dipingendo e cresce danzando, scatenando le feroci ire paterne e insistendo che quella sarebbe poi stata la sua strada – bisogna pur costruirsene una e non si accontenterebbe certo di una modesta via secondaria.
E’ giovane, quando ottiene i primi successi teatrali col suo corpo plastico, più intenso che aggraziato – sembra avverarsi l’aspirazione dell’adolescenza.
Ma c’è serendipità anche in una lesione al ginocchio: una lesione al ginocchio che non permette di essere più una ballerina.
Significa gettare a terra tutto quanto si era desiderato, distruggere e ricostruire.
Ed è nel buio di una sala cinematografica che la Riefenstahl scopre la via di fuga: la macchina da presa, l’immagine in movimento come in movimento erano le sue gambe.
L’immagine.
All’inizio però protagonista, dell’immagine.
Arnold Fanck è un noto regista di quelli che vengono definiti film di montagna, pellicole ambientate su picchi e cime impervie – Leni ama il genere e decide di tormentare il malcapitato per avere una parte.
Leni tormenta bene, c’è da dirlo.
Diviene attrice non di uno, ma di ben sei lavori fanckiani ed è brava, è brava in tutto ciò che intraprende.
E stando lì, sul set, impara le tecniche, impara come si rapisce, questa benedetta immagine dinamica e inizia ovviamente a tormentare ancora: ha qualche buona idea per migliorare la fotografia, perchè è moderna, Leni.
Trova uno stile proprio, lo coltiva, inventa e innova veramente : nuovi filtri, nuovi tagli per filmare, effetti attualissimi che poi il cinema le avrebbe copiato nei decenni seguenti.
E’ immaginifica e magnetica, terribilmente affascinante e determinatissima: una donna poco adatta ai canoni nazionalsocialisti, i canoni della donna prolifica delle tre K, Kinder Kuche e Kirche (bambini, cucina e chiesa), la femmina silenziosa e riposante che non legge e non tormenta.
Eppure.
Eppure è proprio nel maschilismo nazista, che lei trova il proprio terribile mecenate e l’ascesa: Hitler si appassiona delle sue capacità, la cerca, le parla, le offre la gloria di essere la ‘loro’ regista, quella che deve esaltare il Reich millenario – un onore.
Leni non si è mai particolarmente interessata di politica, ma, a posteriori, le è stato fatto notare che non fu un buon motivo per chiudere gli occhi di fronte la barbarie.
Come Speer, architetto e poi ministro del Fuhrer, la Riefenstahl sostiene di aver approfittato di un potere artistico che altrimenti non avrebbe avuto, ma di non esser stata antisemita, nè coinvolta nei maneggi nazisti.
La verità, nel tempo, è che Hitler non poteva essere Mecenate : Mefistofele, semmai.
La vittoria della fede, Il trionfo della volontà e Olympia sono i suoi capolavori: rispettivamente, i primi due sono testimonianza filmata della gloria nazista a Norimberga, mentre il terzo è girato durante le Olimpiadi di Berlino.
E’ futuristica, impressionante; se osservate oggi, quelle pellicole paiono girate pochi mesi fa: la grandiosità del taglio, la plasticità dei corpi e del paesaggio, la musica roboante, le prospettive varie e mobilissime.
Lei era pignola: poteva rigirare la medesima scena infinite volte, per poi arrivare, al termine, al risultato che tanto esaltava la vanagloria hitleriana e tanto irritava il misero Goebbels, infastidito (lui, a capo della propaganda) di tanto potere in una donna, l’unica donna davvero potente lì dentro.
C’è nella Riefenstahl un certo disgusto per gli orrori della guerra, ma mai abbastanza per allontanarsi da Mefistofele.
Al punto che, caduto il nazismo, trascorrerà quattro anni in un campo di concentramento francese: ha collaborato alla fama di Hitler, è stata alla loro tavola, si è arricchita del loro favore ed è rimasta lì. Certo, non ha firmato sentenze di morte, nè caricato sfortunate persone su treni che non sarebbero tornati.
Ma può bastare, il sostenere che non ci si occupava di politica?
Terminata l’indagine, processata diverse volte, riesce infine a tornare libera, si sposa e inizia a occuparsi di fotografia.
Ovviamente, con successo.
Criticata fortemente per il suo passato nel regime, riesce comunque a diventare una stimatissima fotografa, occupandosi soprattutto dei Nuba, una tribù del Sudan: dalla ‘razza’ ariana a quella africana.
I suoi libri, contenente i suoi scatti, sono ammiratissimi anche adesso e, ormai più che settantenne, la nostra protagonista prende il brevetto subacqueo, sopravvive a uno schianto aereo e si spegne serenamente, superato il secolo (un secolo ben denso) nel 2003.
Una vita extra-ordinaria.
Indubbio il talento e la personalità, dubbiosa la cecità che sostiene d’aver avuto.
Non le interessavano leggi o altro, solo la sua arte.
Come poteva, anche lei, non sapere? non vedere?Come Speer, uno dei pochissimi uomini intellettualmente validi del Terzo Reich, quando si è trattato di commentare i fatti tragici dell’Olocausto, si è trincerata dietro un non sapevo- non me ne occupavo io.
Può bastare?
Sul negazionismo sarebbero da scrivere ancora interi volumi, oltre quelli già sul mercato: un’intera nazione non si è accorta dello sterminio di milioni di esseri umani, quando vi erano leggi che ben mostravano le intenzioni naziste e mentre le persone venivano perseguitate e vessate nelle strade.
Come è stato possibile?
In questo senso, la Riefenstahl è stata figlia del proprio tempo e dei propri luoghi e simbolo di uno sguardo spostato altrove.
Noi non possiamo capire e non c’eravamo – i meccanismi della propaganda, la loro forza, la disperazione e la povertà del popolo dopo la I Guerra Mondiale.
Noi non possiamo capire – ma una Leni poteva?
Era un’individualista, con pensieri e convinzioni ben definite e non influenzabili.
Si può distaccarsi così da qualcosa di orribile che accade a un passo da se stessi?
Nelle osservazioni di Gustave Le Bon, Psicologia delle folle (1895), ancora oggi c’è il fenomeno dell’ascendere dei dittatori: la folla è irrazionale, fatta di desideri, di emozioni e non di testa. E’ pericolosa – ma Leni non era una folla.
Lei era profondamente se stessa.
Di fronte a vantaggi personali, può una Riefenstahl arrivare a utilizzare sistemi di meccanismi difensivi primitivi e palesi per dissociarsi da un ambiente così corrotto?
Spaventoso, ma noto: sì, può.
Negazione, razionalizzazione, rimozione: io non sapevo, io mi preoccupavo del mio mestiere, io non ho visto o partecipato – prendevo a piene mani ciò che loro mi davano, non stava a me chiedermi da dove venisse quella fama e quel denaro, a chi fosse costato.
Stavo solo facendo il mio lavoro, insomma – un vero e proprio mantra post-bellico.
Che l’arte non si occupi di moralità va bene – che non se ne occupi l’artista è già altra cosa.
Per quanto semplice giudicare ora, da qui, è inevitabile la perplessità nei confronti di questo atteggiamento: cosa fareste voi, se vi venisse offerta imperitura notorietà e pieno appagamento della vostra ambizione? In cambio, sottointeso, per venire a patti con se stessi, c’è da non sapere, non chiedere, evitare.
Cosa fareste voi?
Se la Riefenstahl, una donna chiaramente dotata di un locus of control interno (concetto sviluppato da Rotter mezzo secolo fa) ha agito così, che fareste voi?
Perchè di infiniti esempi, di singoli che si sono opposti, siamo consapevoli.
Con lei, non ha funzionato – non ha voluto, il prezzo sarebbe stato eccessivo.
Perchè lei era davvero dotata, così dotata che http:\\/\\/psicolab.neta poteva contare maggiormente di mostrare queste capacità al mondo.
Mefistofele ha saputo fare il proprio lavoro.
O, dicendola semplicemente con le parole di una diavolo appunto cinematografico (Al Pacino, in L’avvocato del diavolo): “Vanità… decisamente il mio peccato preferito”.
Leni: la vanità a piene mani e Mefistofele al suo fianco.