La cultura si riferisce al lato espressivo della vita umana e si riassume in comportamenti, oggetti, idee che possono essere visti come espressione di qualcos’altro, come simboli. La cultura di una comunità influenza la sua struttura sociale e viceversa: i due aspetti sono strettamente interrelati.
Studiare la cultura significa studiare le idee, le esperienze, i sentimenti e insieme le forme esteriori che questi aspetti interiori assumono quando divengono pubblici e dunque realmente sociali. Per cultura gli antropologi intendono dunque i significati che le persone creano come membri di una società: la cultura in questo senso è collettiva e può avere due tipi di espressione.[1]
Da un lato essa risiede in una serie di forme significanti che possono essere viste o ascoltate. D’altra parte queste forme esplicite assumono un significato solo in quanto l’essere umano possiede gli strumenti per interpretarle: esse devono quindi essere ancorate ad un contesto condiviso. Il flusso culturale consiste quindi nell’esternazione di significati che gli individui producono e nelle interpretazioni che essi forniscono di queste manifestazioni; abbiamo quindi un duplice livello: nelle menti umane e nelle forme pubbliche.
Possiamo definire la cultura in base all’interrelazione di tre dimensioni:
• idee e modi di pensiero, l’insieme di concetti e valori che le persone portano all’interno di un’unità sociale
• forme di esternazione, i diversi modi in cui il significato diventa pubblico
• distribuzione sociale, i modi in cui l’insieme di significati è diffuso nella popolazione e nelle relazioni sociali.
Quest’ultima dimensione è la più significativa per lo sviluppo e la comprensione del presente lavoro: la complessità culturale aumenta nel momento in cui aumenta la tecnologia e, più in particolare, esistono tecnologie di comunicazione che rendono il flusso culturale meno dipendente dalle interazioni faccia a faccia e che permettono l’elaborazione di significato diverse da individuo ad individuo.
In rapporto a tutte e tre le dimensioni enunciate, il tipo di società in cui viviamo manifesta un grado di complessità culturale molto alto. Da questo consegue che ciascun individuo coinvolto elabora idee diverse che esprime in differenti maniere: si formano in questo modo le opinioni.
Le persone assegnano dei significati alla distribuzione culturale, che sono più o meno corretti e che fissano differenze. L’individuo quindi si trova a confrontarsi con i significati altrui e li commenta, avanza obiezioni, o se ne appropria.
La componente fondamentale di questo flusso di significato nelle società passa attraverso i media, che stanno ormai raggiungendo in diversa misura ogni luogo, entrando in varie combinazioni l’uno con l’altro e con il flusso culturale che passa attraverso i contatti faccia a faccia. Ogni medium, attraverso i suoi sistemi di simboli crea proprie specifiche potenzialità: in riferimento alle sue implicazioni distributive il fatto saliente è che la produzione di forme di significati può aver luogo in un posto e la fruizione in un altro; e dal momento che spesso i media implicano la registrazione, i significati possono essere conservati per un uso successivo: i flussi culturali possono dunque essere gestiti nello spazio così come nel tempo.
Per quel che riguarda l’aspetto dello spazio i media hanno esteso l’esperienza umana e la vita sociale al di là dell’ambito strettamente locale. Vi è il presupposto che in una “società dell’informazione” ciò che è culturale debba avere necessariamente una distribuzione uniforme: in realtà non è così e sarebbe un grave errore ignorare ciò che sta ai margini, cioè i luoghi in cui non esiste questo tipo di società informatizzata, o quei territori che vi sono entrati in ritardo.
È necessario quindi sviluppare una grande sensibilità verso i particolari sistemi di simboli dei media, verso le loro specifiche tendenze di sviluppo, di distribuzione e le reciproche interazioni in un momento dato e nel tempo, per arrivare a comprendere veramente la cultura contemporanea.
Il consumo ed il suo significato attraverso la storia
I media, come abbiamo detto, sono depositari di cultura e ne facilitano il suo flusso. Ma non è solo questo: essi infatti sono legati da sempre alla definizione di consumo, in quanto, soprattutto a partire dalla diffusione capillare del mezzo televisivo, sono sinonimo di pubblicità e quindi di “consumismo”.
Il consumo per molto tempo è stato ancorato ad un significato strettamente economico e connesso quindi alla nozione di acquisto di un bene materiale. È dagli anni Settanta in poi che si parla anche di consumo come simbolo e di consumo culturale. I beni cominciano ad entrare nella sfera del simbolico e a giocare un ruolo di socializzazione, ossia diventano un metro di valutazione e di riconoscimento dell’appartenenza sociale.
Per capire meglio però, dobbiamo affondare le radici nella storia di questo termine: il concetto di consumo infatti si è evoluto parallelamente alle trasformazioni sociali ed economiche avvenute nell’ultimo secolo in Europa e negli Stati Uniti, con le dovute differenze e gli inevitabili ritardi generazionali di un Occidente non ancora globalizzato. Il proliferare di approcci e di contributi multidisciplinari intorno al concetto di consumo testimonia, al tempo stesso, sia la complessità del fenomeno sia la sua duttilità ad essere indagato da diversi punti di vista. In effetti, da uno sguardo d’insieme, il dibattito sul consumo può risultare ulteriormente arricchito, non solo dalla sociologia dei consumi, ma anche da approcci di tipo antropologico e semiotico.
Sul versante sociologico è già facilmente distinguibile la divisione tra un approccio microsociologico, più centrato sul comportamento del consumatore ed ancora fortemente legato al paradigma della scelta razionale, di chiara matrice economica e un approccio macrosociologico, che guarda con interesse al contesto sociale di riferimento e ai meccanismi di differenziazione/integrazione all’interno di esso. Sempre nell’ambito delle discipline sociali, si individuano altri due tipi di approcci allo studio del consumo: un approccio antropologico, che si concentra preminentemente sulle valenze culturali legate al comportamento di consumo; un approccio semiotico, che riflette sul sistema di significati veicolati dalla merce/segno. E’ tuttavia facilmente riscontrabile in molte teorizzazioni che si sono succedute, la propensione a ripartire il campo di riflessione in due differenti prospettive: da una parte, una concezione del consumo come portatore di emancipazione democratica, nell’equazione automatica benessere/democrazia dall’altra una visione cinica e disincantata, che concepisce il fenomeno come struttura regolata da logiche di controllo e di riproduzione del potere.
Data la vastità dell’argomento, si prenderanno in considerazione solo alcune ipotesi teoriche tese ad esplorare e comprendere le valenze sociali e semantiche dell’agire di consumo.
Il consumo diviene tema centrale nelle teorie sulla società a partire dalla metà del diciannovesimo secolo. In quel periodo infatti si compie il passaggio verso un’economia caratterizzata dalla produzione in serie. L’industria chiave, e simbolo della produzione di massa, è stata in particolare l’industria dell’automobile.
Già sul finire dell’800 in Europa, parallelamente alla metamorfosi determinata dal processo di rapida industrializzazione, si assiste all’emergere della nuova classe sociale borghese e all’avvio di un processo di forte stratificazione della società in ceti, sulla base della ricchezza posseduta, cui corrisponde una progressiva differenziazione dei comportamenti sociali, tra cui l’agire di consumo.
La prima teorizzazione sulla capacità di mediazione simbolica dei beni risale a Marx che definì la differenza tra “valore d’uso” e “valore di scambio” di un oggetto, dove il primo è legato all’effettivo utilizzo del bene mentre il secondo gli viene attribuito dal mercato in base ad una sorta di percezione sociale del suo valore.[2] Già Marx pone le basi per l’elaborazione weberiana del concetto di stile di vita, concependo il consumo come un atto sociale.
Weber, infatti, è il primo ad ipotizzare un legame tra la strutturazione del sistema sociale e lo stile di consumo, mediante l’introduzione del concetto di “condotta di vita”, inteso come “quantità di onore e distinzione a cui un individuo può aspirare attraverso un comportamento di consumo”. La condotta di vita weberiana funziona da indicatore distintivo dei ceti. [3]
E la dialettica, la tensione, tra individuazione e omogeneizzazione del soggetto, tra il consumo di massa e l´individualismo, viene già colta con Simmel, per il quale la moda realizza perfettamente lo spirito della società che si lascia per la prima volta travolgere dai beni di consumo. [4] La contrapposizione e l’assoluta inscindibilità tra massa e individuo e quindi tra consumo omogeneizzante e consumo come fattore distintivo individuale è già perfettamente presente nello spirito che anima le grandi metropoli europee di fine Ottocento: ciò che libera l´individuo, il denaro, il suo spirito che permea tutto il reale, contemporaneamente dissolve lo stesso individuo, lo omogeneizza.
È solo con gli anni ’60 del novecento che le pratiche quotidiane di consumo iniziano a venire comprese come gesti in cui si articolano processi di identificazione e di differenziazione culturale, soprattutto di distinzione.
Il consumo, per Bourdieu è infatti pratica d’uso di significati, segni e simboli legata all’articolazione del senso dell’identità di classe: i soggetti sociali sono così classificati secondo i loro habitus.
L’habitus, in quanto cornice che classifica e dà senso all’esperienza, viene peraltro appreso fin dai primi anni di vita, e successivamente applicato nelle circostanze più diverse, costituendosi come insieme strutturato di disposizioni che presiede ai giudizi e, più in generale, ai meccanismi del gusto. [5] In altre parole, ciascun individuo è apparentemente condannato a consumare in base a ciò che già è.
Si sviluppa una nuova prospettiva “culturale” della società dei consumi che inquadra il fenomeno per la valenza sociale e simbolica in sé dell’agire di consumo, e non solo in base al sistema delle differenze sociali. I beni assumono un valore simbolico che riflette la struttura delle relazioni sociali di una determinata cultura, per cui l’atto di acquisto rappresenta l’adesione o il rifiuto dei modelli di riferimento, di comportamento, di valore, che si collegano all’adesione a particolari valori culturali, oltre che a specifici gruppi sociali.
Il passaggio dal paradigma materialista a quello comunicativo, quindi, si compie in particolare nelle opere di Lévi-Strauss: per la teoria strutturalista gli oggetti scambiati nell’atto di consumo assumono un valore simbolico attraverso il quale si attua il passaggio dalla natura (bisogni fisiologici) alla cultura (bisogni indotti). [6]
Il sistema di consumo insomma va inscritto all’interno del più vasto sistema culturale di una società: non si potrà mai spiegare la domanda di un bene basandosi soltanto sulle sue proprietà materiali, ma interrogandosi soprattutto sulle valenze simboliche apportate dal sistema comunicativo su quel bene.
Lo stile di consumo finisce per sovrapporsi allo stile di vita perché ne rappresenta il fenomeno più vistoso e concreto, destinato a comunicare un profilo personale, sociale e valoriale, e funzionale all’identificazione, sia di chi lo manifesta, sia di chi lo osserva.
Appare evidente che il consumo in quanto fenomeno sociale sia ben lungi dal trovare un assetto definitivo: ma ciò che in questa sede interessa particolarmente è la misura in cui i consumi, ed in particolare i consumi culturali, portino con sé profondi significati, che strutturano e producono a loro volta gruppi di opinione, il cui scopo nella maggior parte dei casi è ottenere visibilità e consenso sociale.
1 Comment
Teresa
Argomento ben trattato. Mi è stato utile proprio perché io sto affrontando la musica di tradizione orale nata in una società prima dell’industrializzazione e quindi un modo del tuto diverso di porgersi nell’ambito della cultura.
E tanto altro