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Comportamento

La musicalità della sofferenza

E’ proprio al livello cerebrale legato alla sfera emotiva che avviene l’incontro con il «fenomeno musicale», dando così vita a un binomio quasi indissolubile che segue l’evoluzione dell’uomo dal concepimento fino alla morte: dalle prime senza dubbio turbolente sensazioni provate dal feto all’interno del grembo materno, fino al suono percepito nell’ultimo istante di vita.
Esiste (oggi è per altro scientificamente provato) una stretta correlazione che vede uniti da una parte lo «stimolo sonoro», organizzato in musica o meno, e dall’altra quella parte del cervello che sviluppa in sé l’emotività, l’affettività e le pulsioni inconsce (che hanno come centrale di risonanza principale il sistema limbico da cui, attraverso le diramazioni talamiche e non solo, si attua una contaminazione totale della corteccia cerebrale, del tronco cerebrale e di tutto il sistema nervoso periferico), che da esso possono essere perciò sollecitate.

L’uomo è quindi permeato e compenetrato suo malgrado dall’ambiente sonoro che lo circonda e ne è letteralmente immerso fin dalla nascita: oggi è provato da eminenti studiosi quanto già l’ovulo nel momento della fecondazione entri in contatto con fenomeni vari di tipo ritmico-sonoro, derivanti per lo più dal mondo esterno e veicolati (o altresì prodotti) dalla stessa madre, grazie a un apparato uditivo primo tra gli organi di senso a costituirsi che risulta perciò essere il più importante e primario «mezzo
di comunicazione», cognitivo e di relazione, nel feto come nel nascituro e ancora nel bambino il quale, proprio attraverso il linguaggio sonoro, viene a costituire le solide basi di quello che sarà il canale comunicazionale privilegiato di tutta la restante vita: il linguaggio parlato.
Tutto ciò è reso possibile altresì dalla stretta correlazione di tipo neuropsico-fisiologico di quelle componenti, presenti nell’apparato psico-mentale dell’uomo, che sono alla base di una continua attività ritmico-melodica (presente peraltro già nella primaria composizione delle cellule medesime)

Attraverso l’instaurarsi di una sempre più stretta relazione fra terapeuta e paziente, questo importante momento comunicativo-sonoro, se analizzato con estrema attenzione da parte dello stesso terapeuta musicale, può permettere di individuare gli elementi ritmico-sonori attraverso espressioni cristallizzate in automatismi, dal rendimento comunicazionale talvolta estremamente basso, in modo da poter inviare messaggi che si avvicinino sempre più, come strutture significanti, ai segnali dell’emittente disagiato,
provocandone possibili risposte.
Per attuare tutto ciò è di fondamentale importanza che il musicoterapeuta sia ovviamente molto ben preparato e «attrezzato» ad affrontare qualsiasi possibile ostacolo, capace di entrare e uscire con facilità dal processo regressivo che viene subito a instaurarsi nella relazione suddetta, e pronto a «fiutare» qualsiasi anche impercettibile segnale, o a sentire anche la più piccola impronta e/o traccia significativa lasciata sul terreno operativo dal paziente, interpretandone il significato e avviando il pro-cesso ri-elaborativo.

Tre sono le fasi principali dell’intervento:
1. L’indagine preliminare, che consiste nel prendere conoscenza della storia clinica del paziente tramite l’équipe medico-sanitaria (o chi per essa) e inoltre dei dati più strettamente personali, attraverso il colloquio con la famiglia, elemento naturalmente qui fondamentale nel cammino terapeutico di un paziente, in modo da poter meglio individuare il «bersaglio terapeutico» da perseguire. Alla famiglia è inoltre chiesto di compilare la scheda d’anamnesi psico-sonora che contribuirà a mettere in evidenza fin da subito quei dati importanti che serviranno al terapeuta per preparare di volta in volta ogni seduta, e soprattutto l’ambiente, il setting, o meglio ancora il «bagno sonoro», nel quale accogliere il paziente
sempre in modo adeguato, stimolante e non invasivo.
2. Le sedute vere e proprie, che possono prevedere tanto la sola semplice «osservazione asettica» a lato della stanza (tecnica detta di Musicoterapia passiva o ricettiva, di stampo prevalentemente psicanalitico, utilizzata ad esempio molto nel passato anche recente dalla scuola francese), quanto il coinvolgimento diretto del terapeuta in seduta (tecnica questa definita di Musicoterapia attiva, a tutt’oggi la più utilizzata soprattutto dalla scuola sudamericana-benenzoniana), pronto a interagire con il paziente, elaborando pian piano un codice comunicativo preferenziale non verbale comune a entrambe, secondo il giusto rispetto dei propri personali «ritmi biologici». Il tutto per la durata di 40/45 minuti circa.
3. La verifica finale, che è il momento di raccolta conclusiva di tutte le informazioni in entrata e in uscita, evidenziatesi durante il trattamento, con l’attenta valutazione degli obiettivi raggiunti e/o raggiungibili in
un’eventuale seduta successiva, che potrà nel caso prevedere la riproposizione di stimoli già utilizzati in precedenza, al fine di potenziarli e ampliarli sempre di più, se necessario e/o possibile.
Tra gli elementi fondamentali in un intervento musicoterapico è indubbiamente doveroso menzionare tutto ciò che concerne il cosiddetto setting di lavoro, che è di fatto il contesto nel quale trova vita una seduta, lo spazio per eccellenza ove ha luogo la drammatizzazione ritmico-sonora di eventi più o meno remoti del vissuto del paziente.
Esso è costituito intanto dalla stanza, possibilmente insonorizzata da suoni e rumori provenienti dall’esterno, che potrebbero falsare o distrarre il o i partecipanti alla seduta, di media grandezza e con pareti e pavimento possibilmente rivestiti in legno, per una migliore conduzione del suono, e
inoltre eventualmente «percuotibili» essi stessi come un qualsiasi strumento musicale.
È qui importante inoltre ricordare che un setting musicoterapeutico può essere costituito anche in un luogo diverso da una stanza chiusa: in mezzo alla natura, ad esempio, con i piedi a contatto diretto con la nuda terra, o ancora in acqua, elemento primordiale da sempre stimolante, dove il corpo trova la possibilità di trasformarsi continuamente.

Le tecniche principali d’intervento musicoterapico sono fondamentalmente due, che racchiudono in loro gli elementi basilari e propri della Musicoterapia, e cioè la musica (intesa qui per come la concepiamo
genericamente noi tutti), il suono (pensato e realizzato in questo caso come semplice e puro singolo suono) e il movimento corporeo:

1. La Musicoterapia attiva, che prevede come già più volte enunciato l’utilizzo degli strumenti musicali (di base vengono usati quelli previsti nel cosiddetto strumentario Orff, quello normalmente utilizzato a scuola, per intenderci), quali importanti e indispensabili oggetti intermediari e integratori nella relazione terapeuta-paziente, unitamente all’uso della «propria voce», mezzo comunicazionale primario tra l’altro della componente più intima dell’uomo e pertanto «vero strumento espressivo dell’anima» in tutte le sue possibili variabili (canto, bisbiglio, onomatopeicità, ecc.); e all’espressività corporea del gesto, quale canale primario di comunicazione preverbale soprattutto in alcune patologie specifiche (nel paziente sordo,
ad esempio), per una migliore percezione del proprio spazio corporale, espressivo, plastico, ora in modo semplice ora più complesso, purché sempre naturale e spontaneo.
2. La Musicoterapia passiva o ricettiva, già citata in precedenza, che costituisce di fatto «l’elemento originale nel nostro tipo di intervento in rapporto agli altri interventi psicoterapici» (Lecourt, 1992, p. 8); consiste nella creazione di una specifica testificazione musicale di brani, suoni e/o rumori organizzati ricercati almeno inizialmente nell’ambito degli elementi ritmico-sonori evidenziatisi nella scheda psico-sonora del paziente trattato, unitamente a sonorità corporali (il battito cardiaco, il «suono respiratorio», ecc.).

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Dott.ssa Cristina Peluso

Psicologa Clinica e della Comunità

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