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Psicoterapia e Psicoanalisi

La Famiglia e l’Emotività Espressa

Abstract
La sofferenza è una esperienza che si colloca all’interno delle relazioni familiari ed, al suo interno, si può trovare comprensione, ascolto, aiuto, ma anche aggressività, diffidenza, disconferma; se tali manifestazioni emotive non trovano ascolto, sostegno con molta probabilità l’esperienza del dolore finisce per diventare una continua lacerazione, una sensazione di colpa rispetto al sistema relazionale familiare. Solo venendo a contatto con la realtà familiare tramite interventi specifici, siamo in grado di capire come la sofferenza, il dolore, la malattia incide sulle emozioni e sui processi relazionali.
 
La famiglia e l’ “emotività espressa”
La storia di ogni famiglia è caratterizzata da piccole e continue trasformazioni, esistono situazioni che provocano cambiamenti consistenti, rendendo inefficaci le modalità che, in un primo tempo, erano funzionali all’andamento familiare. Nel suo percorso di vita,la famiglia, può essere coinvolta in eventi quali cambiamenti economici, problemi relazionali, dolori e sofferenze tendenti ad alterare l’equilibrio omeostatico che hanno costituito. 
Quando scopre che al suo interno un membro è malato, maggiormente un figlio, si trova a dover affrontare una criticità che richiede una riorganizzazione interna faticosa e complessa che, deve avvenire a molti livelli e richiede un particolare sforzo, non solo per ripristinare una certa “normalità” familiare, ma anche perché ciò avvenga nel minor tempo possibile al fine di affrontare una sorta di “confusa sofferenza” che impedisce la mobilitazione di risorse interne del sistema famiglia. La sofferenza è una esperienza che si colloca all’interno delle relazioni familiari ed, al suo interno, si può trovare comprensione, ascolto, aiuto, ma anche aggressività, diffidenza, disconferma; se tali manifestazioni emotive non trovano ascolto, sostegno con molta probabilità l’esperienza del dolore finisce per diventare una continua lacerazione, una sensazione di colpa rispetto al sistema relazionale familiare.
Solo venendo a contatto con la realtà familiare tramite interventi specifici, siamo in grado di capire come la sofferenza, il dolore, la malattia incide sulle emozioni e sui processi relazionali.
La rilevazione dell’EE (emotività espressa) è intesa come “(….)la misurazione di alcune caratteristiche dell’ambiente emotivo familiare nel corso di varie patologie, disturbi o problemi (….)” (Bertrando,1997), non ha come punto di partenza il malato, ma gli altri membri della famiglia per valutare“(…) l’indice dell’emotività espressa (…..) come indice della “temperatura emotiva” nell’ambiente familiare: un indicatore dell’intensità della risposta emotiva del familiare in un dato momento temporale. (…) Essenzialmente l’indice è un rivelatore della mancanza di affetto del familiare o del suo interessamento eccessivamente invadente nei confronti del paziente” (Vaughn,1988).
L’Emotività Espressa è un costrutto scientifico costituito da componenti, fattori negativi e positivi, di rifiuto e di accettazione. La critica, l’ostilità è una generalizzazione del commento negativo, oppure un rifiuto della persona di cui si parla, oppure di entrambi questi atteggiamenti, si critica la persona per quello che è, piuttosto che per quello che fa. L’ ipercoinvolgimento emotivo inteso come tutte le manifestazioni di eccessivo coinvolgimento dell’intervistato verso la persona di cui si parla, risposte emotive eccessive, drammatizzazione, iperidentificazione, autosacrificio;
Più schematicamente la definizione si fonda su precisi elementi: una famiglia; un problema non transitorio, rilevante per la famiglia stessa e riferibile a un singolo familiare; l’emotività, il grado di coinvolgimento che gli altri familiari rivolgono verso il portatore del problema; infine, la possibilità di misurare e quantificare la presenza e il grado di tale coinvolgimento emotivo.
In tal senso, si distinguono i familiari ad alta e a bassa emotività espressa in base a determinate caratteristiche: i familiari ad alta EE sono tendenzialmente intrusivi, cercano il contatto senza tener conto delle effettive esigenze e  richieste, vogliono esercitare un controllo, si sostituiscono in tutto e per tutto, senza tenere in debito conto delle necessità relazionali del congiunto. Quelli a bassa EE sono più in grado di adattarsi alle richieste e ai bisogni espressi del congiunto, maggiormente quando il calore affettivo nei suoi confronti è molto elevato.
Il confronto con la malattia: i familiari ad alta EE considerano il congiunto responsabile di tutte o quasi tutte le sue azioni, anche quelle che chiaramente costituiscono sintomi, una propensione a trovare una colpa o comunque un problema da addossare all’altro, un “capro espiatorio” che elude e nasconde i propri problemi di accettazione e di ostilità. La percezione dell’ “altro” che mette in evidenza tutti i limiti che hanno i membri della famiglia che, in realtà, sono “i limiti dell’esperienza del sé” (Napier & alt.,1978).
Quelli a bassa EE cercano di costruirsi una spiegazione razionale di quello che sta accadendo, dei comportamenti del congiunto, riconoscendo maggiormente quelle dettate dalla sua malattia (Leff e Vaughn,1985). Infatti, questi familiari sono in un certo senso “avvantaggiati” dalla capacità di potersi al meglio spiegare “il disturbo con una interpretazione della malattia come una patologia organica. Tale comprensione toglie il mistero delle cause della malattia e agevola la condivisione dei programmi” (Cazzullo,1997).
Le famiglie ad alta EE nutrono in genere aspettative molto alte per il congiunto sofferente, indipendentemente dai problemi e limiti di quest’ultimo, spesso drammatizzano le proprie reazioni ai sintomi e tendono ad avere modalità di risposta rigide ai momenti di crisi; mentre quelle a bassa EE nutrono aspettative realistiche, e sono in grado di controllare l’emotività e di adottare risposte flessibili.
Infine, lavorare sull’emotività espressa porta in evidenza anche quel che si pensa delle famiglie e delle persone con cui si opera, sull’idea che ci facciamo di ogni singola famiglia con cui entriamo in contatto, in che modo osserviamo la sofferenza senza rischiare di “poter chiudere una famiglia nella descrizione “scientifica” ultima, definitiva”
 
L’intervento psicoeducativo  
Osservando, rispetto a quanto detto nella prima parte dell’articolo, in che modo i componenti di un sistema familiare interagiscono tra di loro e reagiscono nella “situazione congiunto ammalato”, ci troviamo di fronte a diversi stili relazionali.
Nel tentativo di mantenere l’omeostasi (Jackson,1957) la famiglia cerca di adattarsi alla malattia seguendo un processo che implica l’attraversamento di fasi che spesso sono parallele a quelle che vive il paziente stesso. Ruoli confusi, negazione delle conseguenze legate alla malattia al fine di mitigare una realtà avvertita come intollerabile,famiglie rigide con individualizzazione esasperata profondamente tesa a mantenere lo “status quo ante”,negando che ci sia bisogno di cambiamento per affrontare il problema (Minuchin & alt.,1978);
Atteggiamento iperprotettivo ed eccessivamente coinvolto con manifestazioni di ansia marcata nei confronti del sofferente. Scarsa spinta all’autonomia con atteggiamento distaccato per cui si preferisce, per proteggersi dall’ansia, delegare o nascondere il tutto, soffocando il conflitto esistente.
Da questo punto di vista un sostegno concreto che provenga dal contributo di operatori dell’aiuto appare particolarmente importante per le famiglie, le quali possono costruire un rapporto personalizzato con l’operatore che le aiuta e non sentono di perdere il controllo nella situazione di cura. L’operatore diventa per la famiglia una persona con cui condividere ansie e incertezze. Egli sembra in grado di raccogliere e di riconoscere quei bisogni dell’intera famiglia. Inoltre, sembra rappresentare per molte famiglie una maniera per accedere nuovamente a una “normalità” relazionale frequentemente abbandonata a causa della malattia, un riavvicinarsi a relazioni sociali frequentemente trascurate a causa del totale assorbimento relativo all’assistenza.
Dunque,utile a due livelli. Sul piano pratico aiuta la famiglia a iniziare un dialogo con i servizi per eventuali momenti di assistenza, di contatto, nella presa di decisione. Inoltre sul piano psicoeducativo aiuta i famigliari a elaborare nuove modalità di approccio relazionale con il congiunto malato, permette di avere dei momenti di dialogo con qualcuno,   sostenendoli nei momenti critici e di sconforto. La famiglia e la sua centralità, è il luogo dell’intervento psicoeducativo che rappresenta una risposta flessibile ed innovativa al disagio familiare, poiché adotta risorse, metodi e strumenti tali da poter prevenire e riparare dinamiche relazionali alterate che troppo spesso sono fonte primaria di rischio dell’equilibrio emotivo intrafamiliare (temperatura emotiva). L’obiettivo prioritario,pertanto, è quello di garantire il massimo sostegno alla famiglia in difficoltà intervenendo sul suo disagio con un approccio relazionale globale, che garantisca lo sviluppo di un processo di mediazione tra individuo in difficoltà e le altre persone.
In tal senso, i familiari sono visti come alleati e co-protagonisti, non viene loro attribuita alcuna colpa o responsabilità,  non sono, di conseguenza considerati malati o bisognosi di trattamento; si riconosce, piuttosto il fatto che sopportano un carico e molte limitazioni in conseguenza del disturbo del congiunto e che debbono essere aiutati a migliorare le loro strategie di gestione del disturbo e di comunicazione con gli altri, affrontare meglio lo stress della vita di tutti i giorni per tendere al raggiungimento degli obiettivi personali e della famiglia.
All’inizio del trattamento vi è un intervento psicoeducazionale strutturato, seguito da incontri con la singola famiglia o con gruppi di famiglie, con cadenza almeno quindicinale e/o mensile, che continuano per  periodi a medio e lungo termine. Un approccio psicoeducativo integrato (Faloon,1992) per la valutazione dei punti di forza e dei lati deboli del nucleo familiare, per l’insegnamento di abilità di comunicazione e di un metodo strutturato di soluzione dei problemi, come migliorare il modo di discutere e affrontare insieme i problemi. L’operatore che segue la famiglia più da vicino incoraggia,mostra/propone di decidere insieme a trovare soluzioni ai loro problemi, tranne nei periodi di particolare difficoltà o grave crisi, in cui interverrà direttamente con le sue conoscenze proponendo i metodi più adatti, ma più spesso egli si comporterà come un “consulente di processo” (Schein, 1992), un “case manager” che aiuterà i familiari a trovare da soli le risposte (Folgheraiter, 1993).               
Ai membri della rete familiare viene richiesta la partecipazione a riunioni settimanali con uno o due operatori; durante gli incontri con gli operatori vengono valutati i progressi e le difficoltà incontrate.  
Gli effetti positivi e duraturi di tali incontri, oltre all’efficace fattore informazione, sono quelli riconducibili alla solidarietà tra famiglie, alla condivisione di problemi comuni, ansie, timori, alla “catarsi”(rebirthing) intesa come liberazione dalle passioni attraverso la rappresentazione e la condivisione di vicende che suscitano forti emozioni, al fine sollevare e rasserenare l’animo(De Luca, 1995), poter esperire le proprie emozioni senza esserne sommerso, può “sentire intelligentemente” e “capire sentimentalmente”, una scarica emozionale con la possibilità di comprensione intellettuale e recupero di preziose energie vitali fino a quel momento impegnate in meccanismi di difesa, tesi a mantenere gli equilibri in un contesto di sofferenza (Falzoni Gallerani, 1992). Le funzioni essenziali e gli obiettivi di tale intervento sono quelli di sostenere la famiglia nei momenti di difficoltà, fornendogli gli strumenti per fronteggiarle e rimuoverle; aiutandola quindi a scoprire le proprie potenzialità, riconoscere i propri bisogni, acquisire capacità di agire in autonomia; valorizzare e potenziare le dinamiche relazionali all’interno della famiglia in quanto “se il comportamento del malato viene profondamente e costantemente influenzato in senso positivo dalla realtà assistenziale(….) e familiare possiamo riscontrare espliciti miglioramenti clinici, riacquisizione di energie individuali e collettive(….)”(Cazzullo,1997); costruire una rete di legami “community-oriented” (Calvaruso, 1994) per sostenere la famiglia in difficoltà, mettendola in condizioni di recuperare il suo ruolo e di operare in autonomia; promuovere le capacità progettuali della famiglia senza esigere nuovi paradigmi con la convinzione che ”invece di portare un metodo di lavoro con me……(paradigma), cerco di catturare un discorso fresco e differente con ogni famiglia, in ogni sessione (sintagma)” (Di Nicola, 1993).

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Raffaele Crescenzo

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