Qual è la fonte della nostra prima sofferenza?
L’aver esitato a parlare. L’aver accumulato pensieri muti dentro di noi.
Gaston Bachelard
Quali saranno mai le ragioni che portano così spesso noi, amanti del cinema, al cinema? Tra tutte, la voglia di una storia nutriente, il desiderio di perdersi in quell’atmosfera tutta particolare che, rassicurandoci, ci assicura due ore di sospensione dalle fatiche quotidiane.
Ma c’è anche il voler stare al passo con gli eventi culturali di cui si parla; insieme alla curiosità, il non voler rimanere indietro. E quando ci chiedono se abbiamo visto l’ultimo Ken Loach, per quanto possiamo rispondere di no senza sentirci un po’ tagliati fuori?
Invece, questo fine settimana, nonostante siano usciti alcuni film della rassegna di Roma, noi decidiamo di andare a vedere Jimmy della collina di Enrico Pau, che, avrà successo o no, è fuori dai clamori e dalle luci festivaliere, dopo la sua comparsa di due anni fa a Locarno e la sua quasi totale sparizione. Una scelta di nicchia, su consiglio di Radio Popolare; forse si nasconde anche qui il desiderio di essere i primi?
E va bene, se anche fosse, pazienza! Per noi è un incoraggiamento al cinema Mexico e alla singolarità delle sue scelte (ai non milanesi va detto che il Mexico proietta The Rocky Horror Picture Show da ventisette anni, Il vento fa il suo giro da un anno e mezzo!).
O forse è il bisogno di narrazioni molto vicine al vero, come, appunto, Il vento fa il suo giro di Dritti, Parada di Pontecorvo, La classe di Cantet, i documentari di Alina Marazzi. Non ci chiediamo ora come mai tanto bisogno di realtà, perché la risposta ci porterebbe troppo lontani da Jimmy della collina di cui invece vogliamo parlare.
Jimmy ha diciotto anni, nemmeno compiuti, ma nel film sembra averne venticinque. Sarà lo sguardo sempre cupo, la barba incolta, i capelli ribelli, la poca cura di sé. In realtà l’interprete Nicola Adamo visto in televisione dimostra i suoi pochi anni, gli stessi che gli dà Massimo Carlotto nel romanzo da cui è tratta la vicenda del film.
E’ un ragazzo fragile che ostenta atteggiamenti spavaldi poco credibili, un’ indifferenza che non convince nessuno. Ha la sfortuna di essere nato in una famiglia molto modesta, nella parte del mondo privilegiata, l’Occidente, ma in Sardegna, vicino Cagliari, in un luogo assurdo, in cui la bellezza del mare è violentata dalle ciminiere di una mostruosa raffineria, che incombe come una minaccia sulla vita di tutti.
Il padre fa l’operaio lì, il fratello si condannerà tra poco nel ventre della fabbrica, la ragazza di Jimmy è già rassegnata alla detenzione a vita. Lui no, e come potremmo dargli torto? Esprime sogni diversi Jimmy davanti al mare: partire per il Messico, raggiungere un luogo il più lontano possibile da quest’ inferno dominato dalla raffineria.
E’ legittimo per un adolescente sognare una vita migliore, un futuro più libero. Il guaio del nostro ragazzo è il passaggio dalla fantasia all’azione, passaggio che da sempre fa la differenza tra il sintomo nevrotico del vivere fuori dal reale e il gesto non socialmente consentito.
Così Jimmy si accompagna coi malavitosi del luogo e (in scene piuttosto confuse a dire il vero) compie una rapina per la quale viene subito arrestato. La vista sulle ciminiere si restringerà ancora di più e la sua prigione interiore diventerà reale, un carcere minorile, con tutto ciò che comporta l’esperienza della clausura.
Quando viene accompagnato dalla polizia in cella, sembra anche a noi di vivere questo passaggio dal fuori al dentro, con portoni e cancellate che si aprono rumorosamente e si richiudono ancora più forte dietro le spalle; anche a noi sembra di vivere il tormento della coabitazione con i compagni di cella: il tenero Simone che ha deciso di difendersi dal mondo ridendo sempre (divertente all’inizio ma ben presto snervante) e il ragazzo siciliano, aggressivo e violento.
La disperazione di Jimmy è resa solo ed esclusivamente attraverso l’intensità dello sguardo. Taciturno, scontroso, ostile, non concede mai un sorriso agli altri nel carcere, né ai compagni, né agli operatori, che pure sembrano sinceri. Le persone del mondo che ha lasciato non possono e non sanno consolarlo. La madre in visita pronuncia come prime parole: “Che vergogna!”, il padre piange, la fidanzatina tace.
Solitudine e tormento (sempre muti, sempre non detti) aumentano fino all’autolesionismo, altro atto estremo che lo condurrà, questa volta per fortuna, alla comunità La Collina. Qui la vita è più dignitosa, non ci sono sbarre, non ci sono chiusure a più e più mandate. Anzi, tutto il progetto di recupero è fondato sulla responsabilizzazione dei giovani “ospiti”.
Esiste davvero la comunità di recupero La Collina; è diretta da Don Ettore Cannavera, che lavora con i suoi volontari al progetto di reinserimento dei giovani; si realizza attraverso il confronto delle diversità, la cooperazione, il sostegno reciproco, lo sviluppo dell’autonomia, la promozione dei processi decisionali.
Un paradiso terrestre se paragonato al carcere minorile; eppure anche qui Jimmy manifesta insofferenza, e non abbandona l’intenzione di fuggire. Nemmeno Chiara, già conosciuta tra le sbarre, sembra riuscire a conquistare del tutto la sua fiducia; attratto da lei, si dichiara infastidito per il suo fare da “maestrina” e non coglie, tutto preso dal suo dramma, il dramma segreto di lei, finché Chiara stessa non glielo rivela.
Ovviamente ci sono delle regole in comunità, regole condivise, ma Jimmy sembra piegarsi solo in apparenza. Eppure, il progetto della Collina funziona per gli altri ragazzi del film, molto ben adattati. E pare che nei fatti, solo il sei per cento dei giovani adulti ospitati dalla comunità ricada nella devianza, contro l’ottanta per cento di chi sconta la pena in carcere. Noi vorremmo sapere Jimmy tra coloro che ce la faranno, perché il finale aperto, apertissimo, non ce lo dice.
Enrico Pau ritiene la sua conclusione positiva e forse lo è davvero. Ma se un processo di cambiamento è avvenuto, rimane troppo lasciato all’intuito dello spettatore, che di fronte allo schermo o all’uscita del cinema non sempre ha voglia di interrogarsi.
Ci sono i sogni di Jimmy, è vero, ma sono frammenti, immagini oniriche che hanno poco o niente di enigmatico – l’ambiguità è il bello del nostro sognare! – che si limitano ad esprimere paure e desideri inespressi, e non danno maggiore spessore al personaggio; hanno se mai la funzione di dirci ciò che altrimenti non è possibile sapere, data l’afasia adolescenziale da cui Jimmy è stato colpito.
Così lo vediamo in sogno fare l’amore con Chiara, e abbiamo la conferma della sua attrazione per lei, ma soprattutto lo ritroviamo in un incubo ricorrente, stretto nello spazio tra un muro invalicabile e una cancellata. La dimensione del sogno si confonde spesso con quella della vita, la fantasia con la realtà, la concretezza con l’anticamera del delirio.
Tutto ciò non dà maggiore drammaticità al conflitto, anche questo solo intuito; è un accenno a ciò che attraversa l’anima del nostro adolescente, che dall’inizio alla fine, dalla libertà al carcere, dalla detenzione alla comunità mantiene sempre il suo atteggiamento ribelle, la sua irrequietezza di fondo.
Non è un violento Jimmy; porta con sé il rifiuto costante verso un mondo da cui si sente tradito e non potendo esprimerlo fino in fondo sfoga la sua rabbiosa aggressività contro se stesso. La sua memoria è interamente occupata dalla corsa affannosa verso un’improbabile salvezza, un riscatto immaginario, immaginato, e che noi vorremmo diventasse realtà.
Maurizio Porro scrive che la storia sembra iniziare là dove finisce I 400 colpi, e noi gli diamo ragione . Un Antoine Doinel di poco cresciuto, ben cinquant’anni dopo. Ma non c’è qui il determinismo della logica di Truffaut. Antoine si porta dentro la ferita dei non amati, oppresso dall’indifferenza materna, dalla vigliaccheria del patrigno, dalla stupida e inetta severità degli insegnanti, dall’orrore del riformatorio e…..ricordate il dialogo con la psicologa? Un mondo adulto che non capisce, che non vuole capire, tutto preso dal proprio egoismo.
Jimmy potrebbe essere storicamente, anagraficamente il padre, addirittura quasi il nonno di Antoine; e quindi la sua rabbia adolescenziale, la sua sofferenza profonda hanno ben altre radici, nelle quali non possiamo non sentirci coinvolti.
Tanto che se da una parte ammiriamo il coraggio di Enrico Pau per la scelta del soggetto e di tutta la narrazione, dall’altra proviamo disagio di fronte a Jimmy e ai molti giovani simili a lui, che covano risentimenti silenziosi e vagheggiano un riscatto, sociale e personale, anche a spese della legalità.