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Moda

Introduzione al Visual Merchandising

Nel panorama sociale e comunicativo che caratterizza l’Occidente di questo inizio secolo, quello commerciale si sta indubbiamente affermando come uno dei rapporti più significativi che si possano costruire fra individui e società; la progressiva frammentazione dei contesti comunitari, presidi fino all’altro ieri di forme di socialità dirette ed esclusive, fa sì che un numero e una varietà sempre più congrui di “valori” – non necessariamente economici – venga scambiato lungo i canali generali del mercato: comune, fra le famiglie, è l’uso di passare le giornate libere presso i grandi centri commerciali, dove le strutture ricettive di supporto al commercio (ristoranti, spazi-gioco etc.) si trasformano da accessori in attrazioni principali e, di contro, la dimensione del leisure si va gradatamente identificando con quella dell’acquisto. Comprare è così sempre meno un’attività collegata alla necessità, al soddisfacimento di bisogni di sussistenza e subordinata alla programmazione economica delle famiglie, e si va legando sempre più strettamente ai territori dell’ozio e del piacere personale, dove si colora di sfumature simboliche di un’ampiezza e di una profondità senza precedenti. Parallelamente a questa evoluzione, lo spazio del commercio, il negozio, si va trasformando da luogo accidentale di passaggio di beni, i cui requisiti essenziali erano principalmente di carattere funzionale e informativo (razionalità, visibilità, comfort, lusso), in vero e proprio contenitore scenico, destinato ad accogliere e ad offrire risonanza alle mutate esigenze simboliche, culturali e psicologiche di un pubblico non più composto da soli “consumatori”. Alla creazione di questi nuovi palcoscenici della socialità, che come abbiamo visto sono esito di transizioni di portata globale, hanno certamente dato il proprio contributo discipline come l’architettura d’interni e il retail design, che fra le prime hanno colto le istanze di rinnovamento che il processo descritto portava con sé: spazi più agevoli e interattivi, meno rigidamente caratterizzati e aperti ad una costante risignificazione, sono oggi all’ordine del giorno nel commercio, dove hanno preso gradualmente il posto dei cubi chiusi su cinque lati che erano il teatro del consumismo occidentale. Ma anche – e in maniera nettamente più pregnante – il marketing e la psicologia hanno dovuto rivedere i propri principi, sostituendo al criterio dell’ottimizzazione (che spesso era semplice riduzione) di tempi e spazi quello della carica di seduzione complessiva del messaggio segnico che emerge dallo spazio di vendita. Dall’incrocio fra queste discipline nel nuovo quadro di attese e requisiti del commercio post-moderno, sono venuti configurandosi, con chiarezza via via maggiore, i lineamenti di una disciplina capace di ricomprendere e gestire tutta questa materia, adeguando di volta in volta la tipologia, la distribuzione degli spazi e l’estetica complessiva di ogni punto di vendita alle caratteristiche commerciali e comunicative del prodotto, del target a cui si rivolge e degli umori mutevoli della clientela potenziale: è in questa zona di confine che nasce così il visual merchandising come approccio unitario ai temi dell’appeal percettivo-culturale della vendita. È fuorviante o limitativo, dunque, credere che l’aggettivo “visual” in questo caso si riferisca solo al sistema di sollecitazioni percettive rivolte al senso della vista. Il punto è che, non più collegato ad esigenze primarie immediate, a valori d’uso riconoscibili ed evidenti, il prodotto intorno a cui ruota il commercio rischia oggi di rimanere banalizzato, emarginato, di perdere visibilità, scomparendo nel mare indistinto delle possibilità equivalenti: a contenere questo rischio, il visual merchandising suggerisce tecniche e procedimenti per riempirlo di significati comunicativi “altri”, capaci di entrare in consonanza con i contenuti di desiderio che i clienti portano dentro il negozio, Tutto ciò, naturalmente, esaltando proprietà che già si trovano per così dire “scritte” nei prodotti: il merchandising non crea valori ma prova semplicemente ad enfatizzarli, a renderli leggibili ed evidenti e a dar loro una consistenza determinata sullo sfondo desiderativo comune di chi vende e di chi compra. Il visual merchandising è così vendita visiva nel senso che conferisce visibilità al mondo di domande e di risposte possibili che oggi anima l’ambito sociale del commercio.

Estratto da: La vendita visiva. Strategie e tecniche di visual merchandising
Franco Angeli, Milano 2008
ISBN 13: 9788846487650


Gli anni del “boom economico” non rappresentano un precedente in questo senso, in quanto le travolgenti dinamiche di acquisto che hanno accompagnato l’esplosione del “consumismo” restavano pur sempre legate alla dimensione del possesso di beni o – se vogliamo – ad un senso traslato dell’incorporazione: la novità di quel periodo era così un puro innalzamento della soglia dei bisogni primari. Post-modernità e globalizzazione hanno invece introdotto un elemento propriamente linguistico, che ha trasformato il commercio in veicolo prima di tutto di significati (cfr. J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981; U. Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999).

Sintomatico di questi cambiamenti è il vistoso aumento del tempo medio che i clienti trascorrono nei negozi: come vedremo meglio più avanti, la transazione economica come tale va diventando sempre più secondaria a questo riguardo.

Come la pubblicità, il make-up o – più in generale – la scienza della comunicazione, il visual merchandising non ha proprio http:\\/\\/psicolab.neta a che vedere con l’inganno: modificando la superficie dei propri oggetti, tali approcci non li trasfigurano, offrono semplicemente possibilità plausibili di lettura di un potenziale comunicativo già insito in ciò che rappresentano.

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Carla Tuci

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