L’avvento dell’era digitale non ha travolto semplicemente una community che si limita a partecipare alle conversazioni sui brand: il popolo di opinionisti in rete è lo stesso che nel mondo reale si può recare in un punto vendita per acquistare un prodotto di cui ha già sentito parlare in Internet.
Fino a poco tempo fa il fattore decisivo per l’acquisto del cliente poteva essere attribuito all’azienda o al retail: il consumatore, non appena fatto ingresso in negozio entrava in contatto con l’universo del marchio, toccando i prodotti e relazionandosi con la forza vendita. Oggi, invece, sono molte le modalità attraverso le quali ci si può relazionare con il brand, prima tra tutte il web: ed è proprio tra le sue pagine che sempre più di sovente si realizza uno dei primi momenti di contatto tra brand e consumer.
Ciò a cui i marketer e i responsabili delle Pr più perspicaci dovrebbero far molta attenzione è il nuovo processo decisionale che guida il consumatore all’acquisto di un prodotto. L’acquirente del passato operava una scrematura tra le possibili offerte fino a giungere a quella che maggiormente ci confaceva ai suoi criteri di valutazione: e l’attimo dell’acquisto suggellava la fine del rapporto tra azienda e cliente. Spinti dal desiderio di indurre il consumatore all’acquisto, per anni i marketer hanno utilizzato “the funnel metaphor”, la metafora dell’imbuto: la mente degli individui veniva simbolicamente rappresentata da un imbuto la cui parte più ampia era colma di una vasta gamma di brand. Compito di ogni azienda era, in prima istanza, quello di dimostrare che il proprio prodotto era quello che meglio corrispondeva alle loro aspettative; subito dopo quello di filtrare le opzioni di scelta fino a condurre all’acquisto del suo prodotto.
Più incostante e meno razionale, il cliente contemporaneo si fa trasportare dalle relazioni con il brand: prima dell’acquisto i new media channel lo mettono in connessione con numerosi marchi e prodotti che deve valutare e tra cui sceglie, indipendentemente dal produttore e dal retail. Fondamentale è sapere che per questo cliente la relazione con il brand proseguirà anche successivamente, attraverso un coinvolgimento e una partecipazione alimentata da ciò che si dice di esso nel web. Internet ha superato i limiti fisici del punto vendita, tanto da indurre le aziende a rivedere le proprie strategie di comunicazione ed a calibrare i propri investimenti in funzione di un’ottica di engagement, non di conquista. Questo permette di trovare dei punti di contatto in cui il consumatore abbassi le difese e sia predisposto positivamente a ricevere l’influenza del brand.
David C.Edelman, partner e co-leader della Digital Marketing Strategy presso la McKinsey & Company, ha reinterpretato le fasi del processo di acquisto offrendo una chiave di lettura più attuale dei punti di contatto con il consumatore. Nell’edizione di giugno 2009 del giornale McKinsey Quarterly, insieme al collega David Court ha pubblicato “The Consumer Decision Journey” (in breve CDJ), che segmenta in varie fasi il percorso che il consumatore compie dal momento in cui entra in contatto con il brand, fino a dopo l’acquisto. Facendo riferimento a nuovi studi Edelman fa notare che il consumatore non converge direttamente la sua scelta verso un prodotto, ma tende a prolungare il momento di cernita tra le varie possibilità, continuando a inserire e ad escludere dalla valutazione nuove proposte. Sottolinea, inoltre, che la relazione che si instaura tra brand e consumer prosegue dopo l’acquisto con la condivisione dell’esperienza online.
Analizzando un campione di 20.000 consumatrici, gli è stato possibile suddividere il processo di decisione all’acquisto in diverse fasi. La prima prende il nome di “consider” e consiste nella valutazione dei vari prodotti. Le aziende hanno da sempre investito molto in questo momento di contatto, sia attraverso l’advertising che la promotion: per tale ragione secondo la metafora dell’imbuto i prodotti che il consumatore ha in mente inizialmente sono quelli che ha già visto in pubblicità o in negozio. I new media, invece, bersagliano così tanto gli utenti di messaggi sui prodotti, da obbligarli a fare una selezione sin da subito.
Durante l’”evaluate” i prodotti entrano ed escono continuamente dal range di valutazione dei consumatori, influenzati dalle opinioni di amici, di negozianti e anche di competitor: la loro propensione verso un prodotto piuttosto che un altro deriva da quanto apprendono su di essi. Le informazioni che possono provenire dall’azienda stessa possono essere ben accette da clienti che stanno cercando di farsi un opinione su più articoli.
Varcata la soglia del negozio si passa alla fase del “buy”, in cui le carte in tavola si mescolano ulteriormente: molti momenti della verità possono condurre o meno alla conclusione dell’acquisto (packaging, prezzo, visual merchandising, sales assistent). Da una ricerca McKinsey risulta che il 60% delle consumatrici di prodotti cosmetici per la pelle dopo l’acquisto conduce le ricerche nel web per informarsi sugli articoli: si deduce che le stesse non troveranno difficoltà nell’esprimere la propria opinione in relazione al loro acquisto. I nuovi media, infatti, hanno attribuito più peso nello specifico agli stages di “evaluate” e “advocate”, attraverso i quali si genera il word of mouth del consumatore, che promuove il prodotto automaticamente in rete.
Giunto alla fase “bond”, il cliente si sente legato al brand, ripone fiducia in lui e vi dialoga in Internet: tanto da arrivare, talvolta, a ripetere l’acquisto, senza il bisogno di ripercorrere tutte le precedenti fasi. Più è forte il legame tra brand e consumer, più quest’ultimo avrà il desiderio di parlare a suo favore e di consigliarlo ad altri navigatori. L’incidenza dei nuovi media sulle azioni dei consumatori ormai è indubbia: nonostante ciò, molte aziende continuano a destinare gran parte dei loro budget ad investimenti pubblicitari, aspirando a colpire le masse, piuttosto che le nicchie.
Sarebbe ancora prematuro decretare la fine dell’era dei media mainstream, ma gli addetti marketing devono incanalare le loro energie verso le nicchie dell’online, fornendo loro i contenuti che cercano continuamente. Coloro che continuano a pubblicizzare i loro prodotti in tv, radio, stampa ignorando il CDJ, non riescono ad influenzare il consumatore attraverso i punti di contatto giusti. Se il prodotto gode di ampia visibilità non significa che riesca a far parlare di sé: e un prodotto che non ha recensioni positive come può essere preso in considerazione dagli utenti del web. Di conseguenza, sarebbe saggio che le aziende spendessero di più nel guidare l’advocacy, l’opinione positiva dei consumatori sui loro prodotti.
In secondo luogo, invece di basare le strategie di management sul finanziamento di attività pubblicitarie nei media a pagamento, dovrebbero stanziare dei fondi in spese “nonworking”, ossia per persone e tecnologie che contribuiscono a creare e gestire i contenuti da trasmettere attraverso il canale del web. (http://hbr.org/ oppure articolo http://hbr.org/2010/12/branding-in-the-digital-age-youre-spending-your-money-in-all-the-wrong-places/ar/2).