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Azienda e Organizzazione

Indagini e Metodi in Pubblicità

Per poter indagare nella pubblicità, ma soprattutto per farla la pubblicità, è necessario far ricorso a numerose discipline e considerare quello che ne è l’oggetto come elemento dotato di una natura profondamente sociale, all’ombra di quello che è poi lo scopo primo ed ultimo della pubblicità stessa: consentire cioè di dare agli individui un senso alla propria esistenza e all’universo che li circonda, di trovare dei modelli di comportamento da seguire nella vita quotidiana.
Oltre alla multidisciplinarità della pubblicità, c’è da dire che essa è il frutto di un lavoro sinergico – o almeno così si auspicherebbe – di una serie di soggetti che pur avendo ruoli e finalità ben distinte sono costantemente interagenti l’uno con l’altro. Quella che apparentemente può sembrare una semplice operazione di persuasione in realtà è un’attività dagli importanti risvolti sociali ed economici, talvolta anche politici (si pensi per esempio alle campagne elettorali e all’importanza dell’immagine pubblica sui mezzi a stampa o in tv).
Ciò da cui la pubblicità è caratterizzata è essenzialmente l’onnipresenza, che giunge in alcuni casi persino all’ossessione, generando nella più estrema delle ipotesi in colui che consuma visivamente il prodotto una repulsione totale per quel messaggio.
Siamo circondati dalla pubblicità, ma ci sono momenti che riteniamo talmente intimi e privati che non vorremmo mai che essa vi si intromettesse così violentemente.
Com’è ovvio, la pubblicità non cade mai nel vuoto ma in un contesto culturale strutturato, fatto dei suoi principi e dei suoi dogmi, che possono essere localmente o universalmente riconosciuti. In questo contesto culturale, la pubblicità può attecchire o meno, ma nel caso in cui ciò avvenga essa può contribuire a costruire il nostro immaginario collettivo, i riti e i miti, nonché i ritmi, del nostro tempo.
Tutti parlano della pubblicità e tutti fanno ricorso nel parlare a frasi, aforismi, citazioni rubate alla pubblicità (celebri sono frasi come “O così o Pomì” della passata di pomodoro Cirio, oppure “Meditate, gente, meditate” presa in prestito ad uno spot della birra, o “Un diamante è per sempre” di De Beers e si potrebbe continuare all’infinito…). Ma ricordare il messaggio pubblicitario, o uno slogan come in questo caso, non significa necessariamente che tale messaggio sia stato effettivamente recepito e rielaborato come positivo.
È infatti vero che l’uomo dispone di due tipi di memoria, una a breve termine, che definiamo implicita e l’altra a lungo termine, che definiamo invece esplicita. La prima è quel tipo di memoria che si attiva nel momento in cui l’individuo si trova a dover compiere un’azione e la corretta riuscita di ciò dipende dall’impiego di conoscenze pregresse, custodite nella memoria a lungo termine, spesso rese in movimento fisico o in comportamento in maniera del tutto inconsapevole ed automatica.
Il secondo tipo di memoria, quella esplicita, potrebbe essere paragonata in qualche modo alla RAM di un computer: si tratta difatti di un magazzino temporaneo del quale si dispone limitatamente (nel caso di un computer tale tempo è determinato dal tasto di accensione/spegnimento del PC stesso) e che usiamo per una prima analisi frettolosa delle informazioni che ci vengono inviate. La pubblicità viene assorbita e rielaborata da questo secondo tipo di memoria, anche se com’è chiaro per ottenere risultati duraturi nel settore sarebbe opportuno lavorare sulla memoria implicita, in quanto più profondamente radicata e difficilmente modificabile: lì è contenuto il profilo della nostra personalità, frutto di esperienze di vita accumulate nel tempo e raramente nel corso della vita essa potrà essere soggetta a modifiche permanenti, se non in casi estremamente gravi che ci abbiano segnato in qualche modo. Questo possiamo affermarlo con certezza, dal momento che il successo di una pubblicità non può che essere misurato andando a verificare in che modo e quanto le nostre abitudini sono cambiate grazie alla pubblicità e quindi se effettivamente dopo averla subita sentiamo una certa propensione all’acquisto.
Ma tra la propensione all’acquisto e l’acquisto vero e proprio intervengono una serie di fattori non riconducibili ai metodi pubblicitari, che sono assolutamente imprevedibili e dunque difficili da tenere sotto controllo.
La pubblicità attribuisce visibilità alle scelte di consumo più compatibili con l’immagine che l’individuo vuole comunicare di sé. La pubblicità gli offre una sorta di aggiornato vademecum per orientare correttamente le sue scelte sul mercato e, successivamente, per usare al meglio il prodotto anche secondo modalità socialmente corrette. La pubblicità difatti è una presenza che si potrebbe definire quasi come “lo specchio delle mie brame” (Vecchia), uno specchio nel quale l’individuo vede sé stesso e contempla le sue sembianze idealizzate nei modelli che gli vengono proposti, incrementando il suo livello di autostima e sentendosi ancor di più “il più bello del reame”.
La pubblicità oltre ad essere unilaterale, di parte e non essere obiettiva, si deve ammettere che ha acquisito una completa autonomia negli ultimi anni e questo ovviamente per merito dei martellanti e diffusi mezzi di comunicazione. Se dovessimo fare una stima di quanto tempo effettivamente ci troviamo ad essere i destinatari di messaggi pubblicitari quando per esempio stiamo comodamente seduti in panciolle sul divano di casa – includendoci diciamo nella categoria dello spettatore televisivo medio – si potrebbe dire che questa stima si fermi intorno ai 10-12 minuti. A questi però vanno sommati tutti quei tempi che si accumulano nel corso della giornata quando per esempio ascoltiamo la radio, prendiamo un taxi, entriamo in un negozio o in un bar, in una stazione… Insomma, si viene a creare una lista di fonti emittenti “lunga” circa 25 minuti. Nel complesso però il momento più propizio per far breccia nella mente del consumatore è forse il primo di questi che abbiamo enumerato: quando si è rilassati sul divano di casa si vive una situazione di coinvolgimento minimale nei nostri problemi, l’atmosfera è distesa e l’individuo tende a non farsi troppe domande sui proprio bisogni e dunque a cedere più facilmente alle tentazioni, magari quando questo momento si verifica alla fine di una lunga e stancante giornata lavorativa.
Se da piccoli siamo stati abituati a sentirci dire “… e vissero felici e contenti”, crescendo, e maturando consapevolezze e riflessioni sul mondo merceologico, si compra e si vive “insoddisfatti e alla moda”. Il compratore infatti – lo abbiamo sottolineato più volte finora – acquista per sentirsi alla moda, ma si considera insoddisfatto a causa della qualità preponderante della moda, cioè della sua transitorietà, per cui oggi potrei essere alla moda e domani essere ormai già “sorpassato”; nonché per il fatto che nel momento in cui si realizzano dei desideri si tende non a godersi tale realizzazione, quanto a pensare al desiderio successivo. L’arguzia della pubblicità però di fatto sta proprio nel rendere desiderabile un prodotto, al di là della sua durevolezza nel tempo, proponendolo in contesti familiari ed accoglienti, che nessuno, per costruzione, tenderebbe a voler rifiutare.
La novità in pubblicità può essere vissuta dal consumatore secondo una doppia reazione, la quale a sua volta è stimolata dalle scelte adottate dal pubblicitario: se si tende a far leva su valori acquisiti e consolidati – le cosiddette verità universali – non si farà fatica a dar credibilità a quel prodotto; diversamente la persona necessiterà di un tempo allargato per poter assimilare l’informazione e renderla compatibile con i restanti pensieri accumulati nella memoria implicita.
In generale comunque il messaggio trasmesso pubblicitariamente deve conservare un certo margine di insicurezza di riuscita, altrimenti rischia di battere il terreno del già visto o del già detto.
È altresì importante far leva sulle emozioni del destinatario e quindi rendere evidenti situazioni in cui regnino la gioia (un’emozione alla quale si fa ricorso nel 36% dei casi), l’aspettativa o l’accettazione, lasciando chiaramente da parte le emozioni negative o comunque palesandole per poi risolverle in un’esplosione di gioia.
L’enfasi è tutta sulle conseguenze che la pubblicità esercita sul sociale non tanto come risultato di singole campagne, ma come effetto cumulato delle stesse: più che il breve termine interessano gli effetti di lungo termine. In particolare l’interesse è sulla ideologia della pubblicità, sulla cultura veicolata da questa, sulla funzione che svolge come agenzia di socializzazione. Si sottolinea che la pubblicità, al di là delle singole proposte di vendita, influenza le gerarchie dei consumi, diffonde valori, modelli di riferimento, tipi di identità a cui ispirarsi. È la pubblicità che, in molti casi, diventa arte, senza nessuna soggezione o inferiorità rispetto alle arti maggiori: e non è affatto vero del resto che ciò vada necessariamente a discapito delle finalità istituzionali della pubblicità.
Il ruolo che essa svolge a livello della significazione è quello di riscattare i prodotti e i servizi da una crescente banalizzazione che essi hanno subito e stanno subendo a causa del sovraffollamento di merci, sistemi e consumatori. La pubblicità è divenuta così determinante non solo nell’attribuire a prodotti indifferenziati caratteristiche non semplicemente denotative di identificazione, ma nel costruire identità e personalità forti a chi ha saputo usarla con intelligenza nell’ambito di un disegno strategico complessivo.
Subentra qui il convincimento e la capacità di persuasione che la pubblicità possiede: essa vuole convincere il suo fruitore a fare o essere qualcosa/qualcuno, vincendo in qualche modo la resistenza e la diffidenza che persiste latente nell’individuo, il quale già in partenza è consapevole del fatto che sta per ricevere un messaggio il cui scopo sarà quello – nella sua immaginazione – di abbindolarlo, spogliandolo della suo essere vigile e cosciente. Sarà compito della pubblicità continuare ad essere tale ma farlo nascondendosi dietro ad una maschera che ne celi in parte l’identità.
Di fronte ad una maggiore cultura che l’uomo negli anni è riuscito a guadagnare e coltivare, il pubblicitario non può ignorare il fatto che gli individui abbiano una loro esperienza che è stata in grado precedentemente di temprarli e di metterli in guardia da possibili delusioni. Egli potrà piuttosto pensare a concentrarsi sulla proposta in pubblicità di elementi ludici, di divertimento, offrire spettacolo insieme alla comunicazione e all’informazione, per essere più facilmente ricordato o per essere anche semplicemente premiato per il momento di svago e distrazione offerto, al di là del bisogno che si propone di soddisfare.
Secondo i creativi la pubblicità potrebbe essere definita come una corrente positiva che avvicina il prodotto al consumatore, facendo ricorso ad una comunicazione che crei feeling con esso, una quota aggiunta di immagine da attribuire ad un prodotto povero di personalità, un’elaborazione di linguaggi, un messaggio che parla all’auto-rappresentazione dei consumatori, uno spettacolo o un gioco e molto altro.
Si preferisce non parlare del prodotto e dunque si ricorre ad allegorie, analogie, metonimie, metafore e quant’altro, per parlare di ciò a cui il prodotto potrebbe essere paragonato, riferito. O di quello che il prodotto permette, promette e potrebbe rendere possibile.
Si finisce in molti casi per parlare di qualcos’altro, questo perché il prodotto diventa sempre più un’operazione di somma in cui gli addendi sono merce e immagine ripetuti all’infinito.
Esistono molti pensieri intorno alle metodologie pubblicitarie, c’è chi sostiene che sia opportuno mettere in risalto i plus o i benefit del prodotto, cioè i modi in cui esso riesce a soddisfare una certa funzione, chi invece ritiene si debba conferire una certa solennità al messaggio pubblicitario che sia in grado di scaturire stupore e faccia sognare.
Il prodotto così sponsorizzato dovrà essere talmente carico di atmosfere di sogno e di desiderio, da diventare quasi inarrivabile.
Il gioco pubblicitario funziona se e solo se entrambi i soggetti coinvolti – emittente e destinatario – sono consapevoli ognuno del proprio ruolo: solo ad armi pari si può prevedere un successo da ambo le parti. Si dovranno conoscere i miti/valori su cui si fondano le premesse o le illusioni di fondo, quali possono essere per esempio la promessa di una vita meno grigia e più intensa oppure la possibilità di essere sempre ad un passo dal sogno e di avvertire ad un certo punto di essere lì per realizzarlo.
Per quanto possa sembrare strano, in realtà la pubblicità non inventa http:\\/\\/psicolab.neta ma attinge continuamente con discrezionalità e fantasia dall’immaginario collettivo e dalla cultura, mescolando sapientemente e dando luogo a un tutt’uno omogeneo e spesso e volentieri credibile.
Creare una certa atmosfera intorno ad un prodotto diventa necessario soprattutto in tempi come quelli attuali, dove i bisogni sono stati già tutti soddisfatti e dove, in presenza di un sovraffollamento di merci, ogni prodotto assomiglia all’altro. Dunque perché comprarne uno e non un altro? Semplicemente perché il loro possesso può costituire un valore aggiunto, costruito secondo opportuni metodi e percorsi dalla pubblicità stessa, il cui ruolo in questo senso diventa fondamentale. Proprio per questo essa non può trasmettere un semplice messaggio che dica all’utente “Compra!”. O meglio, la finalità della comunicazione sarà questa, ma le parole con le quali esprimerla dovranno essere intrise di atmosfere cotonate e desiderabili. Ne consegue che essendosi spostata l’attenzione del pubblicitario sul valore significativo del prodotto, l’importanza dell’elemento informativo – controindicazioni, modi d’uso e quant’altro – è andata via via scemando.
Come accade nella moda, anche in pubblicità ciclicamente ritornano le stesse immagini, vengono riproposte le stesse situazioni, ma l’utente, tale è l’assuefazione al consumo visivo, pur accorgendosene accetta di buon grado la ripetizione, trovandola in qualche caso persino piacevole e stimolante all’acquisto. Ciò che conta è creare un consumatore perenne che si renda costantemente conto di essere carente in qualcosa e voglia porre rimedio a tale carenza acquistando un qualunque prodotto. Infatti, se in un’epoca precedente il consumatore valutava in maniera critica il prodotto, ora il consumatore, a prescindere dal sesso, valuta in maniera critica se stesso, e si sente all’altezza della situazione solo appropriandosi di beni presenti sul mercato. Il rischio che i mezzi economici e le risorse umane e professionali investite non siano ripagati in termini commerciali e elaborazione culturale è un rischio che chi lavora nel settore sa di dover correre.
Nel suo essere di moda, nel suo essere gadget luccicante al centro dell’ammirazione collettiva, la pubblicità si presenta al mondo come un oggetto polisemico e ambiguo: essa gioca sulla sua ambiguità ed questa perciò non fa che costituirne un fattore di successo. Esistono situazioni e significati inequivocabili, ma esistono anche i significati che siamo noi ad estrapolare da un determinato messaggio, che sono quindi assolutamente personali e contestabili. L’utente ama essere coinvolto e prendere parte attivamente a questo tipo di processi e ne è talmente partecipe che pur non credendo nella validità del prodotto tende a farsi persuadere da lustrini, cotillon e giochi proposti dalla pubblicità.
I temi che la pubblicità affronta sono dei più disparati, ma quello che ai giorni nostri è più in voga è sicuramente il tema del piacere, anche e soprattutto inteso come piacere fisico e sensoriale che è arrivato ad affiancare le tradizionali motivazioni razionali all’acquisto per prodotti di limitato valore simbolico, cioè per quei prodotti che si possono includere nella categoria dei prodotti-base indifferenziati.
Nuovo è il tema del piacere, ma nuova è soprattutto l’esplicitazione dell’invito a raggiungerlo, realizzata tramite l’aperta esaltazione del godimento nelle sue varie forme.
Solitamente si tende ad associare il concetto di piacere a proposito delle feste, delle vacanze e del tempo libero; non stupisce infatti che si rappresentino allegria, divertimento e felicità quando per esempio i soggetti della pubblicità sono panettoni, colombe o spumanti, o che si inneggi al piacere proponendo soluzioni e alternative per le vacanze.
Sintetizzando in uno slogan questa attuale induzione al piacere si potrebbe far ricorso ad una frase del tipo: “tu ti meriti il meglio, comunque, per il solo fatto di esistere”. La fragilità dell’utente destinatario non può che rimanere profondamente sedotta da un’affermazione del genere.
Etica edonistica ed etica dei consumi si rinforzano vicendevolmente, l’una essendo funzionale all’altra. L’aspirazione al piacere e alla felicità è quindi per definizione aspirazione al consumo e la soddisfazione del desiderio coincide con l’atto stesso del consumatore. Per ovvie ragioni, nella comunicazione pubblicitaria il piacere non può che coincidere perfettamente col consumo: l’invito a godere è invito a consumare, l’incoraggiamento ad aspirare al piacere è necessariamente un incoraggiamento a desiderare di consumare. Per fare un esempio banale, un sapone viene presentato non attraverso la funzione detergente che svolge, ma mediante la sua capacità di conferire fascino e potere seduttivo alla persona che lo utilizza, innescando così un meccanismo di piacere legato prima di tutto a sé stessi – nell’ottica del narcisismo – ma poi anche agli altri, che saranno profondamente attratti da chi utilizzerà tale prodotto.
La società dei consumi è ormai entrata nella fase in cui l’individuo sembra sempre più orientato a ricercare nei prodotti che acquista sia gratificazioni interiori che distinzioni sociali, ad interessarsi sempre più a ciò che il consumo può significare in termini di soddisfazioni personali che di riconoscimenti esterni.
Quando si è parlato di potere seduttivo di un prodotto lo si è fatto con una ben precisa cognizione di causa: Baudrillard infatti sviluppò questa riflessione ampiamente nel 1995 ne “Il sogno della merce”, riflessione poi ripresa successivamente e ulteriormente approfondita.
Solitamente si tende ad associare il concetto di seduzione con il sesso femminile. Essa è sempre stata un patrimonio esclusivo della donna, che in passato, e molto prima del femminismo ovviamente, la utilizzava per lanciare una sfida simbolica ininterrotta all’altro sesso, per attuare una strategia delle apparenze contro il dominio maschile della produzione.
In questo modo si spiega come mai anche il concetto di seduzione diventi una metafora utile per spiegare le tendenze del sociale attuale, per giustificare la profonda diffusione del femminile nel sociale, qui inteso però in un’accezione quasi negativa, come disponibile ed arrendevole, quasi privo di una propria personalità e un proprio carattere.
L’agonismo stesso che si viene a generare in pubblicità implica uno sviluppo quasi ipertrofico della seduzione, all’insegna di una guerra tra significati simbolici ed effettivi associabili ad un prodotto.
Questa ipertrofia di fatto ha portato con il tempo ad una sostituzione graduale della seduzione con l’oscenità. Tutto ciò che di misterioso ed intrigante poteva essere associato all’ambito del seduttivo, va cadendo. L’effetto “vedo/non vedo” offertoci dalla seduzione, diventa con l’oscenità una “ipervisione”, non più raffinata e accattivante, ma quasi volgare e offensiva per il comune senso del pudore (semmai di pudore si possa attualmente continuare a parlare). Ciò è tipico del corpo umano, ma anche dei molti sistemi sociali di comunicazione, come la moda o la sessualità (anch’essa in crisi per l’eccesso di discorsi e di pratiche del sesso sviluppatisi a partire dalla cosiddetta rivoluzione sessuale). Così facendo la pubblicità diventa la sua propria merce e con essa si confonde, caricandosi di un alto livello di erotismo, a volte quasi ridicolo.
Il prodotto si offre ai sensi e alla manipolazione e si erotizza non soltanto ricorrendo all’uso esplicito di temi sessuali, ma nel fatto che l’acquisto puro e semplice si trasformi in una sorta di scenografia – coerentemente con la spettacolarità del mondo delle merci – che aggiunga al procedimento pratico tutti gli elementi del rapporto d’amore, a partire dalla timida avance per arrivare fino alla prostituzione.
L’oscenità sfocia dunque nel porno che a ben vedere può essere effettivamente interpretato come una finzione derisoria e spettacolare del sesso, che viene svuotato di tutti i suoi significati affettivi ed emozionali.
Ma la pubblicità sulla base di quanto detto finora effettivamente si dispiega in completo accordo con il sociale. E la vera pubblicità oggi è qui: nel design del sociale, nell’esaltazione del sociale in tutte le sue forme, nel richiamo accanito, ostinato di un sociale che fa duramente sentire il suo bisogno.

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Linda Meoni