L’atteggiamento più diffuso verso il messaggio iconico, in special modo in quegli ambienti in cui è fortemente radicato il senso tradizionale di una cultura fondata sulla supremazia assoluta del testo scritto, è caratterizzato da un certo distacco e, soprattutto, da una certa sottovalutazione. Invece, l’immagine e il suo utilizzo hanno da sempre supportato non solo l’espressività degli esseri umani, ma anche le loro modalità d’apprendimento e diffusione di messaggi e contenuti: in una sola parola la loro comunicazione. Nonostante ciò, nella maggior parte dei lavori, ad esempio di carattere storico, l’iconografia rappresenta un allegato della bibliografia e, le fonti visive, appaiono come supplementari specificazioni del testo scritto.
Per quello che riguarda più nello specifico il cinema, e in particolar modo il cinema definito di finzione o narrativo, il classico pregiudizio degli studiosi relativo alla sua considerazione come documento storico per l’analisi della società riflette l’antica diatriba sulle finalità del medium cinematografico, risalente addirittura ai suoi albori: cioè alla disputa Lumière contro Meliés, che sintetizza la doppia possibilità d’espressione che caratterizza i racconti cinematografici, suddividendoli in realistici e fantastici.
Nel 1825 i fratelli Lumière depositano il brevetto di quell’invenzione che, di lì a poco, sarebbe diventata “l’ultima meraviglia del mondo civilizzato”1: il cinematografo. La loro interpretazione del mirabilia rifletteva lo spirito positivista con cui, in quel tempo, veniva accolta ogni nuova scoperta scientifica e ogni nuova invenzione tecnologica, cioè come un ulteriore passo dell’uomo civilizzato verso il progresso e verso il futuro. La cinematografia rappresentava, infatti, la possibilità di oggettivare definitivamente il mondo attraverso la sua replica in immagini: si riconosceva alla fotografia in movimento2 quel valore documentale che poi avrebbe continuato a far preferire anche in futuro, specialmente agli storici, il cinema documentario per la sua maggiore adattabilità al concetto di fonte o documento utile alla ricerca.
I film-testimonianza, infatti, pur costituendo una ridottissima percentuale rispetto a quelli narrativi, sembrano dare agli studiosi quell’idea di neutrale e oggettiva rappresentazione del reale che però, come già detto, risulta non più attendibile e veritiera di quella fornita da un film fantastico. In entrambe le rappresentazioni è possibile rinvenire lo spirito del tempo che le ha prodotte. Non va mai dimenticato che dietro la scelta di ogni storia da raccontare, ogni personaggio da rappresentare o dietro le sceneggiature dei dialoghi, la cernita delle inquadrature o la strutturazione del montaggio, c’è sempre tutta una serie di valori e ideologie che vi fanno da sfondo e che si aggiungono alla consapevolezza individuale di quelle persone che compiono questo tipo di scelte.
La visione di Meliès, invece, si caratterizzava per lo spostamento della concezione del cinematografo da specchio meccanico dell’esperienza sensibile a specchio dei processi dell’immaginario collettivo, andando così a costituire un valido apporto alla conoscenza delle tendenze e delle aspirazioni, ma anche delle paure e dei moti emotivi che caratterizzano la collettività.
Il corpus documentale relativo ad una società, e alla sua storia di progressi e regressi, appare così rinforzato dall’apporto delle immagini che, pur non aderendo ai criteri di oggettività che la scienza ottocentesca attribuiva alle proprie fonti, costituiva un elemento di grossa importanza.
Le immagini, a partire da quelle della pittura3 fino ad arrivare a quelle dei media tecnologici industriali, incarnano un universo plurale di valori, credenze e fantasie che appartengono allo spirito collettivo e possono quindi permettere, attraverso l’analisi dei territori dell’immaginario, l’interpretazione di questioni di ordine strutturale chiarificando quale sia la percezione che gli individui hanno del mondo e dei suoi processi storici in certi contesti o in determinate epoche.
Ecco perché, a dispetto della tradizionale diffidenza degli studiosi nei confronti di questo medium e dei suoi prodotti, il cinema debba essere considerato come un grosso archivio dal quale attingere preziose informazioni. Queste, non solo riguardano modelli di pensiero e di azione, ma anche la loro configurazione sociale, rilevabile dallo studio delle immagini degli stereotipi, dei luoghi comuni e delle espressioni d’uso che rappresentano.
La suddivisione dei prodotti cinematografici in due poli, reale-fantastico, è, per lo più, di utilità analitica, infatti, non è mai particolarmente netta: entrambe le rappresentazioni si fondano, infatti, sulla riproduzione del referente empirico. L’ambiguità narrativa del medium si riflette solo sulla struttura dei film che ci presentano opere, alla cui base, possiamo ritrovare il contrasto tipico del cinema delle origini. Il dispositivo cinematografico altalena tra la sua concezione di strumento tecnologico avanzato che riproduce la realtà e ne fissa le immagini in modo che queste forniscano l’impressione di averne una conoscenza certa, a modalità moderna con cui gli uomini declinano la loro archetipica esigenza della Narrazione (Brancato 2005)4.
Certo è che il cinema si afferma come consumo di massa solo dal momento in cui si distacca dal proprio orizzonte documentario per approdare, nella moderna economia dei consumi, alla sua interpretazione romanzesca tipica dell’industria culturale di massa.
Note
1 L’espressione non è stata scelta a caso, si tratta infatti di un esempio di metacinema: come il cinema rappresenta se stesso. Frase tratta da: Bram Stoker’s Dracula, di Francis Ford Coppola, Prod. USA, 1992.
2 Senza la rivoluzione tecnico-espressiva operata dalla fotografia, nata in forma embrionale nel 1826 ma perfezionata solo nel 1939, il cinema non avrebbe mai potuto intraprendere la sua via di affermazione come principale medium visivo (prima dell’avvento della televisione)
3 A proposito del parallelo tra le varie arti figurative, vi sono da fare alcune importanti precisazioni. Il cinema, come forma estetica, ridisegna interessanti confini nei tradizionali rapporti tra pubblico e opera d’arte che, essendo storicamente e culturalmente determinati, già per loro natura non risultano assoluti. La contemplazione di un quadro, ad esempio, prevede un certo grado di distacco tra l’osservatore e l’oggetto osservato, che viene percepito come un qualcosa di lontano e chiuso in sé, solo da osservare. L’arte cinematografica, invece, supera questa situazione di distacco contemplativo e crea, con il susseguirsi delle immagini in movimento, l’illusione di una immedesimazione nei luoghi e nelle vicende rappresentate dal film.
4 Cfr. Brancato 2005, pag. 27.