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Comportamento

Il fascino Incomparabile dei Deserti

Ryszard Kapuscinski in “Lapidarium” scrive così: “Amo il deserto, ha qualcosa di metafisico. Nel deserto tutto il cosmo si riduce a pochi elementi. Il deserto rappresenta l’universo ridotto all’essenziale: la sabbia, il sole, le stelle di notte, il silenzio, il calore del giorno. Si hanno con sé una camicia, dei sandali, cibo frugale, un po’ d’acqua da bere, tutto nella massima semplicità. Niente si frappone tra te e Dio, fra te e l’universo.”
Ma cos’è di per sé il deserto? Un’ampia regione emersa con scarse precipitazioni e quindi vegetazione effimera e vita animale ridotta; in condizioni naturali scarsamente utilizzabile da parte dell’uomo. La parola “deserto” deriva dal latino deserere (abbandonare). Così i dizionari o le enciclopedie. Ma questo dice tutto e non dice niente. Perché i deserti, quelli dell’immaginario classico, sono sabbiosi, a dune (erg) o pietraie (hammada o serir). Ma si incontrano anche deserti costieri (Atacama o Kalahari), deserti interni continentali (Gobi) e deserti freddi (tundra). E il pack polare è anch’esso deserto. E desertiche sono le zone dove l’uomo non si è ancora fermato. Per traslato lo sono anche le giungle impenetrabili e le foreste pluviali. Deserti come luoghi dell’assenza, la contrapposizione alla stanzialità, alle coltivazioni. Eppure civiltà sono cresciute in ambienti inospitali, in deserti veri e propri.
Ma iniziamo dal deserto per antonomasia il Sahara. Si estende attraverso tutta l´Africa del Nord, dal Mar Rosso all´Oceano Atlantico, con un’ampiezza di 4.000 chilometri e una superficie totale di 8.600.000 kmq (quasi quanto gli Stati Uniti). Oltretutto, giorno dopo giorno, si allarga sempre più. Dal punto di vista geologico è uno scudo, la cui altitudine è compresa tra i 300 e gli 800 metri. Dici Sahara, che in lingua araba significa “grande vuoto”, e pensi ad una distesa di sabbia, ma in realtà il Sahara è coperto da sabbia solo per un quarto della sua estensione. Il resto è roccia. La sabbia si accumula a formare dune, che possono arrivare a toccare anche i 300 metri in altezza, nelle conche o vicino ai rilievi grazie ai fortissimi venti (harmattan). Questi venti originano talvolta dei campi molto estesi (erg) nei quali le dune sono allineate in lunghe catene dalle dorsali appuntite, separate da stretti canaloni. I più importanti erg si trovano nel Sahara algerino (Grande Erg Occidentale e Grande Erg Orientale), nel Sahara centrale (Erg Chech ed Erg di Libia) e nel Sahara meridionale (Ouarane). Sono dieci le nazioni toccate e nelle zone più calde si registrano temperature che normalmente superano i 50 °C e raggiungono, a volte, anche i 70 °C sulla sabbia. Il clima è naturalmente arido: la piovosità, pur variando da luogo a luogo, non supera normalmente il valore medio annuo di 100 mm. L’escursione termica è un fenomeno conosciuto, di notte durante l´inverno, nella parte settentrionale e centrale, possono anche verificarsi delle gelate.
Ciò che più colpisce l´immaginario collettivo sono le dune di sabbia ma il deserto non è mai uguale a se stesso: il paesaggio è assai vario e tutt’altro che monotono. Gli orizzonti si succedono, alle dune si contrappongono le piatte distese di ghiaia del reg, le barcane, le dune mobili dalle parabole sinuose a mezza luna disegnate dal vento, lasciano il posto alle rocce dai profili erosi, a pinnacoli e guglie, a rocce tondeggianti levigate dai granelli di sabbia, a pertugi e fenditure scavate dalla natura. Per non parlare dei massicci montuosi di origine vulcanica, alcuni dei quali molto elevati come il Tibesti nel Ciad (3415 m) e l´Hoggar in Algeria (2918 m), le cui rocce scure contrastano la linea dell’orizzonte. E poi i colori sempre mutevoli e diversi che dipingono il territorio.
Ma la vita nel deserto dipende in maniera assoluta dalle oasi e dalla possibilità di recuperare dell´acqua. Quando piove, soprattutto d´inverno, il deserto cambia immediatamente aspetto: si formano dei grossi corsi d´acqua che, nella maggioranza dei casi, si esauriscono in bacini interni chiusi (chot) senza arrivare al mare. L´acqua scorre nei letti prosciugati di fiumi (uadian), testimonianza di una idrografia pregressa e soltanto alcuni millenni fa qui vi era una vegetazione rigogliosa, con fiumi e foreste. Ne sono prova conchiglie fossili e ossa di animali e soprattutto migliaia di pitture rupestri che offrono un quadro vivido della vita preistorica nel Sahara. La riproduzione di scene di caccia al bufalo, all´elefante, alla giraffa, testimonia di come fosse un tempo la regione. La maggior concentrazione si ha nelle aree del Tassili algerino, dove si possono osservare anche gli ultimi esemplari di cipresso, ormai pochi e probabilmente destinati a scomparire (e fino agli inizi del ‘900 sembra accertata addirittura la presenza di coccodrilli) e dell’Akakus libico, tanto che l’UNESCO ha dichiarato quest’area, già parco naturale dal 1973, patrimonio culturale dell’umanità. Le acque piovane, quelle che non evaporano rapidamente a causa delle temperature elevate, si infiltrano nel terreno andando ad alimentare le falde acquifere di cui il Sahara è molto ricco. La stessa acqua, affiorando per vie naturali o tramite pozzi, consente agli abitanti del deserto di vivere. E poi ci sono le oasi, quando il terreno si abbassa fino ad incontrare la falda acquifera, gli unici punti del Sahara dove è possibile praticare attività agricole e creare insediamenti fissi che a volte arrivano ad ospitare 40-50 mila persone; sono anche delle stazioni importanti per gli spostamenti lungo le piste che attraversano il deserto.
Ma il Sahara è fatto anche di uomini, di nomadi. “Forse dovremmo concedere alla natura umana una istintiva voglia di spostarsi, un impulso al movimento nel senso più ampio”. Così Bruce Chatwin. E storicamente i popoli hanno trovato un impulso a muoversi quando le condizioni ambientali erano difficili, quando il permanere era problematico e incognito. E quale migliore esempio degli abitanti dei deserti?
Nel Sahara tutti conoscono i tuareg, gli uomini blu, per via del colore del telo con cui si avvolgono la testa ed il viso, per ripararsi dal vento e dalla sabbia, che lascia solo una stretta fessura per gli occhi. Furono molto riluttanti nel convertirsi all´Islam e, proprio per questo, gli Arabi li definirono toureg, che vuol dire abbandonati, nel senso di infedeli. Sono una popolazione gelosa della propria autonomia e, pur essendo islamici, sono strettamente monogamici ed affidano alla donna un ruolo importante. Le donne tuareg non portano il velo e viene affidato loro il compito di insegnare a leggere ed a scrivere e il tuareg, tra le lingue berbere, è l´unico ad avere una propria scrittura. Al giorno d’oggi sono 400mila, organizzati in confederazioni e sono stanziati nel sud dell´Algeria, nel Niger e nel Mali. Solo 50mila vivono nei limiti climatici del Sahara.
Ma se il Sahara è il paradigma di tutti i deserti, non è certo l’unico. Dall’altra parte del mondo quasi tutta l´Australia centrale, circa tre quarti dell´intero continente, è occupata da deserto e regioni semidesertiche per quasi tre milioni e mezzo di chilometri quadrati. Il deserto australiano è la somma di cinque deserti: il Grande Deserto Sabbioso, il Deserto Victoria, il Deserto Simpson, il Deserto Tanami e il Deserto Gibson.
La vegetazione è dominata da zone di eucalipti nani o macchie di acacia australiana. Al margine dei deserti vi sono formazioni aride con erbe perenni nella zona settentrionale con precipitazioni estive e con numerosi cespugli, specie verso sud dove la pioggia cade in inverno. Questo è il teatro de “Le Vie dei canti”, il libro di Bruce Chatwin che descrive come la loro terra, per gli aborigeni, sia tutta segnata da un intrecciarsi di queste Vie o “piste del Sogno”, un labirinto di percorsi visibili soltanto ai loro occhi. I Pintupi sono stati l’ultima “tribù selvaggia” a essere sloggiata dal deserto occidentale, niente più cacce ai canguri e agli emù, niente più ripari dietro i frangivento di spinifex: negli anni ’50 furono trasferiti a Popanji. Adesso l’arte astratta delle pitture di Stan Tjakamarra trova estimatori al Desert Bookstore.
Il deserto indiano, o Thar, si trova tra le montagne a ovest dell´Indo e si estende dalle coste del Mar Arabico quasi fino alle pendici dell’Himalaia. Si tratta di un bassopiano arido, ricoperto da un profondo manto di depositi trasportati dal vento e di natura alluvionale. Il monsone estivo passa nelle vicinanze a est e provoca precipitazioni in luglio e agosto. Ci vivono cammelli, pecore, capre e bovini e, tra i selvatici, asini, iene, sciacalli, volpi, lepri e conigli.
Il più arido del mondo è però il salar di Atacama, nel nord del Cile. Ci si arriva da Antofagasta, la città più importante del Norte Grande. Le sue miniere di salnitro erano uno dei luoghi più insalubri del pianeta, la vita appare impossibile anche adesso ma la terra riarsa è capace di fiorire per un giorno all´anno quando piove.
Per arrivare all’interno del famigerato Sahel, a Gorom Gorom, da Ouagadougou (abbreviato, anche dai nativi, in Ouaga) si devono percorrere più di trecento chilometri, di cui solo cento asfaltati. Siamo in Burkina Faso, la terra dei burkinabé, e il Sahel è famigerato per la lunga siccità che trent’anni fa causò la morte di intere popolazioni e di uno smisurato numero di capi di bestiame: la scarsa vegetazione non impediva alla polvere di inghiottirsi tutto. In novembre qui è primavera (cui seguirà a gennaio, febbraio e marzo una torrida estate) e il Sahel non è del tutto arido; quando arrivano le piogge, i barrages raccolgono laghetti con le acque dei quali irrigare i piccoli campi, fare il bucato, lavarsi ed anche abbeverare animali ed esseri umani. Gorom Gorom è la più grande città del Sahel. Il suo nome significa, in Songhai, “sedetevi, sediamoci”. Nel famoso mercato, fra un dedalo di case in mattoni banco (fango) e una serie di piccole moschee merlate, si vendono i generi alimentari tipici del deserto: datteri, lait caillé (latte cagliato) e tantissimi dolci.
Sir Thomas Edward Lawrence intitolò il suo libro “I sette pilastri della saggezza” e la roccia dei sette pilastri è proprio all´inizio del Wadi Rum, l’ambiente desertico, a metà strada fra Petra, la leggendaria capitale dei Nabatei scavata nell´arenaria rosata, e Aqaba, l´unico sbocco sul Mar Rosso. Siamo in Giordania ma qui sono famosi, nei dintorni di Amman, tra le colline centrali ed un terreno stepposo e quasi arido, anche i castelli del deserto. Furono quasi tutti costruiti nel VII secolo dai califfi ommayadi tranne il Qasr Azraq (il castello blu) utilizzato da Lawrence come quartier generale nella fase finale della rivolta araba contro i turchi.
Il deserto più misterioso? Quello di Nazca, in Perù. Dal mini aeroporto di Ica i piccoli aerei quattro posti (avionetas) portano verso la Pampa di San Josè, in mezzo al deserto, dove si trovano le celebri linee. La cultura Nazca si sviluppò fra l´inizio dell´era cristiana e il 600 d.c., il suo centro principale fu Cahuachi. Due gli elementi che la hanno resa celebre: la ceramica policroma e le linee sul deserto. Le ipotesi sul significato di queste enormi figure tracciate sulla sabbia sono numerosissime e alcune anche molto fantasiose.
Nel sud dello Yemen, l’Arabia Felix dei romani, la valle dell´Hadramaut racchiude villaggi di superba bellezza: Shibam, la Manhattan di fango, è la più celebre città araba islamica costruita in stile tradizionale: cinquecento edifici alti fino a otto piani tutti raccolti in poche centinaia di metri, vicini, attaccati l’uno all’altro. I palazzi sono costruiti con mattoni di fango e strutture di legno su fondamenta in pietra, la maggior parte sono cinquecenteschi, le porte sono in legno intagliato, come pure le serrature.
E il deserto più nebbioso? Quello del Namib, naturalmente in Namibia. La corrente a cui si deve questo fenomeno è quella del Benguela, il freddo fiume sottomarino proveniente dall´Antartico che, arrivando a contatto con le calde masse d´aria tropicali, determina l´umidità oceanica che va a formare la magica nebbia della Skeleton Coast, la Costa degli Scheletri, nome che le deriva dai numerosi relitti di imbarcazioni inesorabilmente arenate sulla spiaggia. Il Namib si estende su un´area di oltre 250.000 kmq, quasi come l´Italia, la maggior parte è un´area selvaggia e disabitata di dune di sabbia, montagne e pianure, su cui vivono iene e sciacalli. In quest’area si trovano le più alte dune sabbiose del mondo. Grazie alle nebbie mattutine in questo deserto si sviluppa una vegetazione tutta particolare: dal dollar bush, un cespuglio con foglie grasse a forma di moneta, al lithops una pianta che per difendersi dagli animali ha un aspetto di roccia e che si tradisce solo al momento della fioritura. E poi la Welwitschia mirabilis, un enigma botanico, un fossile vivente. Due grandi foglie dall´aspetto di cuoio che crescono da un gambo massiccio, lunghe fino a tre metri: queste foglie, crescendo, vengono sfrangiate e si dividono per effetto del vento e della sabbia del deserto: ve ne sono molti esemplari in località tenute segrete al turismo, ma una fotografabile è nei pressi di Swakopmund: il suo diametro è di sei metri. La Welwitschia presenta esemplari maschi e femmine, che occupano una valle (che da loro prende il nome) solitaria e quasi aliena. Il dato più impressionante è l´età che può superare i duemila anni.
Parlando di deserto non si può poi dimenticare il tenente Giovan Battista Drogo di Dino Buzzati e la sperduta fortezza Bastiani. Lì, ai confini col deserto, una guarnigione militare attende da mesi l´arrivo di un nemico che sembra non doversi mai materializzare. I Tartari, appunto.
Il deserto di Rub al Kali, in Arabia Saudita, è forse il più inospitale. Infatti non ci sono piste e il vento cambia in continuazione la forma e la disposizione delle dune di sabbia.
Ma tutto il mondo era deserto prima dell’arrivo dell’uomo. Ne sono rimasti sempre meno di luoghi dove non si fa sentire la pressione della civiltà. Sono quelli dove le stelle sono più brillanti nel cielo notturno.
A questo punto sorge la domanda logica del perché andarci. Sicuramente un viaggio nel deserto ha sempre un grande fascino, impossibile da dimenticare, ma anche difficile da raccontare senza finire nei soliti luoghi comuni. La motivazione la spiega bene Paul Bowles, ne “Il battesimo della solitudine” quando dice che “Una volta preda dell´incantesimo dello sconfinato, luminoso, muto paese, nessun luogo è per lui abbastanza intenso, nessun altro paesaggio può fornirgli la sensazione estremamente appagante di esistere nel mezzo di qualcosa di assoluto. Ci tornerà, a costo di qualunque spesa e di qualunque disagio, poiché l´assoluto non ha prezzo”.

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