Hollywood inizia ad interessarsi al tema del conflitto nel Sudest asiatico soltanto alla fine degli anni Settanta, cioè dopo il definitivo ritiro delle forze americane dal Vietnam (1973) e la cessazione delle ostilità (Saigon cade nell’aprile del ’75).
Il totale silenzio delle majors a proposito del Vietnam negli anni in cui la guerra è in corso e nel periodo dell’immediato dopoguerra si spiega, almeno in parte, con la tradizionale ritrosia dell’industria del cinema statunitense ad affrontare temi politicamente scottanti. I produttori hollywoodiani hanno sempre dimostrato grande prudenza nel finanziare film che trattino argomenti controversi, poiché possono andare incontro a polemiche o addirittura a forme di boicottaggio, cosa molto pericolosa sul piano economico. Si tratta insomma di un silenzio dettato da ragioni esclusivamente finanziarie e non politiche, tant’è che le grandi case californiane non realizzarono film né a favore né contro l’intervento n Vietnam. Ovviamente l’assenza di film sul tema del Vietnam tra il 1964 e il biennio ’78-’79 non può essere spiegata soltanto con la tradizionale riluttanza delle grandi case di produzione a toccare argomenti controversi. L’altra ragione è certamente rappresentata dal fatto che i principali registi dell’epoca trovavano difficile parlare in maniera diretta di un argomento così violentemente dibattuto nel paese: finchè l’America è spaccata in due tra pacifisti e interventisti del conflitto, il Vietnam si configura come un soggetto poco adatto per chi non voglia chiudersi in un progetto di cinema esclusivamente militante.
Alla fine degli anni Settanta la ferita del Vietnam, per quanto lungi dall’essere rimarginata, inizia a bruciare di meno, per cui il cinema può finalmente cominciare a lavorare attorno a questo argomento. La prima ondata di film che affrontano direttamente il tema della dirty war arriva nel biennio ’78-’79, quando escono Il cacciatore di Michael Cimino e Apocalypse now di Francis Ford Coppola. Anche, e forse soprattutto, a causa della presenza di una enorme quantità di immagini documentarie sulla guerra del Vietnam prodotte dalla televisione, Cimino e Coppola compiono la scelta strategica di collocarsi non solo al di fuori della tradizione del war film, ma più in generale al di fuori di ogni ipotesi di tipo mimetico. I due film, infatti, rifiutano di raccontare la guerra attraverso i codici del realismo, che sono caratteristici del genere bellico, optando rappresentazione simbolica. Apocalypse Now e Il cacciatore non sono film di guerra canonici, sin dall’organizzazione della vicenda, che manca della tripartizione tradizionale del racconto di guerra novecentesco: 1) addestramento; 2) arrivo al fronte, battesimo di fuoco e perdita dell’innocenza; 3) rigenerazione attraverso la violenza: l’eroe tipico del film bellico è la giovane recluta inesperta che alla fine della vicenda, dopo una serie di ardue prove, si sarà trasformata in un duro combattente.[1] Quelli di Apocalypse now e de Il cacciatore, invece, sono eroi maturi: per loro il Vietnam è certo un percorso doloroso di formazione, ma non è un rito di passaggio nel senso classico del termine, perché essi sono già adulti. Nella sequenza di apertura di Apocalypse now il capitano Willard (Martin Sheen) racconta subito il suo passato da combattente e dice di aver divorziato dalla moglie, cui ha preferito un’ascetica esistenza di guerra.
“Quando ero a casa, dopo il mio primo anno era anche peggio: mi svegliavo e c’era il vuoto. Quando ero lì volevo essere là, quando ero là non potevo pensare ad altro che tornare nella giungla. A mia moglie non dissi una parola finché non dissi “sì” al divorzio”.
Nella scena di poco successiva, in cui riceve l’ordine di assassinare il colonnello Kurtz (Marlon Brando), l’atteggiamento di Willard verso il generale che gli spiega le ragioni della missione è freddo e distaccato: egli è ancora un membro dell’esercito americano ma si rende già pienamente conto dell’ipocrisia e della follia che ne ispirano le azioni. Il “peccato” di Kurtz, il motivo per cui ne viene decretata la messa a morte, è infatti il suo rifiuto della falsa morale della “guerra giusta”. Kurtz combatte – e vince – la sua guerra con una spietatezza analoga a quella degli americani ma rifiuta di nascondersi dietro una falsa ideologia, come la morale lincolniana degli “angeli della coscienza” cui fa riferimento il generale del comando Nha Trang o il gesto del colonnello Kilgore (Robert Duvall) che rade al suolo un villaggio e poi si ferma a dare da bere ad un Vietcong ferito, per sottrarre subito la borraccia dalla bocca del moribondo non appena la sua attenzione è attratta dalla presenza del campione di surf Lance. Per Willard l’incontro con Kurtz è certamente un’esperienza sconvolgente, che cambierà il suo modo di concepire la guerra e la vita stessa, ma il personaggio si configura sin dall’inizio come un veterano pieno di dubbi e di incubi. Il protagonista di Apocalypse Now risale il fiume Nung per “ascoltare la parola” di Kurtz e questo incontro farà di lui un altro uomo, ma egli è predisposto alla metamorfosi fin dall’inizio. Allo stesso modo, in Il cacciatore Mike (De Niro) e i suoi amici Steve (John Savage) e Nick (Christopher Walken), benchè siano coscritti e non soldati di professione come Willard, sono comunque uomini che hanno esperienza della durezza della vita: quando partono per il Vietnam essi si lasciano alle spalle un grigio paese della provincia operaia, dominato da un’enorme fabbrica di cui sono tutti dipendenti. Il film si apre proprio sull’immagine delle spaventose fucine dello stabilimento che paiono anticipare i fuochi del Vietnam.[2] Non solo, ma questi blue collars prossimi a divenire soldati hanno già confidenza con la morte in quanto cacciatori. La logica del “colpo solo” che Mike applica nella lotta con il cervo è la stessa che guida la roulette russa che dovranno fare in Vietnam.
“Uccidere o morire in montagna o nel Vietnam – afferma Mike prima di partire – è esattamente la stessa cosa”, l’unica condizione è che ciò avvenga lealmente, con un colpo solo, perché il cervo non ha il fucile. Mike è dichiaratamente il capo, il leader rispettato – anche se spesso incompreso – del gruppo. Da subito Mike è colui che scommette e vince, come più avanti farà al tavolo della roulette russa, quando grazie alla sua freddezza – una freddezza imparata ben prima del Vietnam, nella dura disciplina della fabbrica e della caccia – riesce ad uccidere i torturatori vietnamiti e a fuggire dalla prigione sul fiume.
Dunque, il retroterra di Apocalypse Now e Il cacciatore non è rappresentato dal genere bellico e va invece ricercata nella tradizione del romanzo americano. Apocalypse Now è ispirato a Cuore di tenebra di Joseph Conrad[3], ma il film si rifà ad una vasta gamma di testi letterari e soprattutto attinge all’immaginario del romanzo americano ottocentesco – da Cooper a Melville a Twain – incentrato sulla figura di un uomo bianco in fuga dalla civiltà, il quale, in compagnia di un “selvaggio” (a seconda dei casi un pellerossa, un polinesiano, un nero), si inoltra in un territorio incontaminato, la wilderness di cui l’altro è espressione fisica. In Apocalypse Now la giungla non si presenta mai come un luogo reale, connotato in termini tattici e geografici, un ambiente in cui un esercito occidentale ha difficoltà ad operare. Nel film di Coppola, la massa scura degli alberi si configura come il simbolo di una natura arcaica e terribile che si fa beffe dell’uomo bianco. Non per niente, in Apocalypse Now l’unico scontro che avviene nella giungla è rappresentato dall’episodio della tigre – simbolo esplicito della wilderness – che mette in fuga Willard e Chef (Frederic Forrest).
Il cacciatore si rifà alle medesime fonti di Apocalypse Now, a partire dal titolo, che richiama apertamente quello di un romanzo di James Fenimore Cooper: The deerslayer, del 1841. Mike si appresta a partire per la caccia e subito dopo per il Vietnam, e la cultura con cui si prepara ad affrontare queste esperienze è quella dei primi colonizzatori bianchi dell’America del Nord. Mentre gli altri suoi compagni praticano la caccia con la volgarità e la sciatteria propria degli abitanti della città, Mike affronta la preda con il rispetto e la serietà di un eroe antico. Per Mike la caccia è una complessa danza sacra, un’attività spirituale oltre che fisica. L’ossessione per questo codice etico porterà Mike ed il suo compagno Nick – l’unico con cui Mike provi piacere a cacciare – a rimanere preda dell’incantesimo della roulette russa. Non solo Nick, traumatizzato dall’esperienza della prigionia, continua a giocare al terribile gioco fino alla morte, ma anche Mike, mentre è in licenza a Saigon, va ad assistere agli “spettacoli”. Per Mike il Vietnam è un ritorno alle origini dell’uomo americano, un’immersione in un’esistenza incentrata sulla ritualizzazione della morte.
È chiaro che se questo è l’orizzonte culturale in cui si muovono Coppola e Cimino, la rappresentazione della guerra del Vietnam non può che risultare molto lontana dalla realtà storico-politica di quell’evento. In Apocalypse Now il conflitto del Sudest asiatico viene presentato come un enorme show. Tutto il viaggio di Willard lungo il fiume è costellato di “spettacoli”: la danza di Clean (Larry Fishburne) sulle note di Satisfaction, l’attacco degli elicotteri di Kilgore con il sottofondo della Cavalcata delle Valchirie, la performance delle “conigliette” di Playboy. Se la guerra del Vietnam è stata la prima guerra in diretta televisiva, le cui immagini hanno occupato i salotti delle case degli americani per anni, allora il modo migliore per raccontare quell’avvenimento è l’esibizione dell’artificio. Il problema del rapporto con il mezzo televisivo è esplicitamente affrontato nella scena in cui Willard incontra Kilgore. Il capitano scende a terra e si imbatte in una troupe televisiva che sta riprendendo l’azione, chiedendo ai soldati di “recitare”: “Non guardate in macchina, non guardate in macchina. Andate avanti come se combatteste, come se combatteste!”, urla il regista. La presunta obiettività della televisione – ci dice Coppola – si basa su una menzogna: ogni immagine audiovisiva, anche quella più realistica, non è nient’altro che una finzione. Da qui la scelta di optare per una rappresentazione della guerra in Vietnam come se fosse il più grande show della terra.
Ne Il cacciatore la guerra in senso stretto occupa appena tre minuti. Per il resto, la rappresentazione del conflitto passa esclusivamente attraverso la metafora della roulette russa, lucida visualizzazione del dramma di una nazione che si autodistrugge e che non è in grado di uscire dal meccanismo di morte che ha messo in moto e di cui è rimasta prigioniera.
Dopo l’exploit di Coppola e Cimino, Hollywood inizia a prestare attenzione alla guerra del Vietnam. Gli anni ottanta vedono una vera e propria fioritura dei Vietnam movies, che finiscono per configurarsi come uno dei filoni principali della produzione del periodo. Questo prepotente ingresso del tema del Vietnam nell’immaginario Hollywoodiano è certamente dovuto, da un lato, al successo de Il cacciatore e di Apocalypse Now, e dall’altro al fatto che ormai il trauma della sconfitta inizia a stemperarsi. Ma l’emergere del Vietnam come soggetto in primo piano del cinema americano degli anni Ottanta si spiega anche con il clima di orgoglio patriottico creato dalla presidenza Reagan e il conseguente riaprirsi del dibattito politico sul Vietnam, dopo anni di silenzio e rimozione del problema. Il reaganismo genera un processo di revisione del giudizio storico-politico del Sudest asiatico: il Vietnam non è più una pagina oscura che bisogna dimenticare in fretta, bensì un episodio glorioso in cui i soldati americani si sono fatti onore. In questo filone si inseriscono film come Rambo II, che, a differenza del primo, si presenta come un’opera decisamente bellicista, intrisa di virulento spirito di rivincita, oppure Rombo di tuono (di Joseph Zito)o Missing in action (di Lance Hool), entrambi del 1984: nel complesso si tratta di film a basso costo, interpretati da attori di terz’ordine, che mischiano i clichès del war film classico con il film d’azione, avendo come riferimento le fasce più giovani e meno esigenti del pubblico.
Ma il filone “reaganiano” rappresenta soltanto una parte del Vietnam Movie. Accanto a queste produzioni troviamo infatti film di registi dalle qualità incredibili, come ad esempio Full metal Jacket di Stanley Kubrick. Rispetto ai due film che abbiamo in precedenza analizzato, i Vietnam movies degli anni ’80 segnano un ritorno deciso alla tradizione del war film. Da questo punto di vista l’opera di gran lunga più interessante è proprio il film di Kubrick, tratto da un romanzo di Gustav Gasford, The Short-Timers[4], un’espressione gergale che indica coloro che hanno qusi terminato la ferma in Vietnam. Scegliendo il romanzo di Hasford, Kubrick opta per un romanzo “di genere”, facendo così la scelta opposta a quella di Coppola e Cimino. Kubrick vuole collocarsi deliberatamente all’interno della tradizione – letteraria e cinematografica – del racconto di guerra. Nel complesso, il film si mantiene molto fedele al libro: i personaggi principali sono gli stessi, quasi tutte le scene del film derivano da pagine del romanzo. Ovviamente, per la differenza di tempi narrativi Kubrick è costretto a tagliare e a condensare, ma nel complesso il film è estremamente aderente al testo letterario di partenza. La variazione sostanziale che più salta all’occhio è la follia di Palla di Lardo: nel film solo lui soffre di questa malattia, mentre nel libro tutti i membri del reparto sono vittime di allucinazioni. Un’altra grossa differenza con il testo letterario è l’eliminazione della battaglia della giungla: Kubrick fa morire Cowboy tra le rovine di Hue, e non in mezzo alla foresta durante una ricognizione. Il regista compie questa scelta probabilemente per sovvertire il canone del Vietnam Movie, per escludere dalla propria opera quel luogo in cui naturalmente sono ambientati questi film. Benchè Kubrick ricostruisca uno scontro verificatosi realmente, e lo faccia con l’attenzione al dato storico-filologico, lo spettatore rimane spiazzato ed ha quasi l’impressione di trovarsi di fronte ad un film sulla Seconda Guerra Mondiale, perché i marines combattono in mezzo ad edifici anziché in mezzo a una vegetazione tropicale.
Alla fine del film, benchè il protagonista Jocker sia un personaggio “eccentrico”, estraneo alla logica militare (la sua graffiante ironia verso i rituali dell’esercito è costante), cede alla morale del corpo dei marines e parte all’assalto della soldatessa vietnamita che ha freddato Jocker. Il finale di Kubrick è quindi conforme al canone perché accetta le regole del genere bellico: non si può non vendicare il compagno morto. Ed è anche disperato perchè attesta l’impossibilità di ribellarsi alla cultura autodistruttiva dell’esercito. Jocker si uniforma infatti alla logica del branco e canta “Welcome to the club”, che, in gergo, significa “entrare in una confraternita”: nonostante le sue freddure – con cui cerca disperatamente di distinguersi dagli altri – egli viene assimilato dalla massa. Full metal jacket, insomma, conserva un elemento chiave del racconto di guerra: la lealtà verso i commilitoni. Ma al contempo il testo svuota dall’interno in senso di quei valori. Nella sequenza finale Jocker e gli altri marciano fieri nella notte, dopo aver vinto il nemico, ma non cantano l’inno dei marines, bensì quello di Topolino.