Una ricognizione del cinema di “ritorno dal Vietnam” deve passare attraverso una delimitazione dei campo d’intervento. Non potendo proporre un elenco prolisso di opere che contengono reduci come personaggi, vorremmo concentrarci su una tipologia di film che hanno preso corpo dalla figura del reduce stesso.
Il cinema del ritorno a casa dal Vietnam costruisce il loro racconto sull’esperienza specifica del reinserimento, della vita quotidiana, delle ambizioni e disillusioni dei reduci.
Ci sono due pellicole, piuttosto interessanti, che non incentrano completamente la storia sul passato del protagonista in Vietnam, ma ne fanno piuttosto un punto cardine del dispiegarsi del film. Parliamo di Forrest Gump[1] di Robert Zemeckis e de Il Grande Lebowski[2] di Joel Coen.
Il primo, infatti, non è un film esclusivamente dedicato al ritorno dal Sudest asiatico, ma ospita una larga parte ambientata in Vietnam, e una, altrettanto importante, sul reinserimento dei soldati. Forrest, il protagonista, salva in battaglia la vita del tenente Dan, che, invece, chiedeva solo di morire. Se Gump, personaggio surreale, attraversa tutta la storia americana da protagonista senza volerlo[3], Dan diventa un po’ il suo “contropersonaggio” affrontando numerosi drammi (alcolismo, abbandono, psicosi), prima di riacquistare la propria forza grazie a Gump e a una gamba nuova.
In Forrest Gump, la guerra del Vietnam è un episodio “neutro” della lunga, incredibile storia americana, ma da essa si trovano molti spunti di riflessione con i loro relativi collegamenti di tipo narrativo e linguistico.
La cultura bellica che distingue la società americana, il coinvolgimento degli afroamericani nell’evento bellico, il ruolo delle istituzioni (esercito e politici) e la loro ottusità, le proteste ed i movimenti per la pace, il tutto concentrato in una sorta di “film nel film”[4] che influenza poi il resto della pellicola con segno più o meno positivo a seconda dei personaggi che si trova a toccare.
I toni del war movie classico si manifestano spiccatamente soprattutto in alcune scene (basti pensare all’episodio ambientato nell’ospedale militare dove Forrest trascorre la propria degenza: il luogo si contraddistingue per la cura e la pulizia dedicatogli), mentre, quasi come in contrapposizione, le parole pronunciate dal protagonista o le azioni che si trova a compiere o subire, pur nella loro appartenente ingenuità, mettono in evidenza quello scarto di senso che ha contraddistinto quanto hanno detto o scritto gli oppositori al conflitto vietnamita.[5] Mentre il personaggio di Forrest non viene investito, se non tangenzialmente, da alcuno degli attributi del veterano, questa funzione viene fatta assumere dal ruolo interpretato dal tenente Dan.
Di questo ruolo si deve sottolineare soprattutto l’insistenza sugli iniziali rabbiosi rimpianti per essere stato strappato alla morte da Forrest: una morte naturalmente eroica, ottenuta sul campo. La rabbia del tenente introduce la fulminante nota (un brevissimo montaggio che mostra le successive “cadute sul campo” di vari antenati del tenente sui fronti delle principali guerre che abbiano visto la partecipazione o la presenza americane), attraverso la quale, il film illustra la connotazione di un’identità bellica con la quale si è contraddistinta la civiltà americana di questo secolo[6]. Essa, se la mettiamo a confronto con il destino che, invece, il Vietnam riserverà al personaggio, può a buon diritto essere considerato una sorta di “montaggio” di una cultura che con il conflitto asiatico si è trovata di fronte per la prima volta:
“Negazione della legittimità ideale di una guerra intrapresa, lacerante coflittualità interna collegata allo smascheramento dei vizi del sistema politico, fallimento dei modelli bellici […], sconfitta della tecnologia; prima ancora che la sconfitta di fatto giungesse a suggellarne la traumaticità, questi fattori resero il conflitto del Vietnam un’esperienza profondamente diversa rispetto ad ogni altra guerra precedentemente combattuta dagli Stati Uniti”.[7] Proprio come il destino di Dan rispetto a quello dei suoi familiari che lo avevano preceduto.
Un altro dei compagni del protagonista, il commilitone nero Bubba, con il proprio ruolo sacrificale, consente di sottolineare un altro degli elementi che il film di Robert Zemeckis sviluppa, pur nella coesione dell’episodio ambientato in Vietnam: il particolare rapporto che lega la comunità afroamericana e la “sporca guerra”. Il destino di Bubba, la morte sul campo, è un elemento comune a molti afroamericani che, statisticamente, nel conflitto erano il gruppo sociale più numeroso presente nelle prime file dei combattenti.
Con gli anni, nel solco delle radicali posizioni espresse in merito da Malcom X, per fare un esempio, la cultura nera americana è arrivata a sviluppare un rapporto che sarebbe eufemistico definire conflittuale nei confronti del Vietnam. Essa è percepita sempre più come la “guerra dei bianchi” combattuta da “fratelli neri” con conseguenze micidiali sull’integrità stessa della comunità afroamericana. Ancora il Vietnam come “cesura”, come il luogo oscuro dal quale si sono generati, ad esempio, il mercato della droga o la violenza metropolitana.
Infine, per quanto riguarda l’episodio vietnamita, un altro elemento di interesse sottolineato in Forrest Gump, è, come detto, la trattazione delle vicende concernenti il fronte interno della guerra con le sue marce per la pace, le fughe in paesi neutrali per i giovani renitenti fino a forme di lotta ancora più ideologizzate e radicali. Anche in questo frangente, la figura di Forrest non assume i connotati più tipici delle prese di coscienza di molti reduci nella loro rappresentazione cinematografica, mantenendo per so la propria dimensione di testimone degli eventi che si succedono sempre più caotici intorno a lui.
Lo stesso discorso che viene invitato a tenere davanti alla folla di manifestanti che picchettano il Campidoglio a Washington, viene in fondo “agito” da un militare che, cercando di sabotare la manifestazione, rende incandescenti le innocue parole del protagonista.
Molto interessante – e merita un accenno – è la figura del reduce di Il Grande Lebowski dei fratelli Coen. Il loro film si dichiara “summa” della controcultura statunitense del dopoguerra. Il personaggio Walter, interpretato da John Goodman, che si prende carico della dimensione comica del film, è un clamoroso, quasi unico, esempio di veterano “ridicolo” del cinema americano. Non c’è traccia, nel film dei Coen, di codici melodrammatici, ma il reduce di Il Grande Lebowski è quello che ha sedimentato peggio i traumi del passato e la percezione della guerra in Vietnam. Rissoso, fascista, paranoico, rischia più volte di farsi uccidere e finisce con diventare un personaggio “patetico” incapace di reinserirsi, opponendo sempre ad ogni situazione una retorica da giovane guerriero del passato. Walter, non perde occasione per ricordare insistentemente la sua esperienza in Vietnam, ma il modo che ha di esprimersi, e soprattutto il fatto di ricordare in maniera esasperata quella sua esperienza, lo rende grottesco e alquanto bizzarro. È un repubblicano d’assalto (siamo ai tempi della guerra del Golfo), più che mai convinto che con la forza o una pistola si risolve tutto. E anche quando gioca a bowling, il suo passatempo preferito, non perde l’occasione per ribadire: “Questo è il bowling. Non è il Vietnam. Ci sono delle regole da rispettare”
Claudia Maggini
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