Così come tutti i mammiferi superiori, l’uomo appartiene ad una specie che potremmo definire sociale, in grado di interagire con i suoi simili migliorando le proprie condizioni di vita. La comunicazione all’interno della specie caratterizza tutti i primati, che sono tendenzialmente portati alla relazione sociale in virtù del sistema dell’attaccamento che è innato in loro.
A tal proposito ogni specie ha delle proprie forme di comunicazione, dai gesti alle espressioni facciali, dai suoni all’emissione di odori, sino al linguaggio verbale tipico della specie umana.
Sappiamo che l’uomo, a differenza degli altri primati si è evoluto nei milioni di anni trascorsi dalla sua origine, adattando l’ambiente alle proprie esigenze ed inventando, grazie alla rappresentazione mentale, sempre nuove soluzioni ai problemi emergenti. La cosa straordinaria sta, poi, nell’aver tramandato culturalmente queste innovazioni alle generazioni successive che, di volta in volta, si trovano in possesso di un “bagaglio” culturale e scientifico incrementato, a tutto vantaggio della specie.
Bisogna allora chiedersi se tutto ciò sia dovuto al solo fatto di possedere un cervello incommensurabilmente superiore, in termini di capacità intellettive, o se si debbano considerare come fondamentali anche altri aspetti.
Per evidenziare il “salto qualitativo” che ha compiuto il cervello umano durante l’evoluzione, si può citare l’esperimento sulle scimmie condotto nei primi anni del 900 da Köhler, noto esponente della teoria della “Gёstalt”. Gli scimpanzé, appositamente chiusi all’interno di gabbie, avevano il compito di riuscire ad afferrare una banana posta all’esterno della gabbia ad una determinata distanza, utilizzando come strumento due canne di diverso diametro e tali per cui l’estremità di una potesse entrare nell’altra in modo da creare uno strumento adatto a raggiungere il frutto. Nel caso dello scimpanzé Sultano descritto da Köhler, dopo un’ora di tentativi falliti che vedevano l’animale utilizzare alternativamente le due canne senza ottenere risultati capitò che mentre teneva, per caso, una canna in ciascuna mano davanti a sé, in modo da farne combaciare le estremità, spinse l’una all’interno dell’altra e subito saltò verso le sbarre dirigendo lo strumento in direzione della banana posta all’esterno della gabbia. Si verificò ciò che Köhler chiamò “Einsicht”. Sultano aveva imparato, dopo una serie di prove ed errori, a risolvere il problema. Di fronte a successive presentazioni di situazioni analoghe, non esitava, di fatto, ad unire le due canne per prendere qualsiasi cosa.
Pur mostrando una forma di pensiero intelligente nella risoluzione del problema dato, tali animali non sono, però, in grado di fare ciò che per noi è normalissimo. L’uomo trasmette agli individui della sua stessa specie le conoscenze acquisite, e lo fa con i più svariati mezzi di comunicazione, dal linguaggio verbale ai segni, sino al linguaggio scritto, grazie al quale lascia tracce di sé alle future generazioni. Lo scimpanzé di Köhler aveva sì compreso come risolvere il problema, ma non sarà mai in grado di trasmettere tale conoscenza acquisita ai propri simili, tanto meno alle generazioni future. L’uomo, invece, grazie allo sviluppo di processi psichici superiori, è portato per sua natura alla socialità, a condividere le proprie esperienze e conoscenze con i suoi simili.
Quali sono, allora, i processi che hanno permesso una siffatta evoluzione?
Se alcuni processi psicologici sono riscontrabili, pur con le loro diversità, sia nell’uomo che nell’animale (es. percezione e memoria), altri, come il linguaggio verbale, sono prerogativa esclusiva dell’essere umano.
Non bisogna difatti confondere la comunicazione in genere, presente in tutti i mammiferi superiori, con il linguaggio verbale che, pur essendo una forma di comunicazione, non è riscontrabile in altre specie animali, a differenza del pensiero. Di certo l’uomo non è il solo essere pensante, e le scimmie di Köhler ne sono un esempio, ma è l’unico in grado di “codificare” un pensiero in un suono che diventa linguaggio e che rappresenta un concetto mentale. Il suono assume quindi un significato ben preciso, appunto un concetto che viene trasmesso per via culturale.
In tal senso ogni evento della natura, sia esso appartenete al soggetto o no, assume un significato mentale che, grazie al linguaggio, può essere comunicato ad altri individui che a loro volta rielaborano l’informazione e la trasmettono nuovamente.
Si può, pertanto, affermare che è anche grazie al linguaggio verbale che l’uomo ha sviluppato un pensiero sempre più produttivo di soluzioni ai problemi emergenti, giungendo così a nuove conoscenze e migliorando quindi le proprie capacità intellettive.
A tal proposito, il noto psicologo russo dei primi del Novecento, Lev S. Vigotskij, elaborò il concetto di “zona di sviluppo prossimo” indicando con essa: “quell’area di attività mentale che il bambino può produrre con l’aiuto degli adulti, (soprattutto gli insegnanti) e che viene ad aggiungersi all’attività mentale che può produrre da solo. Mentre quest’ultima attività dipende fondamentalmente dalla maturazione ontogenetica, l’attività mentale socialmente mediata anticipa e si sgancia da tali tappe maturazionali. Con l’aiuto dell’adulto, il bambino produce una prestazione cognitiva che, da solo, produrrebbe in una fase successiva (prossima) del suo sviluppo.
In generale, la “Zona di Sviluppo Prossimo” è l’area compresa tra la prestazione spontanea del bambino e la prestazione migliorata per l’introduzione di stimoli-mezzo”.
Gli stimoli mezzo rappresentano tutti quei prodotti forniti da un determinato ambiente culturale ai propri appartenenti che li riconoscono e li condividono. L’esempio più eloquente è dato dalla scrittura, estensione naturale del linguaggio verbale, che è un prodotto della cultura.
Risulta, a questo punto, evidente l’importanza del linguaggio e della comunicazione all’interno della stessa specie, per far emergere le potenzialità intrinseche dell’individuo.
Pur apparendo un processo del tutto spontaneo ed ovvio, lo sviluppo del linguaggio è sempre stato fonte di dibattito, tra psicologi come tra linguisti. Già all’inizio del secolo, Jean Piaget e Lev S. Vygotskij, si erano “scontrati” in merito alla genesi ed alle funzioni iniziali del linguaggio, nell’ambito dello studio della sua formazione nel bambino. A tal proposito Vygotskij, al contrario di Piaget, intuì come sin dalle prime parole il linguaggio infantile avesse una funzione sociale.
Allo stato attuale sono principalmente le neuroscienze a studiare i processi cerebrali che sottendono la formazione del linguaggio.
Pur essendo gli organi della fonazione situati nella cavità orale e nella trachea – in modo tale per cui il suono è prodotto dall’aria espulsa dai polmoni che attraversa la laringe e l’epiglottide determinando la vibrazione delle corde vocali – il motore del linguaggio è situato a livello cerebrale, al contrario di quanto sostenuto dagli antichi greci e dai romani, i quali credevano che la parola fosse controllata dalla lingua. Precisamente la corteccia cerebrale dell’emisfero sinistro comprende aree specializzate per il controllo della parola sia nei destrimani sia nei mancini.
Solo nel corso del XX° secolo è emersa una chiara relazione tra cervello e linguaggio ed è grazie ai primi studi condotti sull’afasia che è stato possibile individuare le aree cerebrali deputate alla produzione di esso.
Il neurologo francese Paul Broca nel 1861 individuò nella regione del lobo frontale sinistro l’area fondamentale per l’articolazione del linguaggio, c.d. area di Broca.
Il suo lavoro fu la prima chiara dimostrazione che le funzioni cerebrali possono essere localizzate anatomicamente. Qualche anno più tardi – 1874 – il neurologo tedesco Karl Wernicke affermò che lesioni all’emisfero sinistro, localizzate nell’area posta sulla superficie superiore del lobo temporale, tra la corteccia uditiva ed il giro angolare, portavano a disturbi nel linguaggio parlato.
L’esistenza di diversi tipi di afasie suggerisce che il linguaggio viene elaborato a diversi livelli e in diverse aree cerebrali. Studi al riguardo mostrano che le lesioni cerebrali producono afasie che vanno da lievi alterazioni del parlato alla sua completa eliminazione.
Il linguaggio umano va pertanto considerato uno straordinario sistema di comunicazione, incredibilmente complesso e flessibile, imparagonabile alle rudimentali forme comunicative riscontrabili negli animali. Le scimmie, ad esempio, utilizzano una varietà di suoni, gesti ed espressioni facciali nell’interazione sociale, al solo fine di comunicare situazioni di pericolo, avvertimenti per i propri avversari, rivendicazione di territori ecc. Il linguaggio umano, al contrario, è un sistema creativo in continua evoluzione ed espansione, limitato dalle sole regole grammaticali; si stima che vi siano circa 10.000 lingue e dialetti nel mondo.
Anche se non tutti concordano nel ritenere che la specie umana sia l’unica dotata di linguaggio, questo non va confuso con l’intelligenza. Come già detto, le stesse scimmie dimostrano di possedere, pur con i loro limiti, un ragionamento astratto e un pensiero produttivo pur in assenza di una forma di linguaggio.
L’uomo non sarà l’unico essere dotato di intelligenza, ma di certo è l’unico a possedere un linguaggio. Steven Pinker nel suo libro The language Instinct paragona il caso del linguaggio a quello della proboscide dell’elefante. “La proboscide è una caratteristica importante per l’elefante ed è essenziale per il suo modo di vivere, eppure non ci sono altri animali viventi con forme minori di proboscide. Solo l’elefante la può vantare, così come solo gli esseri umani possono dire di possedere un linguaggio”.
Concludendo, dobbiamo considerare lo sviluppo della capacità al linguaggio verbale nel cervello umano, una delle caratteristiche fondamentali che ha contribuito a rendere la nostra specie superiore alle altre.