Hollywood, non solo ha compiuto l’ambigua trasposizione del pericolo e della minaccia agli Stati Uniti nei cieli e nei Mondi sconosciuti e lontani, ma ha anche “creato” guerre immaginarie, mai combattute: ha ideato guerre al solo scopo di riportarle sullo schermo cinematografico. Pochi, ma suggestivi, sono i titoli che appartengono a questo filone, ma senz’altro il più pungente è La seconda guerra civile americana[1], di Joe Dante. black-comedy frutto del connubio tra il regista, lo scrittore canadese Martyn Burke e il produttore Barry Levinson. Sebbene la commedia sia stata realizzata per la messa in onda sull’emittente televisiva HBO, non è affatto televisiva e questo ha convinto la Mikado a portarla nelle sale.
Il film si apre con la voce fuori campo di Jim Kalla – mentre la macchina da presa fa un lungo piano sequenza della redazione del canale tv Newsnet – , che dice: “Ho paura che non sempre i fatti conducano alla verità”.
Jim Kalla nel film, rappresenta la figura del giornalista ancorato ad un’idea della professione “alla vecchia maniera”. Un giornalismo, quello di Kalla, deontologicamente corretto e pertanto improntato alla ricerca dell’obiettività e della verità dei fatti.
Proprio in questa scena egli introduce il motivo chiave del film di Dante, ovvero il travisamento della realtà da parte dei mass media allo scopo di creare un sensazionalismo volto a calamitare la curiosità dei telespettatori a vantaggio di un alto share.
In questa scena possiamo riscontrare il confronto diretto tra due concezioni opposte della professione giornalistica, in rapporto anche a due epoche diverse, dato che solo di recente (questo il sottinteso del regista) l’informazione, a causa delle tecnologie di comunicazione, ha subito un incremento tale da condurre ad una indistinta massificazione della stessa. È il personaggio di Mel Burges, cinico produttore esecutivo del canale Newsnet, a sottolineare questa differenza, ricordando il suo più anziano collega Kalla, ai tempi in cui lavorava alla ABC, come esempio di dignità, coerenza e trasparenza nella professione, e concludendo in modo a dir poco eloquente: “Pensai all’epoca: allora è possibile fare giornalismo senza diventare il cinico ingranaggio di qualche fetida società!”. Ma subito dopo aggiungendo che si trattata però di un’illusione. La Seconda Guerra Civile Americana racconta cosa potrebbe essere dell’America in un futuro non troppo lontano se, ad esempio, qualcuno decidesse di dire basta all’ingresso degli immigrati nella “Terra della Speranza”. E il film si apre proprio con la decisione del conservatore Governatore Farley (Beau Bridges) di chiudere le frontiere del suo Stato, l’Idaho, agli immigrati. La notizia fa grande scalpore, perché gli immigrati in questione sono un gruppo di orfani pakistani sfuggiti alla guerra tra l’India e il Pakistan. Le reti televisive fanno a gara per coprire l’evento e sbatterlo in prime time, mentre alla Casa Bianca il Presidente (Phil Hartman) convoca lo stato d’emergenza, chiamando a sé i suoi più efficenti collaboratori tra cui spicca Jack Buchan, guru delle pubbliche relazioni e potente lobbista. Col passare delle ore la situazione si fa sempre più calda, il famoso ’melting pot’ inizia a sgretolarsi, il Sogno Americano crolla rovinosamente. E tutto questo è seguito minuto per minuto dalla imponente redazione della rete televisiva NewsNet diretta da un nervosissimo direttore (Dan Hedaya) e da un capo redattore con frequenti crisi di coscienza (Ron Perlman). Il film si conclude in maniera grottesca e drammatica, solo perché una singola parola pronunciata dal Governatore dell’Idaho viene fraintesa e riportata subito sui Network televisivi. Si scatena in questo modo la Seconda Guerra Civile Americana: A questo punto scorrono sui monitor della redazione le immagini delle atrocità dei combattimenti e degli scontri tra i soldati; i giornalisti assistono ora attoniti al disastro che loro stessi hanno contribuito a creare.
Attraverso lo strumento della satira mordace e tagliente il film concentra l’attenzione su due aspetti cruciali della società contemporanea: i profughi che chiedono ospitalità ai paesi ricchi e che determinano reazioni xenofobe di rigetto, tali da alimentare nazionalismi fanatici ed esasperati, e il cinico sfruttamento televisivo di qualunque fenomeno possa fare audience, che non garantisce un’informazione seria e attendibile, ma deforma la realtà (esemplare la sequenza del dialogo fra i due generali falsificato in chiave di enfatico patriottismo dal commento televisivo).
Sullo sfondo una fauna umana poco raccomandabile di governatori che mentre preparano secessioni faticano a mettere ordine nella propria vita sentimentale, presidenti della repubblica inetti e un po’ idioti, sciocchi giornalisti, organizzazioni umanitarie presenzialiste, un popolo americano ipnotizzato da una soap-opera e soprattutto un mastodontico apparato informativo che prendendo una parola per un’altra alla fine provoca il disastro.
Esemplare la sequenza con la quale si conclude il film: sulle immagini trucide di una guerra assurda, spicca la voce di Jim Kalla. Egli dice che il mondo, imperfetto, deve probabilmente attraversare una serie di assurde tragedie prima di realizzarsi compiutamente, come un’opera d’arte. Ma prima che ciò avvenga, sta ancora navigando in un mare di sangue, sofferenza e guerra. Questa la conclusione di Dante.
Il film Sesso e potere[2], diretto da Barry Lavinson, invece, mostra la figura dello Spin doctor[3]interpretato da Robert De Niro che si rivolge ad un regista hollywoodiano (Dustin Hoffman) in crisi di riconoscimenti, allo scopo di costruire una guerra “diversiva”. Mancano infatti due settimane alle elezioni, e il Presidente degli Stati Uniti in carica viene coinvolto in uno scandalo, per le possibili accuse derivanti dalla violenza subita da una minorenne all’interno della Casa Bianca. Prima che l’incidente possa causare danni irreparabili per la rielezione, viene chiamato alla Casa Bianca Conrad Brean (Robert De Niro), consulente esperto di mass media, al quale viene affidato il compito di fare in modo che l’opinione pubblica sia impegnata con qualche altro avvenimento, così da coprire l’eventuale svolgersi della “questione” che coinvolge il Presidente. Conrad ha una straordinaria abilità nel manipolare politica, stampa e popolazione. Si reca subito in California, e, a Los Angeles, coinvolge abilmente Stanley Motss (Dustin Hoffman), a partecipare all’impresa. Dopo avere buttato giù varie idee, viene trovata quella giusta. Si farà credere, attraverso giornali e televisioni, che è scoppiata una guerra, alla quale gli Stati Uniti non possono non partecipare. Si sceglie arbitrariamente l’Albania come luogo dove prendono il via le ostilità: vengono girati in studio finti servizi di finti inviati dal fronte di guerra, arrivano le prime vittime americane di guerra. Si allestiscono addirittura i funerali.
Come ne La seconda guerra civile americana, anche se con modi ed abilità diverse, Sesso e potere è un atto d’accusa contro la pratica mistificatoria dell’apparato massmediologico asservito al potere politico. L’informazione non si limita più soltanto a manipolare i fatti, amplificandoli o distorcendoli o tacendoli, in base a convenienze che poco hanno a che fare con la deontologia della professione giornalistica, ma addirittura costruisce notizie assolutamente false, partendo dal presupposto che ormai per l’opinione pubblica la verità coincida con ciò che viene mostrato dalla televisione. Per questo la gestione dell’informazione trova il proprio interprete ideale non più nel giornalista, ma nel produttore cinematografico, deputato alla creazione della fiction ed esperto manipolatore delle emozioni del pubblico. Il film, quindi, illustra la flessibilità della retorica insita nel mezzo cinematografico nel costruire nuovi parametri per un possibile immaginario collettivo[4]. Da una guerra fatta esplodere per mera casualità, ma in diretta televisiva, si passa quindi ad una guerra mai effettivamente esplosa, ma che si è trovata, attraverso l’organizzazione di un discorso narrativo e spettacolare, a determinare un sistema di “valori” abbastanza forte da risultare credibile.
È proprio questa, fra le altre cose, la causa scatenante del tentativo di ribellione finale messo in atto dal personaggio di Dustin Hoffman: dopo che tutto il suo lavoro è stato finalizzato ad istituire una retorica in grado di incidere sul corso degli eventi (l’effettiva rielezione del presidente) attraverso i canoni più tipici, ad esempio, del war movie (difesa del territorio nazionale, convergenza d’intenti collettiva su un unico obiettivo, ecc.), vede attribuita la causa della vittoria elettorale del presidente alla campagna pubblicitaria in TV. Il motivo del suo malcontento non è tanto da individuarsi nel mancato quarto d’ora di celebrità (l’incarico che gli era stato affidato era, naturalmente, top secret), quanto nell’appropriazione indebita del clamore da parte di un linguaggio di mediocri capacità retoriche (quello degli spot opposto alla logica produttiva hollywoodiana).