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Relazioni

Genitorialità e Capacità Riflessiva

La nascita del primo figlio costituisce l’evento cardine che trasforma le relazioni familiari attraverso nuovi ruoli e nuovi legami intergenerazionali. Stern (1995) ha evidenziato come la gravidanza e l’assunzione del ruolo genitoriale implichino una ridefinizione interna (processi intrapsichici) ed una ridefinizione esterna (processi relazionali) dei legami di coppia e dei legami con le rispettive figure genitoriali. Diventare genitori implica un processo trasformativo di tutta la costellazione familiare: la coppia deve creare uno spazio mentale all’interno della diade per il nuovo membro, ma anche i membri delle rispettive famiglie d’origine assumono ruoli nuovi di nonni, zii, “secondo un movimento sincrono che funge da base sicura per la genitorialità della coppia” (Togliatti e Zavattini, 2000). La nascita di un figlio è segnale che gli individui, che costituiscono la coppia, stanno entrando in una nuova fase del ciclo della famiglia; poiché la genitorialità non è un semplice ruolo, ma un processo, diventare genitori vuol dire entrare in una linea evolutiva trasformativa che continua per tutto il resto della vita. La transizione alla genitorialità implica una serie di eventi sequenziali, quali il progetto di avere un figlio, la gravidanza, la nascita del bambino e la cura di quest’ultimo. Vari autori hanno proposto un modello multifattoriale della genitorialità (Belsky, Crnic, Gable,1995) vedendola non come una qualità in sé, ma all’interno di una casualità circolare, in cui è necessario valutare il peso della storia e delle personali risorse del genitore, il contesto sociale come fonte di stress o di supporto, l’influenza delle particolari caratteristiche del bambino. In tale prospettiva la caratteristica più importante dell’essere genitori è, citando Bowlby (1969), quella di fornire una “base sicura”, cioè essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, ma intervenendo attivamente solo quando necessario; esser capaci di prendersi cura, espressione con cui si può intendere tutta una serie di funzioni quali il saper affrontare e decodificare l’ansia ed i sentimenti d’angoscia del proprio bambino. Il bambino svolge un ruolo molto attivo nella costituzione dei rapporti e ciò è stato evidenziato dagli studi fatti sull’attaccamento (Feldman, Greenbaum, Mayes, Erlich, 1997) e dalla psicologia dello sviluppo, che ha messo in evidenza una sorta di complementarità tra la motivazione che spinge il genitore a prendersi cura del bambino (parental bonding) e la tendenza innata all’attaccamento del bambino verso il padre e verso la madre.
La letteratura psicologica (Roxburg, 1999; Wicki, 1999; Feldman, 2000; Kerpelman, Schvaneveldt, 1999) ha da tempo focalizzato l’attenzione sulla relazione di coppia intesa come ambito che può influenzare la genitorialità. Fondamentale all’interno della relazione di coppia è la negoziazione dei ruoli, ovvero il grado in cui i partner condividono la leadership e la guida della famiglia supportandosi l’un l’altro nel rispetto dei ruoli. Parte integrante di essa è la responsabilità delle cure del bambino.
La funzione riflessiva è “quella funzione mentale che organizza l’esperienza del nostro e dell’altrui comportamento in termini di costrutti di stati mentali” (Fonagy, Target, 1997). È la conoscenza della natura di quelle esperienze che creano credenze ed emozioni, di possibili comportamenti che permettono di conoscere credenze e desideri, delle relazioni prevedibili tra credenze ed emozioni. Gli individui differiscono per la loro capacità di andare al di là dei fenomeni immediati, osservabili, per spiegare i propri e gli altrui comportamenti in termini di credenze, desideri, progetti. Questa capacità cognitiva è una determinante importante delle differenze individuali nell’organizzazione del Sé. La capacità riflessiva viene costruita attraverso un processo intersoggettivo tra bambino piccolo e genitore, tra bambino ed adulto, tra bambino e fratelli. Il genitore favorisce lo sviluppo nel bambino del senso del Sé mentale mediante un processo linguistico ed internazionale: inconsciamente il genitore attribuisce con il proprio comportamento uno stato mentale al bambino, stato mentale, che viene da lui gradualmente internalizzato e che va a costituire il fondamento del Sé mentale. La capacità di un genitore di riflettere sugli stati mentali dell’altro influenza notevolmente lo sviluppo della struttura del Sé nel bambino (Winnicott, 1956; Bion, 1962; Kouht, 1977). Fonagy (1993) ha distinto due aspetti del Sé: un “Sé pre-riflessivo o fisico”, che sperimenta la vita in modo immediato, e un “Sé riflessivo o psicologico”, l’osservatore interno della vita psichica, che vede se stesso ed il mondo alla luce di sentimenti, credenze, desideri ed intenzioni e riflette sull’esperienza in termini psichici. Il Sé pre-riflessivo è probabilmente presente in una forma primitiva sin dalla nascita e si sviluppa completamente intorno ai sei mesi (Stern, 1985). Il Sé riflessivo si sviluppa molto più gradualmente durante i primi anni di vita. Il neonato può verificare la continuità del suo Sé pre-riflessivo attraverso l’interazione col mondo fisico; mentre il Sé psicologico del bambino è molto più vulnerabile, in quanto richiede la presenza di qualcuno che sia capace di percepire e rispecchiare i suoi sentimenti. Il caregiver facilita lo sviluppo del Sé psicologico attraverso complessi processi linguistici e semi-linguistici; in particolare, il caregiver sensibile è capace di creare un collegamento tra la realtà fisica e quella interna, comportandosi col bambino in modo da mostrargli che il suo comportamento può essere meglio compreso se parte dal presupposto che sono le sue idee ed i suoi sentimenti a determinare le sue azioni e le reazioni altrui. Un caregiver sensibile si relaziona al pianto del bambino con una specifica domanda in mente: “Vuoi che ti cambi il pannolino? Hai bisogno di coccole?” (Fonagy, Target, 2001); è improbabile che si relazioni a lui chiedendosi: “Hai il sederino bagnato? Sei stato da solo per troppo tempo?” (Fonagy, Target, 2001). Con il suo modo di comportarsi il caregiver attribuisce uno stato mentale al bambino e lo tratta come un agente mentale. Un genitore molto riflessivo, quindi capace di cogliere gli stati mentali del proprio bambino e di conferire intenzionalità al suo comportamento, è anche un genitore molto sensibile verso il figlio, un genitore capace di considerare il bambino come entità mentale, come un essere mentale con intenzioni, sentimenti, desideri. Questo può costituire la base per la capacità mentale di un genitore di contenere mentalmente, di comprendere in modo corretto e di reagire in modo appropriato ai bisogni del proprio bambino; ciò richiede alla madre o al caregiver di riflettere sugli stati mentali di un altro essere umano ed in tal modo di andare al di là di una mera dimostrazione d’affetto (Fonagy, Steele, Target, 1994). Quanto detto non deve però portarci a concludere in modo affrettato che la sensibilità possa essere considerata come un parametro di misurazione della riflessività, perché sicuramente un genitore molto riflessivo è anche un genitore molto sensibile, ma non è vero l’opposto. Comunque, i caregiver manifestano in modo diverso questa loro funzione: alcuni sono molto attenti e sensibili ai primissimi segnali di intenzionalità; altri possono avere bisogno di segnali ancora più forti ed evidenti prima di percepire lo stato mentale del bambino e di modificare di conseguenza il loro comportamento; altri ancora potrebbero percepire in modo distorto gli stati della mente del bambino, con il risultato di una deformazione del senso del Sé del bambino. Perciò, il bambino diviene capace di percepire gli stati mentali nella misura in cui il caregiver si riferisce ad essi mediante il suo comportamento. È questo quello che succede quando il caregiver condivide con il bambino una situazione di gioco secondo la modalità del “far finta di”: infatti, è molto probabile che i giochi o le situazioni giocose secondo la modalità del “far finta di” facilitino la comprensione degli stati mentali, in quanto l’adulto assume la posizione mentale del bambino e gliela ripropone in relazione ad un terzo oggetto, che è tenuto simbolicamente in mente da entrambi (Target, Fonagy, 1996). Quindi, possiamo dire che mediante la modalità del “far finta di” e quella del parlare il caregiver facilita lo sviluppo della funzione riflessiva nel bambino.
Come già detto, all’interno del complesso processo di transizione alla genitorialità, la nascita di un figlio rappresenta un periodo di ristrutturazione, transizione e crisi maturativi, che implica profondi cambiamenti sul piano personale, matrimoniale, familiare e sociale. Si è anche definita la funzione riflessiva come la capacità di comprendere i propri e gli altrui stati mentali (da non confondere con l’introspezione). Tale nozione ha importanti implicazioni per lo sviluppo normale, per la genitorialità, per la relazione genitore-bambino:
• Il comportamento diventa prescindibile: mediante l’attribuzione di pensieri e di sentimenti, il processo di mentalizzazione permette agli individui di vedere le azioni delle persone cariche di significato; ciò significa che le azioni delle persone diventano prescindibili, cosa che riduce la dipendenza dagli altri.
• La funzione riflessiva permette una distinzione tra apparenza e realtà: il fatto che qualcuno si comporti in un certo modo, non implica che le cose siano realmente così; sebbene ciò possa non essere importante, cruciale, in tutti i contesti, lo diviene però nei casi di maltrattamento o di trauma, permettendo al bambino di sopravvivere psicologicamente e diminuendo la coazione a ripetere l’esperienza in modo concreti. Attribuendo idee e sentimenti a se stesso ed agli altri, il bambino rende il suo ambiente umano più comprensibile a se stesso: fino a quando non è capace di andare oltre le apparenze resta vulnerabile alle reazioni emotive immediate del suo oggetto.
• La funzione riflessiva o mentalizzazione facilita il processo di comunicazione: senza una chiara rappresentazione dello stato mentale altrui, la comunicazione è necessariamente molto limitata.
• La funzione riflessiva permette di fare connessioni molto significative tra mondo interno ed esterno: il riuscire a connettere l’interno con l’esterno ci permette di dotare ciò che si crede di significati emozionalmente vivi, ma gestibili, dai quali non è necessario difendersi.
• La funzione riflessiva promuove e mantiene un attaccamento sicuro: un’adeguata teoria della mente da parte del genitore permette a questi di riflettere e di gestire gli affetti incontrollabili del bambino e di limitare il suo bisogno di proteggersi dalla presenza psicologica della figura di riferimento; gli attaccamenti insicuri si sviluppano nelle situazioni in cui il bambino è indotto ad utilizzare comportamenti difensivi per proteggersi da un genitore con una scarsa comprensione del suo stato mentale. Perfino, un’unica esperienza di attaccamento sicuro può essere sufficiente per lo sviluppo dei processi riflessivi.
Concludendo, il bambino non solo percepisce nel comportamento del genitore l’atteggiamento mentalizzante, ma, in particolare, coglie l’atteggiamento del genitore rispetto ad un’immagine di sé come dotata di capacità di mentalizzazione, di desideri e di credenze. Se la capacità riflessiva della madre le permette di raffigurare in modo accurato l’atteggiamento intenzionale del bambino, quest’ultimo può “trovare se stesso nell’altro”, come soggetto mentalizzante; se, però, questa capacità del genitore è carente, il bambino troverà una versione di sé come soggetto concepito come pensante però nei termini di realtà fisica piuttosto che in rapporto ai suoi stati mentali, non potendo così elicitare il suo potenziale.

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Samantha Scuderi

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