Lo sguardo rappresenta lo strumento di contatto tra un contenuto esterno ed uno interno. Un ponte silenzioso che genera significati ad un tempo recettivi e produttivi, in quanto volti ad inviare e ricevere messaggi, richieste attenzionali, “ganci” relazionali rivolti al mondo esterno e ai suoi oggetti specifici.
Posti sul limite tra interno ed esterno, gli occhi si rendono veicolo di significati inattesi e variegati, spesso inesplorati, che sfuggono alla stessa consapevolezza. Per questo li si definisce come lo “specchio dell’anima”. Perchè parlano prima e più onestamente di qualsiasi strumento comunicativo. Come onesti latori di una finestra aperta sul Sé.
Psicologia dello sguardo: l’importanza dell’esperienza infantile
Da un punto di vista psicologico sono numerose le funzioni che convergono nello sguardo, confermando la sua natura di strumento di relazione inter ed intrapsichica.
In primo luogo lo sguardo ha una funzione di contenimento e sostegno in quella fase della vita nella quale il bambino, se non fosse trattenuto dalle e tra le braccia della madre, si sentirebbe letteralmente cadere in pezzi. Ma il sostegno non viene soltanto da braccia affettuose e accoglienti. Proprio l’occhio, più e come lo stesso abbraccio, svolge un’insostituibile funzione supportiva, trasformandosi in un ventre che raccoglie, rafforza e fa sentire esistenti per la prima volta.
È al contempo importante che dietro lo sguardo si nasconda uno spazio mentale in grado di porsi sulla dimensione emotiva dell’altro con finalità sintonizzanti. Per quanto stretto, un abbraccio che non si accompagna ad un contatto oculare stabile e mantenuto, non consente di trasmettere quella forza generatrice che fa sentire presenti e vivi dentro l’altro, generando intime tensioni relazionali necessarie alla struttura del Sé ( Bick, 1962; Cresti et al. 2001; 2007).
Un abbraccio non sostenuto da uno sguardo emotivamente partecipe non può fornire una esperienza narcisistica gratificante, perché è proprio grazie a quello sguardo che il bambino si percepirà come un oggetto unico e insostituibile agli occhi della madre, confermando l’esclusività di un legame che in questa fase della vita è indispensabile alla sopravvivenza.
E farà avvertire la propria eco anche sul lungo termine.
Da adulti, lo sguardo, viene infatti utilizzato soprattutto con funzione compensativo- riparativa rispetto ai contenuti esperienziali maturati nella prima infanzia, di cui diviene un insospettatbile rivelatore.
Così, un soggetto che non è stato adeguatamente supportato da uno sguardo nel quale riflettere e riconoscere il Sé primario, e quindi la stessa identità, tenderà a ricercare gli sguardi altrui quasi in maniera compulsiva, per ricevere dagli stessi quei feedback confermanti che in passato gli sono stati negati.
La sua necessità di farsi guardare rivela l’espressione inconscia di un bisogno di riconoscimento a lungo taciuto, frustrato da una madre che non è stata in grado di soddisfarlo, e per questo ha negato essenziali vissuti di fiducia, autocompiacimento, investimento nel Sé.
Solo se viene guardato il soggetto si sente esistente.
Il contatto oculare serve allora a confermare un’esistenza messa in dubbio da una maternità distante che non ha consentito il consolidarsi di un supporto autopercettivo nel quale rispecchiarsi e riconoscersi ( Bick, 1962).
Ma può verificarsi il caso contrario: quello di soggetti che di fronte ad un contatto oculare si sentono cadere in pezzi perché, in una fase ancora precoce della vita, proprio da uno sguardo sono stati aggrediti, invasi, quasi perseguitati. Molto probabilmente quello sguardo è appartenuto ad una madre intransigente, i cui occhi si sono poggiati sul figlio solo per sconfermarne crudelmente le pulsioni motivazionali, e così hanno causato l’irreversibile processo abortivo delle sue capacità di autostima e auto conferma.
Anziché rassicurare quegli occhi hanno posseduto e violato confini intangibili, quelli del nucleo vitale narcisistico, contribuendo a scarnificarli di ogni contenuto identitario. Il bambino si è nutrito della tossicità di questo sguardo e l’ha accolta come unico mezzo di relazione con la madre: il prezzo è stata l’introiezione di un vissuto sabotante, una percezione di negatività da cui si sente intimamente posseduto, e che ode riecheggiare, persecutoria e malevola, negli sguardi del resto del mondo.
Lo sguardo nel setting terapeutico
Dal punto di vista terapeutico lo sguardo fa parte di quel materiale comunicativo non verbale- assolutamente prezioso all’interno del setting- con cui il clinico può agevolare la ricostruzione della storia affettiva del paziente, e con essa conferire nuovo significato al disagio che ha comportato l’inizio della terapia.
Grazie alle reazioni del paziente di fronte allo sguardo sarà possibile costruire le prime ipotesi sul ruolo che proprio il contatto oculare ha rivestito nella sua esperienza infantile: se si tratta di un soggetto che fa di tutto per attirare l’attenzione visiva del terapeuta, quasi volesse aggrapparvisi per non perdersi in un vortice nullificante, o se al contrario si tratta di un soggetto che sfugge lo sguardo sistematicamente, abbassando gli occhi per evitare un contatto che pare disarmarlo, quasi denudarlo di fronte all’IO materno distante e distruttivo che percepisce nel clinico, e dal quale ha nuovamente paura di essere violato, distorto, condannato.
Spaventati da uno sguardo che potrebbe annientarli, nei test grafici ( ad esempio il TEST DELLA FIGURA UMANA DI MACHOVER) questi soggetti tenderanno a stemperarne il contatto diretto disegnando un volto di profilo, coprendo gli occhi con una ciocca di capelli, o rappresentando un occhio soltanto. Nel tentativo di indebolire una forza che penetra come un fallo castrante. E allo stesso modo ferisce.
Laddove il soggetto che non è stato gratificato nei suoi bisogni di visibilità narcisistica disegnerà per contrappasso occhi piccoli e appuntiti, spesso curati nei dettagli e ben identificati nei confini (ad esempio il contorno delle sopracciglia e delle palpebre) ma solo per testimoniare quella dolorosa linea tra esterno e interno che nel suo caso è stata sin troppo enfatizzata, lasciandolo al di fuori di un mondo affettivo – quello della madre- che avrebbe voluto in realtà penetrare per divenirne parte integrante.
Il significato dello sguardo rischia di essere caricato di significati emotivi disfunzionali frutto di un’esperienza affettiva che ne ha alterato il significato e le valenze positive.
Sarà proprio dal setting che si dovrà ripartire per neutralizzare questi significati e l’eco di tossicità di cui si rendono portatori nella vita del paziente.
La consapevolezza del Sé, scopo finale di ogni terapia, può e deve passare anche attraverso un contatto oculare equilibrato, in quanto né ricercato compulsivamente, in una sorta di condotta di dipendenza, né rifuggito come un oggetto persecutore dal quale difendersi a costo della vita.
Grazie ad un setting in cui lo sguardo del terapeuta sostituisce quello materno in funzione vicariante sarà possibile ripercorrere l’esperienza affettiva con la madre, bonificandola di quei vissuti esperienziali, assenti o invasivi, che lo hanno reso veicolo di messaggi distruttivi. Strumento compensativo di mancanze mai rielaborate, di antichi dolori mai del tutto vissuti.
Bibliografia
Cresti, L., Farneti, P., Pratesi, C. (2001) Osservazione e trasformazione, Borla, Roma;
Cresti, L., Nissim, S. (2007) Percorsi di crescita, dagli occhi alla mente. Metodo, ricerca, estensione dell’Infant Observation, Borla, Roma;
Cresti, L., Lapi I. , Pratesi, C. (2020), Sguardi che aiutano a crescere: un’esperienza di formazione del personale negli asili-nido di Firenze, in Contrappunto, Associazione Fiorentina di PsicotPsicoterapia Psicoanalitica, n. 59- 2020;
Beebe, B. Lachmann, F. M. ( 2003) Infant Research e trattamento degli adulti: un modello sistemico- diadico delle interazioni, Cortina, Milano.