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Mente

Il Discorso del Re

Al cinema abbiamo già visto professori, scrittori, manager in crisi di ruolo paralizzanti, di quelle che si attraversano fino in fondo e dalle quali si esce nuovi o rinnovati. Con Nanni Moretti anche un papa, e prima ancora un re, l’inglese Giorgio VI, raccontato da Tom Hooper.
Sembrerebbe paradossale vedere il principe di York, circondato dai riti di corte, incespicare sulle parole come un comune mortale, ma così è: la sua voce arriva spezzata ai sudditi inglesi, nell’imbarazzo collettivo, durante il discorso di chiusura all’Empire Exhibition allo stadio di Wembley di Londra.
A http:\\/\\/psicolab.neta sono valsi i consulti dei medici più quotati, le terapie umilianti, gli esercizi avvilenti. Finché l’ostinazione della moglie Elisabeth non lo conduce nello studio sgangherato di un bizzarro logopedista, l’australiano Lionel Logue. Scopriremo più tardi (e il principe se ne sentirà tradito) che non è neppure laureato, che la sua notorietà dipende dall’aver curato i soldati reduci dalla Grande Guerra, tornati dal fronte con problemi di linguaggio.
Non certo per sminuire i titoli di studio, ma vien da pensare che a volte tanti diplomi non valgono quanto la capacità empatica di questo personaggio, più rigoroso e attento di tanti medici, collezionisti di specializzazioni.
Infatti, Lionel su alcuni elementi fondanti della terapia non si fa intimorire nemmeno di fronte alla casa reale. Sarà lui a dettare le regole, arrivando persino a togliere la sigaretta dalla bocca del principe. Pretende che sia il principe a recarsi nel suo studio e non il contrario; e, una volta, lì, le distanze saranno accorciate (bello vedere come il setting diventa sempre più intimo e le sedie dei due a mano a mano si avvicinano). Pretende di chiamare Albert Windsor per nome, Bertie (Albert no, perché sa troppo di tedesco). Pretende da subito di far risalire la balbuzie non a ragioni meccaniche, bensì – ma come si permette! – a radici psicologiche. Pretende persino di sapere dell’infanzia, del padre, del rapporto col fratello, di quali sensazioni accompagnano il morire della voce in gola.
Le resistenze di Albert sono fortissime, e come tutte le resistenze nella terapia hanno un loro perché; non vanno sottovalutate e Lionel lo sa. Per questo all’inizio si muove in maniera originale e fantasiosa, gioca il tutto per tutto, pur rischiando di perdere l’illustre paziente. Provoca reazioni, anche irritate, ma non certo indifferenza. Geniale l’intuizione di fargli recitare Shakespeare mentre ascolta la musica e non la sua voce. Ovviamente la dizione sarà perfetta.
Poi, però, forza un po’ la mano, soprattutto dopo i primi successi, prefigurando le potenzialità del suo paziente, vedendole già realizzate nel futuro. Ha decisamente ragione, ma non si è accorto dell’errore: un buon terapeuta non deve interpretare, bensì stare con le emozioni del paziente, aprirsi a quello che succede durante la seduta, senza mai sovrapporsi. Né tanto meno sostituirsi. L’entusiasmo di Lionel e la fiducia nel suo paziente lo fanno insistere troppo sul prospettargli la successione al padre, qualora il fratello maggiore abdicasse.
Nel momento in cui ciò avviene davvero, il duca di York si fa sovrastare dalle crisi di panico e non può che chiedere l’aiuto di Lionel, nonostante abbia scoperto che non si tratta di un medico vero; oramai solo la vicinanza del falso logopedista (ma quanto falso?) potrà fargli affrontare responsabilità più grandi di lui.
La sua vicinanza, quindi, ma anche le sue tecniche terapeutiche. Nella complicità della relazione, Albert può dar voce alle emozioni (ancora più efficaci e dirompenti per chi dalla voce viene tradito così spesso). Può abbandonarsi alle parolacce, urlare dalla finestra, sdraiarsi sul pavimento con la moglie sulla pancia per sentire il diaframma, ma soprattutto può dire ciò che prima d’ora era parso indicibile; il suo corpo irrigidito può rotolarsi per terra e muoversi liberamente a sciogliere le tensioni.
Metodi non ortodossi, certo, alquanto singolari e stravaganti (per chi lavora con la Gestalt, neanche tanto!). Lionel sa creare le situazioni di fiducia nelle quali il re, prima e dopo la sua incoronazione, può permettersi di dire e di fare ciò che altrove sarebbe considerato folle, ma che nella sicurezza della coppia terapeutica ha la funzione di scaricare le emozioni, le paure, i disagi, le angosce. In quel setting che si fa via via più caloroso, Albert imparerà ad essere se stesso, per entrare nel ruolo che il destino gli ha assegnato.
La vicenda termina con il bellissimo discorso di Albert, ora Giorgio VI, che, insieme alla dichiarazione di guerra (1939) incoraggia i sudditi inglesi e dell’impero; fidandosi del suo amico e di sé, Albert è diventato il re a cui il popolo si affiderà in un momento storico così tragico.

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Margherita Fratantonio