Gli studi psicologici moderni sostengono un modello affermativo e non più patologico dell’omosessualità, intendendo essa come un diverso orientamento di una medesima sessualità, come una variante dello sviluppo psicosessuale, non associata ad alcun disturbo psicopatologico e pertanto, da ritenersi con uno status equivalente a quello dell’eterosessualità.
Le persone omosessuali sono tra loro diverse esattamente come quelle eterosessuali; fanno parte di un’entità eterogenea al suo interno e non costituiscono in alcun modo un problema sociale, divenendo tale solo quando esse vanno ad interagire con un ambiente ignorante, poco restio al rispetto della diversità di qualsivoglia tipo, retrogrado sia dal punto di vista culturale che civile.
Di fronte ad un ambiente pieno di pregiudizi, è necessaria un’opera di educazione storico-socio-psicopedagogica affinché sia possibile analizzare innanzitutto l’evoluzione storica del concetto di omosessualità il cui significato ha per molti secoli avuto un valore negativo, di condanna e di vergogna, di offesa per il modello rispettabile “borghese” il quale ebbe il suo momento storico alla fine del 1800, con la crescita e lo sviluppo dell’industrializzazione.
Evoluzione del concetto di omosessualità: passaggio dal modello patologico a quello affermativo
Lo storico tedesco Gorge Mosse1 ha sostenuto nel suo libro Sessualità e nazionalismo come il processo di industrializzazione abbia causato nel mondo occidentale radicali trasformazioni sociali, culturali ed economiche delle quali fu protagonista la classe borghese.
Quest’ultima andò infatti a sostituire la vecchia nobiltà dell’Ancien Regime, prendendo a fondamento della propria autodefinizione e d’idea nazionale l’ideale di virilità, simbolo esso di vitalità spirituale e materiale della nazione, esortatore alla forza fisica e mentale.
Il modello per eccellenza di virilità e di bellezza fu riscoperto nelle statue maschili muscolose ed atletiche della Grecia antica, spogliate dalle allusioni erotiche che anticamente possedevano.
Il modello borghese si venne inoltre a caratterizzare in una divisione del lavoro da attuarsi sia in ambito economico che in quello sociale e privato della sessualità: grande importanza venne infatti attribuita alla differenziazione tra i sessi, fra mascolinità e femminilità, andando così a caratterizzare l’ambito familiare borghese.
L’identificazione simultanea con l’ordinata divisione del lavoro e la stabilità della famiglia permisero così al modello borghese nascente di affermarsi prepotentemente, tenendo così sotto controllo il dinamismo sociale del tempo e condannando ogni modello sociale e culturale “diverso” come anormale e pericoloso per la vita stessa della società moderna.
L’omosessualità venne condannata come deplorevole perversione poiché andava a ledere il principio di rispettabilità che implicava una netta distinzione fra i ruoli maschile e femminile ed una limitazione della vita sessuale.
Nel corso del XIX secolo i medici si sostituirono ai ministri del culto come “custodi della normalità”2, ritenendo l’omosessualità un concreto problema sociale.
Essi tracciarono così un limite netto tra sessualità normale e sessualità anormale, contribuendo in tal modo ad un inasprimento giudiziario contro la “sodomia” che proprio nei primi anni del 1800 adottò il nome di omosessualità.
Nel 1758 il medico Simon André Tissot, pubblicò un libro intitolato L’onanismo nel quale sosteneva che la malattia di nervi che portava alla masturbazione (considerata allora una anormalità sessuale) provocasse pure altre malattie quali addirittura l’imbecillità, esaurendo tutte le facoltà spirituali dell’anima.
Pochi anni dopo, nel 1796, un altro medico di nome Johan Valentin Muller pubblicò un’opera intitolata Lineamenti di medicina legale in cui negò la necessità di porre distinzioni fra tipo differenti di omosessualità, tra tipi meno ripugnanti di altri poiché da ritenersi tutti generati dai medesimi vizi e, pertanto, portatori di conseguenze dannose sia nel privato che nel pubblico.
Nei primi anni del 1900, l’Europa era ancora intrisa della concezione patologica, come dimostra la tesi del medico berlinese e pioniere della sessuologia Ivan Bloch secondo il quale gli omosessuali, allora conosciuti meglio come “pervertiti”, erano vittime della degenerazione morale provocata dai cattivi costumi e dai vizi delle città moderne, luoghi di lussuria ove trovavano ampio spazio sale da ballo, cabaret, sontuosi bordelli.
Più tardi Bloch modificò il suo atteggiamento di aperta condanna nei confronti dell’omosessualità, distinguendola in due tipi: l’omosessualità di tipo congenito, destinata ad essere accettata dalla società come un “fatto” naturale ed una invece acquisita, nella quale rientravano i cosiddetti “pederasti libertini”, persone cadute liberamente nel vizio e dunque da condannare pubblicamente.
Di portata rivoluzionaria furono però gli studi di Freud il quale si distaccò completamente dalle teorie dei colleghi del suo tempo, fondando la psicoanalisi e proponendo una spiegazione innovativa sulle origini e possibili cause dell’omosessualità.
Freud fu in totale disaccordo con i sostenitori della teoria che attribuiva l’omosessualità ad una degenerazione nervosa congenita.
Tale teoria chiamava in causa il fattore degenerativo al quale si poteva fare riferimento solo nella circostanza in cui si trovassero riunite insieme , in una medesima persona, parecchie deviazioni gravi dal normale e, dove la capacità di prestazione fosse molto compromessa.
Secondo il medesimo invece, negli omosessuali o, invertiti, come venivano definiti al tempo, non potevano essere riscontrate altre deviazioni oltre alla scelta differente dell’oggetto sessuale, mettendo in rilievo come in molti di loro vi fosse notevole capacità intellettuale e sviluppo etico.
In Tre saggi sulla sessualità Freud si oppose ad una scelta esclusiva di una teoria congenita dell’omosessualità o di quella acquisita, dichiarando di averne scoperto il meccanismo psichico di sviluppo nella incapacità da parte del soggetto di risolvere adeguatamente il complesso edipico familiare.
A tal proposito egli infatti sostenne:
“Le persone in seguito invertite attraversano negli anni dell’infanzia vera e propria una fissazione breve ma intensa per la donna( perlopiù la madre); dopo averla superata, si identificano con la donna ed assumono se stessi come oggetto sessuale, vale a dire, partendo dal narcisismo, cercano uomini giovani e simili alla loro persona che li vogliano amare come li ha amati la loro madre”3.
Secondo la spiegazione che ne dà lo psicologo Umberto Galimberti, Freud intendeva dire che l’omosessuale non eviterebbe il contatto con le donne, ma con la zona genitale femminile che fu da lui vissuta, all’epoca del complesso edipico, con fantasie angosciose di castrazione, cercando così nel rapporto con uomini non ragioni d’amore ma la testimonianza dell’esistenza del pene.
Alla base dell’esperienza anomala e negativa vissuta dal soggetto, Freud individuò l’assenza del padre che rese predominante, all’interno della famiglia, la figura e l’influenza della madre.
La persona omosessuale avrebbe subito una regressione psichica riconducibile alla fase dell’autoerotismo a causa della quale, durante l’età adolescenziale, sarebbe orientata ad amare i ragazzi, perfetti sostituti di se stesso.
Per il fondatore della psicoanalisi, la tematica omosessuale rimase comunque sempre aperta; se da una parte infatti l’omosessualità poteva essere attribuita ad una fase regressiva, dall’altra invece veniva considerata un diverso orientamento verso l’oggetto sessuale:
“Studiando le eccitazioni sessuali diverse da quelle che si manifestano apertamente, si è visto che tutti gli esseri umani possono fare una scelta dell’oggetto omosessuale; infatti ne hanno compiuta una nell’inconscio. Per verità l’attaccamento lipidico alle persone dello stesso sesso gioca, come fattore della vita mentale normale, un ruolo non minore di quello degli altri affetti per il sesso opposto”4.
Gli psicoanalisti successivi contestarono l’originario pensiero freudiano che individuava nell’omosessualità una semplice variazione della funzione sessuale, optando di nuovo per un modello patologico che vedeva come base causale fattori esclusivamente ambientali.
Il modello patologico venne adottato anche nel Manuale dei disturbi mentali, famoso come DSM, pubblicato dall’Associazione Psichiatrica Americana (APA).
Nel 1968 l’edizione del DSM II inserì l’omosessualità all’interno della categoria “altri disturbi mentali non psicotici” assieme alla pedofilia, alla necrofilia,al feticismo, al voyeurismo e al transessualismo.
Nel 1973, una commissione di 13 componenti della APA decise poi di rimuovere l’omosessualità “egosintonica” dalla lista dei disturbi psicosessuali, dal momento che questo tipo di omosessualità non implicava affatto un deterioramento nel giudizio, nell’adattamento e nelle generali abilità sociali dell’individuo.
Fu solo tuttavia nel 1973 che l’APA eliminò completamente l’omosessualità dalla voce “malattia mentale”.
Per questo passo l’Organizzazione mondiale della Sanità, OMS, dovette invece attendere il 1994.
1 G. Mosse, Sessualità e nazionalismo, Laterza, Roma, 1996.
2 Ivi, p. 25.
3 S. Freud, Tre saggi sulla sessualità, T.E.N., Roma, 1993.
4 Ibidem.