Allora cosa resta del teatro? L’essenziale non può che essere muto.
È azione, ma non la si può comunicare…
Eugenio Barba
Da qualche tempo il sociale, l’arte e la psicologia sono chiamate a confrontarsi con problemi sicuramente nuovi rispetto alle persone disagiate, come se fossero stati precipitate dai loro presupposti teorici e operazionali, dalle loro promesse metodologiche, cliniche o più semplicemente dalla loro stessa genealogia epistemologica fra questioni che vanno ben oltre l’orizzonte operazionale (dell’arte come della terapia o della ricerca), e a rispondere a domande che sopravanzano abbondantemente gli interrogativi metodologici derivanti dall’intreccio fra categorie antropologiche.
In questo nuovo secolo, inoltre, il vasto campo delle teorie sullo svantaggio/disagio, delle prassi nel campo psicologicoed il panorama che offre la cura psichica è tale, con le sue innumerevoli varianti, spunti, sprazzi teorici e differenziazioni, che il tentativo di offrirne una sintesi chiara ed ordinata, in poche pagine, agli addetti ai lavori e agli studiosi, risulterebbe impresa assai complessa, talora addirittura inutile.
D’altra parte l’instabilità attuale del sapere umano che, come la vita «non ha verità, ha svolgimento» (Piro S. 1997), e il rapido sovrapporsi di nuovi orizzonti di senso nel campo delle scienze umane, impediscono di proporre una modalità di conoscenza umana e di operatività che non sia transitoria, ai cambiamenti della storia, alle politiche, legata al tempo.
Per lo più in questa parte del lavoro, da un lato, si ribadisce l’importanza di una approfondita analisi sull’uso del teatro in campi d’esclusione, non solo a partire dagli eventi spettacolari e dalle tecniche, insomma di una nuova concezione, più attuale, più moderna. In realtà l’idea di un uso teatrale in contesti di cura personale (psichica) e di esclusione sociale ……,
Ciò forse che si dovrebbe tener conto in questo periodo rispetto al teatro contro esclusione è il forte legame al tempo delle prassi, l’abito mentale consapevole (non-innocente) e agito nella «cura» e dalla/nella «didattica». Qualunque altra attività psichica, di sperimentazione e di ricerca, si connette con l’orizzonte continuamente mutevole del tempo, con il fatto che le concezioni sul «disagio» vanno modificandosi senza posa e, dall’altro, in relazioni alle questioni relative alle prassi. Nel nostro caso sarà utile definire tali prassi come multiaccadimentali: nel campo delle antropologie trasformazionali ad esse legate, ovvero sulle prassi destinate alla trasformazione degli altri («insegnamento», «cura») e al campo artistico («prassi teatrali») e sociale («pratica sociale allargata») il lavoro espressivo e pertanto teatrale non po’ che configurarsi come molteplice.
«Tutte le manifestazioni o i gradi del conoscere, l’osservare, il percepire, il determinare, l’interpretare, il negare e l’asserire, presuppongono il rapporto dell’uomo con il mondo e sono possibili solo sulla base di questo rapporto»(Abbagnano N. 1971).
Alcuni attenti ricercatori hanno preso atto che oggi, rispetto al passato, sono necessari per migliorare la condizione umana, mutamenti importanti di teoria, di prassi, di comprensione, di linguaggio, affinché l’impegno nella cura della sofferenza e nell’antagonizzazione dell’esclusione non diventi copertura ideologica, non si risolva in un mistificante inganno, in uno spettacolo per pochi spettatori.
«La ricerca che qui si presenta non ha nessuna possibilità di stabilità, perché continuamente muta l’osservato principale: l’accadere dell’accadere umano. Così, ad ogni grado microepocale nella vita delle genti del pianeta, a ogni mutamento di orizzonte filosofico-scientifico ed epistemologico nella ricerca, a ogni salto nel mondo delle arti, dell’espressione, dei media, dei costumi, della tecnologia, della comunicazione, si trasformano, insieme e irremediabilmente, l’osservato antropico, gli strumenti osservazionali e semiografici, le narrazioni antropologiche che ne derivano» (Piro S. 1999).
Per coloro che, come chi scrive, svolge fondamentalmente, utilizzando processi e percorsi diversificati, attività trasformazionale diretta ad altri (in genere persone al limite, sofferenti,escluse, marginate, etc.) congiuntamente ed in maniera intrecciata nel campo delle arti, della cura, nel campo sociale e della didattica sperimentale, temporalità fungente, labilità e provvisorietà costituiscono dei precisi aspetti legati ad un “atteggiamento operazionale”, tracce di un percorso di ricerca, all’interno delle persone, che non consente soste epistemologiche ed approdi sicuri sotto il profilo emotivo.
Questo ricercato slargamento dovrà essere – necessariamente – connessionale ed operazionale, legato al futuro, ai multiformi talenti e alle creatività, alle storie delle persone, a ciò che accade, alle autonomie: dovrà avere un carattere fortemente pratico per i ricercatori e i curati/curanti, denso di conseguenze e non speculativo, dovrà – in maniera rigorosa – porre in continuità la ricerca, l’arte, l’esperienza quotidiana pratica (concreta) e la vita. Insomma «la ricerca non dimentica mai che svolgersi nel mondo umano è, insieme, capire e vivere» (Piro S. 2005). L’uomo è ontologicamente homo viator, ossia sempre alla ricerca di una verità. Come dicevano i filosofi classici, la filosofia è sempre perenne ricerca, mai definitiva, possesso della verità. Credo che il discorso abbia la stessa importanza anche per le scienze umane, tese come sono a migliorare la condizione esistenziale delle persone della terra. L’uomo di oggi ha più che mai bisogno di uscire da quell’ambito in cui è stato rinchiuso che molte varianti di «scientismo».
Albert Einstein (1965) affermava che
«la scienza… non è… un catalogo di fatti senza senso. È una creazione dell’intelletto umano, con le sue libere invenzioni di idee e concetti».
Come già detto quindi l’odierno panorama sociopolitico, scientifico e sociale sta allargando i confini dell’uso delle esperienze teatrali nel campo delle scienze umane e nei luoghi della sofferenza, e ciò nonostante ci sia, nel campo della didattica e delle prassi di cura, una chiara crisi delle tecniche “psy” che coinvolge molti artisti, operatori e psicologi. In realtà sono molti coloro, in quanto artisti ed educatori, che s’indirizzono affascinati dall’ipotesi di inserimento in un nuovo settore di intervento espressivo, verso una sorta di “teatro sociale”e “teatroterapia” mentre altri postulano, basandosi sulle proprie esperienze, uno scenario nuovo, alcune delle ipotesi necessarie per il rilancio delle arti teatrali per la cura dei soggetti svantaggiati, per le fasce deboli, per le lotte all’esclusione e per la divulgazione di una complessa “cura della normalità” (Errico G. 2006) in un quadro sociale stravolto e grandemente mutato. Ma tutti, artisti e non, scienziati e psicologi sono concordi che il teatro diviene prassi creativa di conoscenza di se, di conoscenza del mondo, nel campo delle mutazioni umani. Tutti concordano che l’esperienza teatrale attuati in contesti di limite non possa limitarsi solo allo spettacolo o al racconto dell’esistenza ma deve ritrovare una personale utilità sociale e comunitaria.
«Se qualcuno fa congetture sulla verità delle cose, basandosi sulla semplice possibilità di ipotesi, mi sembra che nessuna scienza possa stabilire alcuna certezza; perché è sempre possibile ideare ipotesi, una dopo l’altra, che, si vede dopo, portano a nuove difficoltà»(Newton I. 1672).
«Il teatro è insopportabile se esso si limita solo allo spettacolo. Il rigore del mestiere o l’ebbrezza dell’invenzione non bastano, non più che la coscienza del piacere o della conoscenza che possiamo indurre nello spettatore. Il nostro lavoro deve nutrirsi di una sovversione che ci proietta aldilà della nostra identità professionale divenuta muro che ci protegge e che, allo stesso tempo, rappresenta una prigione. Lo spettacolo pianta un seme che cresce nella memoria d’ogni spettatore ed ogni spettatore cresce con questo seme»[E. Barba 2001].
Nel mentre nell’ultimo ventennio lo sforzo teorico-operazionale maggiore di alcuni artisti e scienziati sociali fu, dopo aver scoperto una connessione tra trasformazione e benessere, tra campo sociale, didattica e la cura teatrale (psicodramma, teatroterapia) quello di condurre il teatro fuori/dentro le istituzioni totali e sul territorio, nel tentativo concreto di mostrare ai comuni mortali l’importanza del mezzo teatrale nella cura, nel sociale, nei luoghi della formazione psicologica, nel riscatto del diverso, etc.
Insomma condurre il teatro di cui si narra in questo scritto, in altrui luoghi (ad esempio, in campo archeologico), nei luoghi della memoria, serve non solo a restituire ai monumenti vitalità ma anche a restituire strumenti e metodi di conoscenza sull’uomo. Questa critica (positiva), chiaramente, non vuole sminuire il lavoro serio di molti psicologi, registi, operatori della salute umana, etc. in tema di trasformazioni e sulla creatività umana mediante l’utilizzo di prassi teatrali ed espressive in luoghi deputati all’arte, non impedisce né ostacola in alcun modo l’uso sapiente di tecniche psicologiche e espressive e l’uso finalizzato dell’arte teatrale all’interno di una complessa prassi di liberazione, basata sul rispetto dei diritti e della dignità di coloro che soffrono e di una “cura” che rispetti il senso della sofferenza e la muti in progetti di vita, in realizzazioni esistentive.
Per chi opera in contesti svantaggiati per scopi didattici, sperimentali e sociali, il principale obiettivo scientifico (mission) deve pur contenere risvolti prassici, trasformazioni intrapsichiche, elementi etici/estetici, protensione alla cura della normalità, legami al fluire del tempo, risvolti e approfondimenti di conoscenza umana. Ora, seppure questi aspetti, che possiamo considerare come elementi valoriali, appartengono a molte prassi psicologiche, essi risultano fondamentali in quel settore semisconosciuto del teatro contro l’esclusione sociale.
Questi aspetti, d’altro canto, hanno il valore, fondamentale, di porsi come prassi di istigazione per fronteggiare il disagio umano, costituiscono un tentativo operativo e protensionale per migliorare la condizione di prigionia mentale di coloro che solitamente vengono definiti “soggetti a rischio”. D’altronde si connette con l’esigenza del recupero sociale dei giovani a rischio in talune esperienze.
Una delle domande di partenza quando si inizia una attività in un quartiere svantaggiato, come Scampia di Napoli, che non è più soltanto sociale o psicologico (in senso stretto) è sempre quasi la stessa: quanti dei giovani partecipanti, solitamente privi di spazi espressivi e di socialità e di opportunità, una volta che praticano forme di comunicazione artistica, non finiscono nell’esercito della camorra che offre miraggi luciccanti, quanti di questi recitando non più loro stesso ma i personaggi da mala-vita e ruoli prepotenti aquistano una sana “distanza” dal mondo degli ultimi? Fino a che punto l’arte al servizio del sociale diviene realmente utile per chi l’utiizza e non solo per quelli (artisti, operatori) che la propongono (spesso solo per se stessi!)? L’idea sperimentale (nel senso che persegue aspetti non tradizionali di ricerca e di conoscenza) è che una attività artistica, espressiva, agogica sia parte integrante della lotta al disagio minorile, della cura psicologica tramite l’arte, in contemporanea o in successione con altri momenti di accostamento interumano (seguimento clinico, rapporto terapeutico e artistico, lavoro di gruppo, etc.). Questa attività cosiddetta agogica deve essere intesa come un ripristino della capacità nei ragazzi e giovani, mai abolita, di creare, esprimere, inventare, produrre signiticati, anche in persone giovani escluse in cui sembra (ma è pura apparenza) che queste “capacità” non siano esistite mai. Pertanto tutte le attività sciocche, ripetitive e inutili, debbano – secondo chi scrive – essere attualmente contestate, sorpassate, e-marginate.
Il binomio teatro/disagio sociale è compreso in tutte quelle esperienze che, in seguito ad un progressivo ampliamento dei confini dell’arte teatrale a partire dagli anni Sessanta, appartengono, sì, ad un ambito artistico, ma evocano necessariamente anche un contesto sociale.
Per concludere caratteristica saliente di ogni attività inventiva, mirata a porre l’individuo dinanzi a nuove “prospettive”, è il fatto stesso che tale operatività è in divenire e presuppone una trasformazione umana: la conoscenza, l’attività del pensare creativo cominciano con l’interrogazione, con il porsi/porre delle domande. Ciò contribuisce ad innalzare il livello del cambiamento.
«In questo passaggio dal non vedere al vedere o, più esattamente, dal comunemente visto al visto veramente per la prima volta, nasce la meraviglia. E accanto alla meraviglia – insieme con essa – nasce la curiosità, che ne è la stretta compagna, perché chi si meraviglia è colto da stupore e perciò indotto alla curiosità e all’interrogazione» (Natoli, 1993).