Anni fa David Bernstein (1984) aveva affermato che l’identità era un fenomeno comunicativo che in qualche modo riguardava l’emittente o l’enunciatore; mentre l’immagine era e restava un fenomeno che trovava la sua collocazione nell’occhio, nella mente, nel pensiero del ricevente o enunciatario. Questa bipartizione abbastanza netta fu ripresa poi da Kapferer nei suoi studi sulla marca e in parte da Ferraresi1. Insomma si riteneva che l’identità fosse da costruire e irrobustire pian piano, processo lungo e sofisticato che la marca stessa si incaricava di mettere in atto; mentre l’immagine risultava un fenomeno in qualche modo ricostruito da parte di chi riceve i messaggi della marca. Si mostrano quindi come il risultato di due atti intenzionali, di cui l’identità era definibile come un atto primo o precedente, mentre l’immagine era un atto secondo, di ricostruzione, e quindi conseguente.
Un tale suddivisone appare indubbiamente molto statica e meccanica. Semprini non ne rimase certo entusiasta quando affermò che essa era il frutto di una eccessiva “logica meccanicistica” alla cui base stava “una teoria della comunicazione obsoleta” che per definizione non riesce a rendere conto dei processi dinamici e interrelati tipici di ogni processo di comunicazione, anche di quello inaugurato dalle marche che Semprini definisce a ragione “oggetti semiotici”2.
Codeluppi aggiunse in proposito che il messaggio della marca era piuttosto il frutto di una dialettica costante che si metteva in atto tra l’emittente e il destinatario3. Per dare quindi conto della felice intuizione di Bernstein e Kapferer su identità e immagine, tenendo però presenti le obiezioni in merito sia di Semprini sia di Codeluppi, affermiamo che l’identità produce l’immagine, mentre l’immagine riproduce identità. Costituendo così un circolo. Questo però non deve cancellare la chiarezza delle prime distinzioni di Bernstein: chi produce identità non è il ricevente (se non in un senso secondo); così come chi interloquisce con l’immagine di una marca e la fabbrica non è l’emittente4. L’ansia di trovare un compromesso ci ha fatto accettare e considerare positivamente la “chiarezza delle prime distinzioni di Bernstein”. Non è così. Non sono chiare, sono sbagliate5.
Per comprendere come funzionano l’identità e l’immagine di una marca diventa necessario aiutarsi con due categorie linguistiche e semiotiche: il sintagma e il paradigma. Occorre porre mente al funzionamento di questi due elementi linguistici e in seguito osservare se tale funzionamento ci insegna qualche cosa riguardo al modo in cui si manifestano identità e immagine.
In generale quando si attua un qualsivoglia processo di comunicazione indipendentemente dal codice verbale impiegato, verbale o iconico, si mettono in campo due importanti azioni linguistiche. La prima azione ha a che fare con il magazzino della memoria che ciascun parlante possiede e che racchiude i termini e le regole della lingua che egli sta impiegando. Questo magazzino della memoria permette di selezionare, di volta in volta, i termini adatti e le regole che servono per poter asserire quella determinata frase.
Una volta selezionati questi termini essi vengono combinati, uno in fila all’altro in una vera e propria catena lineare, che costituisce la frase. Se nel magazzino della memoria è contenuto tutto il lessico della lingua italiana, il parlante deve selezionare precisamente quelle parole che gli servono per costruire la frase. Accanto a questa prima operazione di selezione vi è un’operazione detta di combinazione che si incarica di combinare le parole tra loro nella giusta sequenza. Non bisogna ritenere che l’operazione di selezione venga prima di quella di combinazione e che comunque tutto ciò accada seguendo una normale successione temporale. O perlomeno tutto ciò non sembra così semplice perché le due operazioni sono mutuamente interrelate. Nel magazzino della memoria ci sono oltre alle parole anche tutti gli altri livelli di cui si compone una lingua. Tali livelli sono stati scoperti e utilizzati nel corso dei secoli dalla linguistica allo scopo di meglio padroneggiare e comprendere quell’oggetto complesso che è la lingua. Ogni livello d’analisi può essere affrontato separatamente e può dare vita a specifici filoni di studio, la maggior parte dei quali presenti fin dall’antichità. Nel magazzino della memoria sono posizionati e ben presenti tutti i diversi livelli (quali fonologia, morfologia, sintassi e lessico), ma mai del tutto esplicitati, a meno che non si stia parlando del magazzino della memoria di un esperto linguista, tutti questi livelli. E a tutti questi livelli ci deve essere scelta e combinazione. Le due operazioni devono avvenire insieme, o al più divise da una frazione di tempo che noi parlanti non facciamo più in tempo a percepire.
E questa quasi contemporaneità e relazionalità della selezione e della combinazione che fa dire a Volli che “ogni elemento di un processo comunicativo si può pensare come se fosse situato all’intersezione di due assi: l’asse degli elementi che nella comunicazione di fatto lo accompagnano,lo precedono o lo seguono, che insomma gli sono contigui (che è detto asse del processo o del sintagma) e quello degli elementi che potrebbero sostituirlo in quella comunicazione, poiché gli sono funzionalmente simili o equivalenti ( e questo è detto asse del sistema o del paradigma).6 ”
Insomma, produrre comunicazione significa fare lavorare l’asse del sistema e l’asse del processo, ovvero significa selezionare e combinare.
Note
1 Ferraresi M., Pubblicità e comunicazione, Carocci, Roma, 2002.
2 Semprini A., Marche e mondi possibili, FrancoAngeli, Milano, 1993.
3 Codeluppi V., Il potere della marca. Disney, Mc Donald’s, Nike e le altre, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.
4 Ferraresi M., Pubblicità e comunicazione, Carocci, Roma, 2002.
5 www.ocula.it
6 Volli U., Semiotica della pubblicità, Roma, Laterza, 2003.