Il total design è quella disciplina che include in sé tutte le fasi della progettazione dell’oggetto destinato a divenire merce. Tale disciplina diventa oggi più che mai fondamentale dal momento che l’utente moderno si dimostra particolarmente attento nei confronti delle modalità di comunicare il prodotto scelte dall’azienda; d’altra parte è la stessa azienda che optando per un metodo comunicativo piuttosto che un altro – e quindi operando nell’ambito di scelte relative a come distribuire un bene di consumo, come impiegarlo e come far sì che esso possa essere acquistato – sceglie allo stesso tempo di offrire al pubblico un’immagine di sé ben precisa.
Il fatto che le aziende oggi rendano disponibili oltre a prodotti, dei servizi ci fa pensare che essa voglia prendersi cura di noi, offrendosi in aiuto in situazioni di difficoltà: mai come oggi il consumatore desidera questo, riacquisire un’identità perduta nel caos anonimo degli acquisti e sentirsi il destinatario unico di tante “coccole” e attenzioni.
Il processo comunicativo di un prodotto prevede che il suo obiettivo si sposti dall’oggetto al soggetto, dalla merce all’interprete, per cui la centralità in ogni operazione di scambio economico si colloca introno alla merce, più precisamente “tangenzialmente” ad essa.
Negli anni si è assistito ad una mutazione continua della presentazione del prodotto, parallelamente ai percorsi personali che esso compie a fianco di colui che ne è acquirente e successivamente consumatore. Negli anni Cinquanta, infatti, gli oggetti cominciano a rivelarsi al mondo, uscendo dalla sfera del privato per rivestire più ruoli contemporaneamente nella scena pubblica, a seconda di quelle che sono le aspettative di cui l’utente tende a caricarli.
Si avvia già allora un timido ma avvertibile processo di spettacolarizzazione del prodotto, mettendo in evidenza non solo le sue funzionalità ma anche le attese del consumatore, nell’ottica del “che cosa quel prodotto è in grado di fare”. È a questo livello, accompagnato da un certo tipo di progettualità sociale, che Baudrillard colloca la sua riflessione: non si tratta più di sogno della merce ma di desiderio di essa, tale in quanto finalmente realizzabile e raggiungibile.
Non può esistere alcun prodotto senza un’adeguata strategia comunicativa che lo renda persuasivo e capace di infondere nel pubblico aspettative e desideri. Una strategia insomma, che trasformi un oggetto spento a livello della significazione in un incrocio di relazioni sociali e simboliche.
La comunicazione si presta ad essere definita come un intermediario tra noi e l’atto d’acquisto, è un riferimento ad un altrove, ad un altro: parla di qualcosa in sua assenza e lo rende visibile, per alcuni aspetti conoscibile, a distanza. Ma non elimina in assoluto questa distanza, questa assenza; così, ogni forma di raffigurazione non sostituisce completamente un evento, non lo elimina. Affinché ci sia comunicazione è necessaria la parità di ruoli fra gli interlocutori nell’ambito dello stesso scambio comunicativo.
La comunicazione può essere definita come un’azione destinata a modificare il comportamento di un altro o di altri interlocutori. Oppure, come un’interazione che comporta modifiche reciproche fra i soggetti che vi sono coinvolti, ai due estremi dello scambio. Oppure, come l’atto di scambiarsi informazioni. Oppure, come il procedimento attraverso il quale un pensiero può modificarne un altro. Ancora: come un processo di regolazione, che implica la comprensione di messaggi o l’accostamento di esperienze; come l’uso concreto, empirico di un insieme di segni; come comprensione degli effetti di una traslazione informativa e delle reazioni del soggetto ricettore; come trasmissione di un messaggio che implica almeno un progetto di interazione …
La significazione, infatti, consiste nella potenzialità di senso immanenti a un testo-messaggio, in una specie di spinta interpretativa che lo caratterizza. La comunicazione si verifica al momento della traduzione in atto di questa potenzialità: al momento, cioè, in cui il circuito si chiude e i segni concorrono a far sì che il loro significato passi dall’uno all’altro dei due ipotetici interlocutori, rimanendo marcato soggettivamente da questa azione di presa di possesso.
Si può dire che ogni atto comunicativo è tale, quando i segni scambiati costituiscono solo una traccia di comportamento ricettivo, e quando il loro uso si rifaccia anche a parametri e a modelli culturali che agiscono nel sociale, che sono di pertinenza del destinatario e che poco o http:\\/\\/psicolab.neta hanno a che fare con la struttura del testo segnico.
Da un punto vista teorico, dunque, la comunicazione implica soprattutto parità di ruoli fra gli interlocutori e partecipazione allo scambio. Sono proprio queste caratteristiche che la differenziano sostanzialmente da ogni attività semplicemente informativa.
Una vera comunicazione non dovrebbe comportare solo la capacità di influenzare, di modificare, di agire in qualche modo sul comportamento altrui, ma anche quella di retroagire sul comportamento e sull’atteggiamento dell’interlocutore trasmittente. E questo dovrebbe verificarsi tanto in una comunicazione diretta, face-to-face, quanto in una comunicazione mediata, filtrata attraverso strumenti che consentono il collegamento in reciproca assenza degli interlocutori.
I tradizionali media di massa sono soprattutto strumenti di informazione nel tempo in cui si verifica l’impatto dell’utente con le loro forme significanti e l’emittente può subire retroazioni solo in una situazione temporalmente diversa rispetto a quella dello scambio: una retroazione, per di più, veicolata solitamente da canali diversi rispetto a quello usato dallo stesso medium.
L’atto comunicativo non sarebbe altro che un processo di regolazione teso, in prima approssimazione, alla massima comprensione dei singoli messaggi ed al massimo accostamento delle rispettive esperienze.
Nella misura in cui la competenza tecnica del compratore diminuisce, cresce l’importanza del suo gusto. Cresce per lui e cresce per il produttore: ecco allora arrivare il momento del progetto comunicativo, in grado di esplicitare dai prodotti tutti quei valori, estetici e semantici, che costituiscono una delle ragioni fondamentali del nostro comportamento come compratori.
Perché possa essere comunicato efficientemente un prodotto è necessario che a monte si inneschi un meccanismo di ricerca di informazioni, che riguardino bisogni, funzioni e comportamenti, dell’utente come della società di cui egli è protagonista.
Si va come a costruire una sorta di repertorio dal quale si può a sua volta estrapolare una vera e propria teoria dei bisogni. A questo livello ci si è chiesti se davvero il design renda possibile la soddisfazione di qualche bisogno così come nel corso di questa analisi lo abbiamo inteso: il design, si sa, interviene sulla forma, la plasma, le conferisce calore e permette la nascita e lo sviluppo di una certa affezione da parte del consumatore. Inoltre, occorre ricordare che il design dovrà essere inteso come quell’attività creatrice che rende alla costruzione di un ambiente una sorta di coerenza con il modo dei bisogni materiali e spirituali dell’uomo.
Già sulla base di questa affermazione si trova risposta alla domanda che ci siamo posti, pur rimanendo tuttavia aperta una questione e cioè quella relativa alle aspettative che l’utente ripone nel prodotto. Forma e contenuto vanno “a braccetto” e devono instaurare un rapporto limpido e non contraddittorio, in quanto la forma è contenuto e il contenuto stesso si manifesta attraverso la forma.
Il design interviene semplificando l’artificialità delle funzioni e proponendo di instaurare un rapporto ludico piuttosto che pratico con gli oggetti che esso stesso modella.
Ecco che allora l’esteriorizzazione del prodotto è il risultato di un processo che ha portato a ridurre la funzione pratica degli oggetti a giochi simbolici, situazioni edonistiche, apparizioni e quasi recitazioni. La funzione si trasforma in finzione dunque ed è lì che il designer opera, dentro le categorie della funzione e dello stile, categorie immateriali rispetto alla naturalità dell’uomo. Esistono forme ed esistono funzioni; criticare materialmente il design non significa anhttp:\\/\\/psicolab.netare la produzione recente del design degli ultimi decenni, significa semplicemente rendere valore a quella che deve essere la caratteristica prima degli oggetti che il disegno industriale rende possibile, la funzionalità.
Proseguendo la nostra riflessione sull’ambito di quello che si è definito total design, inseriamo in questa disciplina anche l’operazione – seppure provvisoria – dell’allestimento delle merci, intendendo queste ultime come strumenti in grado, in ultima analisi, di risolvere problemi di funzioni e assolvere a delle particolari necessità. L’importanza di un elemento simile come fattore scatenante l’acquisto si sviluppa soprattutto a partire dagli anni Sessanta/Settanta, anni di benessere nei quali l’offerta di consumo si moltiplica rispetto a quanto precedentemente si fosse verificato: tutti sono i protagonisti della scena ma in realtà nessuno lo è completamente. Il “dove” e il “come” rappresentano scelte strategiche nella logica dell’incremento delle vendite dalle quali non si può più prescindere.
L’acquisizione di senso e l’accezione di segno che la merce si è guadagnata, sono elementi sbocciati già a partire dalla metà degli anni Settanta; pensare di scindere contenuto e contenente significherebbe in qualche modo mutilare le scelte del consumatore e frantumare in mille pezzi la merce-specchio nella quale egli è riuscito faticosamente a riflettersi. Materialità delle merce ed immaterialità dei significati si confondono, sino ad arrivare ad un punto in cui la prima si trasforma in un vero e proprio fantasma, un veicolo dal quale lasciarsi trasportare ma di cui si tende a dimenticarsi velocemente.
Volendo procedere per associazioni, si direbbe che comunicare significhi raccontare storie, narrare vite vissute e da vivere, o meglio, vite vissute pienamente e che valga la pena di vivere: colori, desideri e atmosfere, tutto quanto possa essere ricondotto all’impalpabile ma denso di significato la fanno da protagonista.
Ma la comunicazione nasconde un fattore altrettanto importante come quelli di cui finora si è discusso, al di là del rapporto esistente tra prodotto e acquirente: mettere d’accordo settori così lontani operativamente come quello della produzione, della vendita e della distribuzione è operazione non certo semplice, che tende a scaricare le proprie responsabilità di riuscita o fallimento essenzialmente sulle scelte strategiche di vendita, le quali più direttamente e palesemente delle altre mirano a produrre comportamenti finalizzati all’acquisto, riuscendovi con successo a volte con insuccesso altre. Il mezzo più immediato per poter scatenare meccanismi simili è di fatto la comunicazione che si configura come anello di congiunzione tra attori interni ed esterni al processo: la riuscita si determina proprio così, agendo efficientemente e in collaborazione all’interno e rispondendo efficacemente alla domanda proveniente dall’esterno applicando, là dove possibile, il minimo sforzo per ottenere il massimo risultato. In queste scelte strategiche se ne deduce facilmente che rientra anche il mezzo “vetrina” – in parte simile alla scelta di allestimento delle merci – , l’espositore cotonato ed esasperato dei valori onirici e spesso utopici offerti dalle merci. Spesso a fronte di questa sovrabbondanza di input e output non c’è nemmeno bisogno che l’individuo – attore anch’esso e anello terminale di questa catena – si fermi ad analizzare i propri desideri, poiché può facilmente accadere che essi siano stati già indotti dalla comunicazione e indirizzati inconsapevolmente in una predeterminata direzione.