La capacità di riconoscimento del volto: IPOTESI A CONFRONTO
Osservatori nati o “allievi esperti”?
La capacità di percezione del volto, nel genere umano, ha un’insorgenza indubbiamente precoce. Si tratta di una dote non appresa, e dunque già presente nelle primissime fasi della vita. Esperimenti condotti con il metodo della preferenza hanno dimostrato come un bambino di pochi giorni sia non solo in grado di riconoscere facilmente il volto umano rispetto ad altri stimoli, ma anche di distinguere il volto della propria madre, che viene fissato per un lasso di tempo più lungo rispetto a volti di estranei, già dal primo mese.
Modelli teorici della capacità innata: IL VOLTO COME GESTALT
La teoria gestaltica attribuisce la precoce capacità precoce di riconoscere il volto umano ad una serie di predisposizioni biologiche insite nella natura umana. In particolare, il volto umano si presterebbe ad una visione privilegiata perché si presenta come uno stimolo semplice, lineare, strutturato, e simmetrico, e per questo in grado di ricevere attenzione percettiva da parte del bambino, che presenta una struttura neuro cerebrale ed oculare ancora poco evoluta.
il sistema visivo infantile è infatti in grado di elaborare soltanto stimoli a bassa frequenza spaziale, dato come le elaborazioni visive più complesse, ad esempio quella configurazionale, avvengano in corrispondenza di stadi evolutivi più maturi, intorno ai 10 anni circa (Farah et al., 1998). Il neonato presenta inoltre un’acuità visiva particolarmente bassa- non riesce a vedere oltre 25 cm di distanza da sé- una coordinazione oculo-motoria poco sviluppata e un deficit nella visione degli stimoli laterali. Ciò lo rende più propenso all’osservazione di stimoli visivi semplici, strutturati, circolari e ben definiti, quali possono risultare i volti umani.
L’IPOTESI DI SPITZ
Un’ipotesi di capacità percettiva innata viene sostenuta anche da Spitz (1958) il quale, in riferimento alla capacità di cogliere selettivamente lo stimolo del volto umano, ha parlato di una competenza non appresa atta ad identificare una Gestalt armonica e ben strutturata, in grado di adattarsi alla visione infantile non adeguatamente sviluppata.
Per questo non si può parlare, in riferimento al neonato, di un’abilità percettivo-sensoriale vera e propria, ma piuttosto di una capacità atta a cogliere nel viso umano una forma a sua volta rievocatrice di uno stimolo familiare e riconoscibile. Dunque non sarebbe il volto della madre che il bimbo riconosce, quanto la familiarità di una forma verso la quale manifesta una predisposizione percettiva.
Questa Gestalt, che Spitz denomina privilegiata, è costituita dal movimento sincronico del costrutto “occhi, fronte naso”. È l’insieme simmetrico di questi tre elementi a ricevere, nel suo campo visivo, una forma familiare e per questo ben riconoscibile.
A condizione che vengano rispettate le condizioni di simmetria e frontalità prescritte per la percezione di questa Gestalt privilegiata, il bambino ha la possibilità di riconoscere qualsiasi volto umano, nel quale riconosce una forma armonica cui può avere un facile accesso percettivo.
Osservazioni specifiche hanno evidenziato come, di fronte ad un volto sorridente presentato in una posizione frontale, il bambino risponda prontamente al sorriso, mentre non appena la simmetria frontale del volto lascia il posto ad una posizione defilata o di profilo, il bambino cessa immediatamente di sorridere. In seguito al cambiamento della Gestalt anche lo stimolo oggettuale perde la propria valenza familiare, perde cioè la propria qualità oggettuale, impedendo la possibilità del riconoscimento (Spitz, 1958, p. 36).
Questo fino all’ottavo mese, quando le più mature capacità percettive e sensoriali fanno in modo che il bambino sia in grado di associare al volto un’identità soggettiva specifica- è questo il momento in cui si sviluppa la c.d. paura dell’estraneo- e di immagazzinare tracce mnestiche tramite le quali stabilire la discrepanza tra il volto che si trova nel suo campo visivo e quello impresso nella sua memoria. Inizia in questa fase l’utilizzo di strumenti esplorativi diversi da quelli meramente sensoriali, che consentono la costruzione di un approccio alla realtà più strutturato rispetto a quella neonatale.
Il modello esperienziale
Un ulteriore modello teorico, detto dell’expertise, sostiene che la capacità precoce di distinguere i volti non sarebbe attribuibile ad un meccanismo specifico innato dei soggetti, bensì alla tendenza comune che porta a distinguere tutti gli stimoli, anche quelli non facciali, di cui siamo particolarmente esperti. In altre parole le facce non costituiscono di per sé uno stimolo speciale, ma un elemento visivo di cui la maggior parte delle persone è esperta, data la frequenza quotidiana con la quale siamo portati ad imbatterci nei volti (Carey e Diamond, 1986).
In contrasto a questa teoria si osserva che i bambini risultano in grado di discriminare i volti umani rispetto ad altri stimoli già a pochissimi giorni di vita, quando non sono supportati da nessuna esperienza percettiva sotto questo aspetto.
L’approccio neurologico-cerebrale: l’ipotesi organica
Non solo: la predisposizione alla percezione innata dei volti sembra suffragata dalla presenza di domini neurocerebrali deputati ad hoc.
Studi di neurimaging hanno mostrato l’esistenza di una zona cerebrale specificamente coinvolta nella funzione percettiva e discriminativa dei volti, nello specifico situata nella parte mediale del lobo temporale, e denominata giro fusiforme (FFA). La medesima area, posta ad osservazione scientifica di laboratorio, mostra una precisa attivazione in tutti i casi di riconoscimento di un volto, anche di uno non familiare.
Il giro fusiforme mostra una capacità discriminativa più elevata soprattutto nel riconoscimento dei tratti costanti del volto umano: l’amigdala è invece più coinvolta nel riconoscimento delle espressioni emotive, il giro occipitale inferiore è deputato al riconoscimento delle caratteristiche strutturali, e il solco temporale superiore si attiva per discriminarne gli aspetto variabili, come l’espressione e la mimica. Sembra dunque che esista una mappatura cerebrale specifica, comprendente una serie di domini biologicamente predestinati al riconoscimento facciale.
A testimonianza di ciò vediamo come una minore funzionalità di questa aree sia riscontrabile in tutte quelle patologie che comportano anche una percezione del volto inadeguata e deficitaria. Il riferimento va alla prosopoagnosia, deficit neurologico percettivo in cui, a fronte di capacità visuo-percettiva inalterate, il soggetto non riesce ad identificare un volto né la persona a cui appartiene, per quanto si tratti di un soggetto conosciuto o di uno stesso familiare, e all’autismo, ove la difficoltà di riconoscere ed empatizzare con un volto umano potrebbe essere riconducibile alla disfunzione nella zona del solco temporale- corrispondente al giro fusiforme- che si accompagna tipicamente alla patologia.
In conclusione, i dati scientifici sembrano confermare l’ipotesi che attribuisce la capacità di riconoscimento e percezione del volto ad una competenza innata, non riconducibile né all’esperienza né all’apprendimento. Sic rebus stantibus, l’essere umano potrebbe essere naturalmente portato a riconoscere il volto dei propri simili, pur senza nessun bagaglio esperienziale maturato nel settore.
BIBLIOGRAFIA
Diamond, R., & Carey, S. (1986). Why faces are and are not special: An effect of expertise. Journal of Experimental Psychology: General, 115(2), 107–117.
Farah, M. J. (1988). Is visual imagery really visual? Overlooked evidence from neuropsychology. Psychological Review, 95(3), 307–317.
Fridlund, A. (1997), The new ethology of human facial expression, in J.A. Russell e J.M. Fernandez- Dols, ( a cura di), The psychology of facial expression, Cambridge University Press;
Spitz, R. (1958), Il primo anno di vita del bambino, Gi