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Moda

Breve Storia del Visual Merchandising

L’atto di nascita della disciplina di cui si occupa questo libro si può probabilmente collocare nel primo Rinascimento: in quel periodo, a Firenze e negli altri Comuni appena liberati dal giogo feudale cominciano ad apparire, nelle botteghe artigiane, spazi destinati in modo specifico alla vendita al dettaglio, corredati da vere e proprie insegne e strutturati intorno ad un banco centrale che permetteva al venditore di illustrare le caratteristiche del prodotto, esaltandole attraverso le tecniche già consolidate dell’imbonimento, ed ospitava la contrattazione sul prezzo. Gli elementi fondamentali della vendita visiva sono già tutti contenuti in nuce in questa struttura: lo spazio semichiuso e separato dalla strada e dalla piazza, la specializzazione merceologica e tematica dell’ambiente di vendita, la flessibilità delle sue strutture rispetto all’instaurarsi di un campo comunicativo specifico e non semplicemente verbale.
Ma è con la rivoluzione industriale e la “civiltà delle macchine” che il punto di vendita diviene, oltre che il luogo, anche lo strumento centrale dello scambio commerciale. Da una parte, l’emergere di tecnologie assolutamente inedite, unito ad un atteggiamento ampiamente generalizzato di illimitata fiducia nelle macchine e nelle loro potenzialità, favoriva la produzione e la messa in commercio di manufatti di qualità a prezzi sbalorditivamente inferiori rispetto a quelli che uscivano dalle filiere tradizionali dell’artigianato; dall’altra, il liberalismo economico (che trovava il proprio areale privilegiato di crescita nei nascenti Stati nazionali), con l’introduzione ed il consolidamento del principio della proprietà privata inviolabile, dava un impulso decisivo al processo di privatizzazione dello spazio che doveva determinare una decisa divaricazione fra la fase della produzione e quella della vendita – pur sempre contigue nella bottega artigiana – dando vita ai negozi così come oggi li conosciamo: spazi appositamente costruiti e disegnati per ospitare e favorire la contrattazione e lo scambio di merci per denaro.
Questi luoghi del commercio, autonomizzati dalla gestione pubblica, si diedero subito una propria sintassi comunicativa assai caratteristica e del tutto nuova, atta a costituire il terreno dello scambio e a favorirlo in quanto produzione di valore aggiunto: dalla grande comunicazione istituzionale del Medioevo, dalle monumentali opere d’arte realizzate dal popolo di “costruttori di chiese”, si passò rapidamente ad una forma di comunicazione assai meno estesa ma enormemente più “mirata”, che venne via via inscrivendo le regole dell’antico imbonimento verbale nella struttura stessa degli spazi destinati alla transazione commerciale. Il linguaggio di pietra che ne sorse non tesseva più le lodi di principi e magnati di statura leggendaria nascosti in dimore inaccessibili, ma dei semplici oggetti che popolavano gli scaffali dei negozi, con l’obiettivo di renderli appunto più visibili, più brillanti, più appetibili: la luce soffusa e ridente delle trifore di Orsanmichele – granaio poi trasformato in chiesa – che sostituisce quella tetra e metafisica delle lunghe vetrate di Santa Croce rappresenta forse con molta vivezza il senso di questo passaggio.
Questa evoluzione è chiaramente sostenuta, al livello sociale ed economico, dalla nascita e dall’ascesa della grande borghesia commerciale, i cui membri intervengono ad alimentare la crescita del commercio su ambedue i suoi versanti, agendo sia come promotori e finanziatori dell’iniziativa mercantile sia come destinatari finali delle merci distribuite. Capitale finanziario, grande manifattura e commercio internazionale si uniscono così non solo nell’incentivare una imponente crescita di scala degli scambi, ma anche e soprattutto nel favorire la nuova centralità simbolica e culturale della vendita, segno tangibile dell’egemonia che questa classe di parvenus esercitava tanto sulle radici materiali dell’esistenza quanto sulla sua rappresentazione nell’immaginario collettivo: le nostre espressioni del tipo “sapersi vendere bene” o “ciascuno vende quel che ha” sono tarde testimonianze della durevolezza e della pervasività di questa trasformazione.
Nel XIX secolo, con la nascita dei grandi imperi coloniali di Francia e Inghilterra, si assisterà poi ad una vera e propria “rivoluzione del commercio”: la nascita dei primi department stores è il segno dell’uscita definitiva della vendita al dettaglio dall’orizzonte limitato del locale, come pure della conquista da parte sua di posizioni simboliche assolutamente preminenti, di cui questi nuovi negozi “universali” rappresentano i templi secolarizzati. Il mercato si allarga e diventa mondiale, il sistema dei trasporti, sopratutto marittimi, rende possibili, convenienti e pressoché obbligatorie importazioni su larga scala, e questo rende i department stores – nati come risposta alle esigenze di rapida commercializzazione di un numero più elevato e di una varietà più diversificata di prodotti – dei veri e propri cataloghi enciclopedici dello stile di vita borghese, i quali prendono atto e a loro volta promuovono con forza sempre maggiore un consumo di beni sicuramente in eccesso rispetto al bisogno immediato.
La rivoluzione non si limita al campo ideologico, ma coinvolge immediatamente la conformazione stessa dei luoghi della vendita: i prodotti, fino ad allora regolarmente posti dietro al venditore, in una posizione spaziale e percettiva decentrata, occupano ora scaffali a diretto contatto con il pubblico, il quale, mentre si muove senza impedimenti attraverso i grandi spazi che il magazzino mette a sua disposizione, è totalmente libero di poter osservare da vicino, toccare e valutare con i propri sensi una merce che “parla da sé“, istituendo con il suo potenziale acquirente un rapporto diretto e svincolato dell’intermediazione linguistica dell’esperto interessato. Ed è qui, nel nuovo territorio linguisticamente e spazialmente vergine del grande magazzino, che per la prima volta vede la luce il visual merchandising come disciplina parzialmente formalizzata finalizzata a risolvere problematiche di carattere
organizzativo, connesse all’esposizione a vista di grandi quantità di prodotti a disposizione diretta del pubblico,
promozionale, derivanti dalla necessità di creare nuovi stimoli verso acquisti certamente non motivati da bisogni primari o evidenti, e infine
comunicativo, legate cioè all’esigenza di supplire, con un discorso “scritto nelle cose stesse”, alla soppressione del filtro interpretativo determinato dalla presenza del venditore.
Nel frattempo, nuove tecnologie permettono per la prima volta la costruzione di grandi lastre di vetro virtualmente perfette: attraverso queste nuove barriere permeabili alla vista, il linguaggio della merce, non più confinato entro il cerchio del negozio, può entrare in contatto diretto con il palcoscenico della via riempiendolo di suggestioni e seduzioni finora inusitate. Con questa vera e propria esplosione del luogo della vendita verso l’esterno, verso lo spazio pubblico, nasce il concetto moderno di vetrina, ancora una volta da un processo di identificazione fisica dell’oggetto proposto alla vendita e del discorso imbonitore volto a stimolarne l’acquisto; e nasce così anche la forma propriamente visiva di questo linguaggio, con la graduale attenuazione del privilegio accordato ai suoi aspetti organizzativi – che determinava una sintassi minimale basata essenzialmente sulla regolarità di forme, volumi, colori e sulle simmetrie dell’ordine espositivo – e l’assunzione di toni via via più aggressivi in cui, ai contenuti meramente informativi dei messaggi, vengono sempre più decisamente anteposti quelli esplicitamente promozionali.
Con quest’ultimo passo, mosso proprio sulla linea di confine tra lo spazio del commercio e lo spazio ordinario, il processo di spettacolarizzazione della vendita giunge al suo compimento: divenuta in se stessa un’attività abituale, collegata al divertimento, socialmente premiata e capace di segnare in maniera sempre più profonda lo spazio urbano,

Queste caratteristiche rappresentano altrettante sostanziali innovazioni rispetto allo stile antico del mercato, in cui la merce veniva portata agli acquirenti potenziali entro spazi non differenziati e la transazione che la riguardava si svolgeva lungo canali linguistici essenzialmente verbali e comunque non specifici; esse sono strutturalmente connesse proprio alla collocazione della vendita in spazi (fisici e comunicativi) immediatamente prossimi a quelli della produzione artigianale, che già andava prendendo le forme specialistiche proprie di epoche più sviluppate dell’economia mercantile.

Cfr. J. Gimpel, Costruttori di cattedrali, Jaca Book, Milano 1982.

Il primo, “Au Bon Marchè”, fu fondato a Parigi nel 1852 da Aristide Boucicaut.

Il fatto che le vetrine fossero permeabili esclusivamente alla vista è certamente il responsabile dell’attuale accezione “povera” dell’aggettivo “visual” (cfr. supra, p. 3) come connotante messaggi percettivi esclusivamente rivolti a questo senso. Si crede comunemente che il linguaggio del merchandising abbia avuto origine nelle vetrine, dove era il solo disponibile, per poi allargarsi a tutti gli spazi del negozio e a nuovi canali sensoriali; al contrario, come abbiamo visto, quella strettamente visiva è solo una declinazione abbastanza tarda di quello che abbiamo chiamato “linguaggio della merce”, e deve probabilmente la sua popolarità alla maniera profonda in cui il suo emergere ha modificato lo spazio pubblico della strada.

Cfr. La città vetrina. I luoghi del commercio e le nuove forme del consumo, a cura di G. Amendola, Liguori, Napoli 2006.
la vendita ha ora bisogno di darsi delle regole semantiche e compositive certe e condivise tramite le quali governare le sue valenze comunicative e moltiplicarne gli impatti sull’immaginario collettivo, col fine generale di aggiungere valore alle transazioni. È questo ciò che il visual merchandising si appresta a provvedere.
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Carla Tuci

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