Negli ultimi anni è aumentato l’interesse per la qualità della vita organizzativa. E’ sempre più condiviso l’assunto per cui una organizzazione sana è una organizzazione in grado non solo di sviluppare nel breve periodo interessanti performance di mercato ma anche di mantenerle nel lungo periodo.
Contemporaneamente diversi interventi legislativi, a livello sia europeo, sia nazionale, hanno portato le aziende a doversi confrontare in maniera strutturata con fenomeni quali lo stress lavoro-correlato.
Chiedersi quale sarà il futuro per gli interventi mirati allo sviluppo del benessere e della salute organizzativa è una domanda doverosa per gli esperti del settore (i).
Attualmente si può osservare una polarizzazione tra chi ritiene che la salute organizzativa sia identificabile con l’assenza di indicatori di patologia organizzativa (a.e. eccesso di stress) e chi ritiene che il concetto di riferimento debba essere il benessere, un costrutto per sua natura caratterizzato psicologicamente e fortemente correlato alle interpretazioni soggettive della qualità della vita lavorativa.
Una risposta sicura non è dunque possibile. Si può però auspicare un aumento di convergenza nelle prassi, nelle possibili attenzioni, cure e manutenzioni che le aziende decideranno e realizzeranno nei confronti delle proprie organizzazione e, in particolare, delle risorse umane che le compongono.
La speranza è che aumenti la consapevolezza che una buona convivenza sul lavoro è premessa per una sana gestione e per buone prestazioni professionali, individuali e collettive.
Proponiamo alcune argomentazioni, sulla domanda che investe il futuro, su due piani di riflessioni: quello dei fenomeni di natura soggettiva che più direttamente riguarderanno individui e gruppi sotto il profilo delle identità personali e professionali e quello dei possibili interventi mirati ad affrontare il disagio organizzativo enfatizzando prassi preventive e di promozione del benessere.
1. Cambiamenti e identità
L’attuale cultura ipertecnologica di impresa, come risposta alla globalizzazione, nella conquista di nuovi mercati e prodotti, tende ad innestare processi di cambiamento continui. Il cambiamento in passato consisteva in interventi straordinari; legati prevalentemente a possibili miglioramenti tecnici, e, o di prodotto molto circoscritti nello spazio e nel tempo, oggi, purtroppo è diventato ciclico, senza soluzioni di continuità, entra a far parte, si potrebbe dire, della normale gestione, aggravata dalla velocità. Il progresso postmoderno genera infatti, nelle organizzazioni variazioni continue e repentine di struttura, flessibilità nelle posizioni organizzative e nei posti di lavoro, una precarizzazione dei contratti, per rammentare alcune tra le situazioni più ricorrenti. La globalizzazione, di questo si parla, è una forma di trasformismo incessante, generatore di ansia (ii).
Questi tipi di movimenti delle e nelle organizzazioni, rendono difficile e problematico all’individuo pensare al proprio sviluppo personale nel medio e lungo periodo, contribuendo così a porre segnali poco rassicuranti ed ansiogeni rispetto possibili anticipazioni di prospettive personali e professionali future.
L’insicurezza che si viene generare nelle persone, le rende spesso fragili e inaffidabili nei comportamenti organizzativi agiti nei vari ruoli; nonostante l’apparente e paradossale tecnicismo ed efficientismo sempre più pervasivo, e le sempre più evolute modalità di comunicazione . Gli individui devono interpretare ruoli sempre più ingovernabili, in quanto sono richieste sempre più velocemente, nuove competenze professionali un tempo appartenenti anche a ruoli gestionali.
Vengono meno gli ancoraggi appresi nel tempo, proprio nella organizzazione, della quale non sono più in grado di riconoscere i valori fondanti che sino allora avevano rappresentato un porto sicuro, un riferimento, non solo sul piano cognitivo ma anche su quello soggettivo emotivo comportamentale.
Ogni individuo che lavora, investe gran parte della personalità, nell’istituzione di cui fa parte ed ogni istituzione entra quale parte di personalità nell’individuo in un costante intreccio. Le organizzazioni infatti, sotto il profilo istituzionale che le attraversa, costituiscono delle soggettualità viventi collettive, prodotte dalle dinamiche cognitive ed emotive dei gruppi che le compongono (iii).
Sotto questo aspetto le organizzazioni muovono negli individui investimenti psichici, contribuendo a costruire rappresentazioni di sé, della propria identità che, lentamente nel tempo, si costruiscono come apprendimento attraverso lente ed a volte sofferte elaborazioni. Il senso di identità appreso con fatica, vien messo a dura prova dai cambiamenti troppo repentini, l’identità ha infatti tempi lunghi e faticosi di elaborazione e costruzione. Di fronte alle innovazioni che modificano i ruoli nelle loro competenze professionali e decisionali le persone provano un senso di smarrimento, si chiedono se saranno in grado di rispondere abilmente alle richieste dell’organizzazione in ambiti di competenze un tempo riservate a ruoli gestionali.
Oggi, forse nel prossimo futuro, si avranno fenomeni di identità sempre più instabili ed in movimento continuo. La costruzione delle identità avverrà per sintesi ed integrazioni successive. Spesso, nei contesti formativi, allestiti per sollecitare nuove professionalità e rappresentazioni del senso e significato del ruolo, si manifestano forti aspettative rispetto tematiche innovative, ad esempio sul versante psicologico relazionale, accompagnate tuttavia da forti resistenze ad accogliere mentalmente responsabilità di conduzione e gestione delle risorse umane, valutate estranee a specifici ruoli tecnici storicamente appresi.
L’esigenza percepita di cambiamento di nuova identità, attraverso competenze trasversali, (job enrichement) produce insicurezza, in quanto cambiano i punti di riferimento valoriali e tecnici sino allora appresi, elaborati e condivisi; i soggetti entrano in una dimensione emotiva di ritiro dall’organizzazione, di distanza, quasi per tutelare la propria individualità, come ad esempio sarà possibile constatare, con adeguati elementi di supporto, nella seconda parte di questo libro, riguardanti esperienze di ricerca sul benessere in alcuni contesti di lavoro.
Alla luce proprio di queste esperienze, è possibile prefigurare che nelle organizzazioni le persone avranno in futuro presumibilmente, sempre più problemi ad investire in termini di motivazioni ed apprendimento sugli oggetti di lavoro, in costante cambiamento, determinando un coinvolgimento sul lavoro molto marginale, privo di investimento e credibilità riconducibile ad un vissuto strumentale (iv).
L’ansia da costante adattamento alle mutevolissime condizioni del contesto lavorativo, si traduce come affermato in precedenza, in un processo di resistenza al cambiamento-apprendimento. Come conseguenza emerge un timore di non avere più chiarezza sul proprio progetto d sviluppo professionale, associata ad una sensazione di passività, di adattamento privo di positività e di investimento, sul lavoro. Ogni tentativo di cambiamento provoca sofferenze e senso di inutilità nell’adattamento alle molte variazioni degli assetti organizzativi della propria posizione.
2. Interventi di promozione del benessere
Un primo approccio riguardante la salute psicofisica dei lavoratori lo si può collocare in America negli anni Trenta presso la ormai nota azienda Western Electric nella quale Elton Mayo nel 1933 iniziò, forse per primo ad investigare sul rapporto tra ambiente fisico di lavoro e ricadute sulla produttività, da parte delle persone coinvolte nei reparti di lavoro.
Ne emerse, come ormai ben noto, che le organizzazioni avevano un ruolo importante nel prendere in considerazione le aspettative di coinvolgimento informativo dei collaboratori e nel manifestare vicinanza e cura di esigenze famigliari anche fuori dal contesto di lavoro. Nasce infatti in quel periodo storico l’approccio gestionale delle Relazioni Umane che avranno negli anni Sessanta applicazioni nei contesti organizzativi italiani. Negli anni Cinquanta poi, sempre in America, si possono trovare testimonianze di programmi di assistenza ai lavoratori per problemi di alcoolismo sotto il profilo delle tutela ed interesse sul piano individuale.
Soltanto nei successivi anni Sessanta e Settanta, cominciano ad emergere ricerche e studi sullo stress, spostando quindi l’ottica da una dimensione individuale a quella riguardante il contesto di lavoro come fattore di influenzamento sulle condizioni psicofisiche dei soggetti e quindi sui cosiddetti pericoli e rischi di natura psicosociale. Si viene così ad allargare il focus di attenzioni, studi e ricerche sui meccanismi e modalità di sviluppo dei processi di lavoro.
Da questi passaggi si può ipotizzare la nascita di una strategia di interventi finalizzati a migliorare il rapporto tra individuo e contesto di lavoro, soprattutto mirati alla individuazione dello stress(v). Esso è stato definito recentemente dalla Commissione europea (1999): “ un insieme di reazioni emotive, cognitive, comportamentali e fisiologiche ad aspetti avversi e nocivi del contenuto del lavoro, dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro”.
Da questa chiave di lettura ne emergono, come conseguenze, che vi siano da un lato da tenere sotto controllo non solo le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, i cosiddetti stressors (riconducibili ai compiti, all’organizzazione, ed all’ambiente) ma anche le ricadute ed influenze di tali stressors, nei confronti degli aspetti psicofisici e individuali. Alla luce di tali considerazioni gli interventi possono essere visti su tre livelli:
– livello individuale ( migliori capacità di fronteggamento dello stress);
– livello rapporto individuo-organizzazione ( carichi lavoro, coinvolgimento operativo, relazioni con colleghi);
– livello organizzativo (revisione di strutture e processi, con impatto su condizioni di lavoro, selezione, gestione, formazione e sviluppo organizzativo).
Questa tipologia, considerata tra le più accreditate a livello internazionale, è stata per tutti gli anni Settanta, un punto di riferimento per affrontare gli aspetti sulla salute nelle organizzazioni, sul piano preventivo (organizzativo ed individuo-organizzazione) e su quello terapeutico (individuale). Esse erano soprattutto centrate su di un concetto ristretto di rischio, riconducibile ai solo agenti agenti stressogeni dove lo stress è concepito come minaccia alla salute individuale, piuttosto che indicatore di disagio o malessere del contesto organizzativo.
La lettura dei tre livelli di intervento, nelle loro sequenza potrebbe essere anche idealmente vista come un possibile movimento storico-evolutivo di sviluppo, da una fase a maggiore carattere terapeutico (individuale) ad una più orientata su di un versante preventivo –promozionale (organizzativo). Anche se rimane comunque prevalente la concezione di tutela della salute fisica mirata sugli agenti stressogeni.
Con gli anni Novanta il concetto di salute si apre ad altri aspetti riconducibili alle concezioni di tutela del benessere psicologico e sociologico, che mettono così in evidenza l’ambiente di lavoro, il contesto nel quale le persone interpretano i vari ruoli sotto il profilo relazionale. Il benessere assume quindi il significato di bene da tutelare in sé, indipendentemente da legami causali tra caratteristiche del lavoro e l’origine di malattie. Le dimensioni organizzative e culturali sono concepite quali possibili generatrici di benessere o di malessere.
Questo punto di arrivo oggi e possibile traguardo da realizzare in futuro, offre uno scenario più ampio, che propone ed impone l’attenzione essenzialmente sulla concezione secondo la quale, le pratiche organizzative influenzano la salute e la qualità della vita delle comunità che lavorano, indipendentemente dagli obiettivi che si prefiggono di natura produttiva di beni o di servizi. Lo stile di convivenza, generalmente inteso come modalità di intreccio nell’utilizzo delle risorse umane, cioè come stili di leadership, ed i relativi valori culturali sottesi, promossi, ed appresi nell’organizzazione, rappresentano alcuni tra i punti forti che le organizzazioni stesse dovrebbero monitorare e curare con attenzione. Da questi spesso dipendono situazioni di benessere o malessere diffuso, sul piano psicosociologico ma anche fattori di successo e conseguimento degli obiettivi che imprese ed istituzioni pubbliche, si propongono in termini di efficacia e di efficienza. Sempre che l’efficientismo non si trasformi, nella logica della globalizzazione, quale “perversione culturale” (vi) che minaccia le identità delle persone, sottraendo l’organizzazione al ruolo di propositore e generatore di apprendimento sul versante della crescita professionale ed individuale, ed equilibrata delle risorse umane coinvolte nei processi produttivi.
Dopo avere tracciato brevemente una sintesi sui passaggi fondamentali evolutivi, riguardanti i modelli sino ad oggi utilizzati nell’approccio al benessere e malessere nelle organizzazioni, possiamo ora proiettare uno sguardo alle prospettive che si prefigurano in tale campo.
Potremmo iniziare ora a ricordare che il secondo manuale dell’European Agency for Safety and Health at Work (2002) sottolinea la tendenza ad aumentare il numero degli interventi a carattere organizzativo centrati appunto sugli stili di convivenza. In esso sono contenute sintesi , orientamenti e principi su esperienze operative nel campo del benessere e della salute organizzativa, che utilizzeremo in seguito. A questo proposito è utile ricordare una rassegna pubblicata dall’Health & Safety Executive (vii), mirata esclusivamente agli interventi organizzativi secondo la quale essi si differenziano in:
– sociotecnici
– psicosociali
Gli interventi socio tecnici sono prevalentemente mirati a cambiamenti su aspetti oggettivi di natura strutturale dell’ambiente di lavoro per esempio riguardanti l’orario di lavoro; l’organizzazione del lavoro; i livelli gerarchici. Essi influenzano soprattutto lo stress, la salute e la soddisfazione lavorativa e consentono di manipolare le condizioni oggettive di lavoro e di misurarne i risultati.
Alcune caratteristiche
– riguardano variabili oggettive concrete ( orari, carichi ecc)
– nascono spesso da sintomi come turnover, assenteismo, infortuni, produttività senza interventi di valutazione e diagnosi;
– i risultati si misurano con raccolta di dati e questionari; le misure di tipo oggettivo si riferiscono ad aspetti cognitivi ( memoria, tempi di reazione) e di natura fisiologica.;
– la valutazione è affidata soltanto ai ricercatori o ai consulenti. Non è prevista alcuna partecipazione dei dipendenti nella fasi di valutazione e di pianificazione dell’intervento.
Gli interventi psicosociali si propongono invece come fuoco il cambiamento delle percezioni dell’ambiente di lavoro, dei fattori fondanti le motivazioni, il benessere e le prestazioni professionali. Il centro di interesse e di investigazione riguarda fattori di rischio psicosociale ben più ampio degli interventi socio tecnici. I fattori di rischi presi in considerazione in modo ben più ampio, rispetto l’approccio socio tecnico, riguardano, secondo un modello oggi molto utilizzato (viii), quattro ambiti principali:
– la struttura del compito (ad es. abilità, controllo, carico d lavoro, ergonomia ecc);
– contesto sociale (ad es. comunicazione, stili di relazioni interpersonali, la collaborazione, l’utilizzo di gruppi di lavoro ecc);
– cambiamenti macrorganizzativi (ad es. relazioni industriali, stili manageriale, modalità decisioni gestionali ecc);
– cambiamenti nei processi produttivi.
Alcune caratteristiche
– l’intervento inizia attraverso una fase di investigazione attraverso l’uso di questionari, associati a volte anche ad altri strumenti quali focus group, interviste individuali;
– ne deriva una prima valutazione di problematiche;
– l’intervento prevede la collaborazione tra esperti/ consulenti con il personale dipendente dalla fase di valutazione a quella di restituzione dei risultati;
– l’individuazione degli interventi è sviluppata attraverso la collaborazione dei dipendenti affiancati dai consulenti;
– la pianificazione degli interventi e la valutazione dei risultati vedono la partecipazione dei dipendenti ( diventano patrimonio dell’organizzazione).
A conclusione di questo breve raccolta sui principali aspetti e criteri degli interventi sul benessere nelle organizzazioni è utile rammentare alcuni punti forti sui quali continuare a fondare eventuali iniziative di ricerca intervento sul campo.
1. L’iniziativa dovrebbe essere fortemente radicata e condivisa da parte di tutti ruoli del consiglio di amministrazione e dirigenziali, come necessaria per conoscersi; nella consapevolezza di attivare tutte le iniziative sulla base dei risultati.
2. È necessario un supporto attivo da parte del management e di tutti gli altri attori protagonisti, a realizzare responsabilmente i cambiamenti individuati: se l’iniziativa assume veste di operazione di tendenza o di moda le conseguenze aumenteranno i danni.
3. Il coinvolgimento dei lavoratori è fondamentale in tutte le fasi del processo, dai risultati delle esplorazioni, all’individuazione delle varianti e delle relative conseguenze attraverso specifici momenti di sistematica informazione.
Ci piace richiamare che si tratta di punti di riferimento tipici della psicologia delle organizzazioni di matrice psicosociale, basati su ben oltre mezzo secolo di sperimentazioni di successo (ix) e che richiedono il giusto tempo, al fine di produrre risultati permanenti. E’ importante averne consapevolezza, soprattutto quando il mercato può richiedere azioni rapide, apparentemente più efficenti ma in realtà ben poco efficaci nel rifondare costruttivamente i paradigmi della convivenza organizzativa.
Note:
(i) Si consiglia la lettura del n. 3, July-September 2010 della rivista internazionale Work & Stress. Journal of work, health and organisations. Si tratta di un numero specificatamente dedicato al tema degli interventi e delle loro prospettive.
(ii) Cfr. Enriques 1989, Pagliarani 1993.
(iii) Cfr. Ronchi, 2006.
(iv) Cfr. Ripamonti, Kaneklin, 2005.
(v) Cfr. Avallone, Paplomatas 2005.
(vi) Cfr. Ruvolo, Profita 2009.
(vii) Cfr. Parkes, Sparkes, 1998.
(viii) Cfr. Karasek 2002.
(ix) Cfr. Handbook of Psychology, Wiley, Vol 1 – History of Psychology; Vol. 12 – Industrial & Organizational Psychology, 2003