TUZLA, BOSNIA-ERZEGOVINA
AGOSTO 2002
Nell’agosto 2002 ho lavorato a Tuzla, una città nella Bosnia-Hercegovina, alla realizzazione di un progetto per il trattamento dei traumi di guerra con le tecniche dell’arte terapia rivolto agli insegnanti e ai loro alunni. Sono un’arte terapeuta e lavoro da 12 anni in Italia, privatamente e in istituzioni pubbliche (centri di riabilitazione per il disagio psichico, scuole e altro), con adulti, bambini e adolescenti. Il trauma é sempre stato il tema centrale del mio lavoro, i disagi di cui si mi sono occupata come terapeuta nel mio percorso professionale, nascevano quasi sempre da un evento traumatico.
Quello che segue é il racconto dell’esperienza fatta in Bosnia, che é stata per me una grande lezione di vita sia dal punto di vista umano che professionale. E’ importante iniziare chiarendo cosa si intende per evento traumatico, quali sono le conseguenze per chi ne é vittima, e come é possibile intervenire con l’arte terapia.
L’evento traumatico é caratterizzato dall’irrompere nella nostra vita, in maniera improvvisa e violenta, di qualcosa di minaccioso e incontrollabile, che travolge e spezza la continuità del nostro abituale senso di sicurezza psicofisico. L’esperienza traumatica trasforma la percezione di sé e del mondo esterno, e determina spesso reazioni come ansia, confusione mentale, senso di colpa, panico, comportamenti asociali, ecc., reazioni che possono stabilizzarsi e perdurare per molto tempo.
Spesso i bambini vittime di traumi non sono in grado di esprimere all’esterno le proprie paure, la propria rabbia e il proprio senso di insicurezza. Se non viene fornita loro la possibilità di entrare in contatto con la propria esperienza traumatica ed elaborarla, le conseguenze per molti di loro saranno seri disturbi emotivi nell’età adulta. Il dolore e il senso di insicurezza caratterizzeranno la vita di queste persone e con molta probabilità essi continueranno il ciclo delle violenze subite.
Quando le parole sono inadeguate o le memorie dei traumi troppo dolorose per essere verbalizzate, l’arte offre uno strumento di comunicazione adeguato all’espressione di sentimenti ed emozioni forti e, allo stesso tempo attiva i processi necessari alla risoluzione dei problemi che emergono.
“L’emozione del dolore cessa di essere sofferenza non appena abbiamo una chiara e precisa immagine di essa” scriveva Victor Frankl. L’esperienza creativa, utilizzata in un setting terapeutico, risponde alle necessità di dare forma e significato ai vissutirendendoli condivisibili, al bisogno di esternare emozioni e sentimenti affinché acquistino senso e comprensibilità, dando inizio alla gestione di un processo di elaborazione ed integrazione dell’esperienza traumatica.
Il progetto, alla cui realizzazione ho partecipato questa estate, è stato promosso da un’Organizzazione di Volontariato americana, Art Reach (www.artreachfoundation.org), ed ha coinvolto 87 insegnanti e 135 bambini, rappresentanti di 22 scuole situate nel comune di Tuzla. Il nostro team era composto da 4 arte terapeuti, una musico terapeuta, 3 dramma terapeuti, da uno psicoanalista supervisore, dalla presidente dell’organizzazione e da 12 interpreti, tutti nativi della ex Yugoslavia. La finalità dell’intervento é stata quella di formare insegnanti, con un corso intensivo di 15 giorni, all’uso delle modalità e le tecniche delle terapie espressive con i bambini e gli adolescenti delle scuole della città.
Il progetto proposto partiva dal presupposto che gli insegnanti ai quali era rivolto il corso di formazione avessero, inevitabilmente, vissuto in prima persona vicende traumatiche durante la guerra e che, per primi, necessitassero di uno spazio in cui potersi prendere cura di sé e delle proprie ferite. D’altronde non c’é modo migliore di apprendere delle tecniche che quello di averle prima sperimentate su se stessi: quindi la prima settimana gli 87 insegnanti sono stati divisi in 4 gruppi, che hanno lavorato separatamente, la mattina con l’arte terapia e il pomeriggio con dramma e musico terapia.
La prima necessità nel nostro lavoro di terapeuti, e questo soprattutto quando si crea un gruppo che ha il compito di affrontare temi così delicati e profondi, é di creare un ambiente protetto, sicuro, di ascolto e non giudicante. Seduti in cerchio abbiamo iniziato insieme, 17 insegnanti ed io, con l’indispensabile aiuto dell’interprete, un processo di creazione di un rapporto e di un calore umano molto particolare, fatto di profondo rispetto reciproco, di ascolto e di sostegno. Ho chiesto agli insegnanti di dare ognuno una forma ed un colore ad una gamma di sentimenti, che andavano dalla gioia alla paura, alla rabbia, senza preoccuparsi del risultato estetico dei propri prodotti, ma solo di esprimere come essi sentivano e vedevano questi sentimenti. Ognuno ha iniziato a raccontare con i colori e le forme le sfumature del proprio sentire, dando forma e voce alle paure, alle speranze, e alla propria personale, unica ed irripetibile, modalità di essere e percepire il mondo.
Poi ci siamo di nuovo riuniti in cerchio, e uno alla volta gli insegnanti, riferendosi alle proprie immagini, hanno iniziato a parlare di sé stessi, dei propri vissuti, delle proprie emozioni. E’ stato come vedere le porte dell’animo di ognuno aprirsi piano: dopo anni di buio e di abissi, nelle stanze nascoste dentro di loro poteva iniziare a penetrare un po’ di luce. Gli orrori, la paura, il dolore celati e inascoltati per anni potevano finalmente uscire, trovare una forma esprimibile e comprensibile, trovare degli occhi e delle orecchie disposti a vedere, ad ascoltare e a comprendere. Prendersi cura di se stessi, poter condividere profondamente i propri sentimenti ed allo stesso tempo trovare un nutrimento alla propria energia creativa ed al piacere attraverso l’uso dei materiali artistici, ha attivato un processo che somiglia all’esperienza di un contadino quando ara un terreno incolto e arido, lo concima abbondantemente e poi vi pianta dei semi e inizia a coltivarli.
Nel corso della settimana il gruppo é diventato un insieme organico, formato dall’intreccio delle energie di 17 persone che hanno cooperato ad un lavoro di auto-rigenerazione, riappropriandosi della fiducia in se stessi e della speranza. Nelle immagini prodotte dagli insegnanti, con il passare dei giorni, era visibile la crescita e l’arricchimento delle loro capacità espressive e creative. Mentre le esperienze e i sentimenti terribili vissuti durante la guerra prendevano forma e acquistavano senso e significato, il terrore, la rabbia e l’impotenza potevano diventare finalmente sentimenti gestibili, perdendo la forza di spingere chi ne era stato vittima nel baratro senza ritorno del http:\\/\\/psicolab.neta.
Dopo essere stati espressi e condivisi profondamente, i vissuti di ciascuno potevano essere connessi con le vicende alterne dell’esistenza umana e lasciare spazio alla possibilità di godere di nuovo pienamente degli aspetti positivi dell’esistenza. Negli ultimi giorni gli insegnanti hanno raccontato di sentirsi delle “persone nuove”, e completamente rinfrescati.
La funzione del “testimone” é una delle più importanti nel lavoro con i traumi. Testimoni sono coloro che ascoltano con empatia tutto l’orrore che la persona esprime, e vi resistono, da questo momento il protagonista non é più solo. Da questa condivisione nasce anche nella vittima del trauma la possibilità che una parte di sé veda e ascolti, restando ad una certa distanza dai vissuti: il testimone crea la possibilità di contenere e sopportare ciò che fino a poco prima veniva sentito come inumano, inspiegabile e distruttivo.
L’intero popolo bosniaco durante la guerra si é sentito abbandonato e dimenticato dal mondo, gli insegnanti di Tuzla sono stati vittime di pulizie etniche, violenze, assassinii e deportazioni di massa, drammi che non sono stati visti e riconosciuti né come traumi personali che collettivi.
La seconda settimana è stata dedicata al lavoro con un gruppo di 37 bambini di età tra i 6 e i 12 anni, bambini scelti e accompagnati dagli insegnanti stessi. Questa volta le attività sono state condotte dagli insegnanti con la mia supervisione.
I bambini sono stati divisi in due gruppi, e sono stati invitati a sedersi in cerchio e a presentarsi, inizialmente verbalmente e successivamente disegnando un simbolo di se stessi. Poi di nuovo riunendosi in cerchio, sono stati invitati a parlare uno alla volta al gruppo di quello che avevano espresso attraverso i disegni. Molti di loro erano piccolissimi durante la guerra, alcuni non erano ancora nati, ma tutti erano figli di persone che avevano vissuto la guerra in prima persona, subito lutti e rischiato la propria vita, alcuni avevano perso un parente molto vicino.
Shamir, 6 anni, quando è arrivato tra noi, era appena uscito dall’ospedale dove aveva subito un intervento chirurgico molto delicato. Era il più piccolo del gruppo, ma sembrava ancora più piccolo e gracile di quello che era in realtà: ripiegato su se stesso, triste, parlava pochissimo e con un filo di voce, guardava in basso tutto il tempo e il suo primo disegno é stato un albero secco e senza foglie. Diversi altri bambini nel gruppo mostravano difficoltà di relazione con gli altri, ma fin da subito, così come era già successo con gli insegnanti, hanno percepito la qualità dello spazio che veniva loro offerto e ne hanno fatto il miglior uso possibile per se stessi; erano stati invitati a partecipare a qualcosa di nuovo: questa volta nessuno voleva insegnare loro qualcosa. Li avevamo invitati lì con l’intenzione di fornire loro degli strumenti per esprimersi, sostenendoli pienamente e accogliendo, senza dare alcun giudizio, i loro disegni, ascoltando con rispetto le loro parole, e con altrettanto rispetto i loro silenzi. Gli insegnanti hanno saputo ricreare e offrire ai propri bambini quello stesso tipo di atmosfera che avevano appena assaggiato per se stessi. Anche i bambini hanno disegnato la paura, la gioia, l’amore, la tristezza e la rabbia e poi hanno creato, tutti insieme, un grande spazio tridimensionale in cui collocare i sentimenti rappresentati. Il terzo giorno é successo qualcosa che stenterei a credere se non lo avessi visto con i miei occhi: due gruppi di 18 bambini ciascuno hanno costruito, usando in gran parte materiali riciclati e poverissimi, prati, alberi, laghi, strane abitazioni, caverne, nidi di uccelli e molto altro, restando concentratissimi e in totale silenzio per diverse ore. Regnava una pace rara per quel numero di bambini, ma non solo: si era stabilito tra loro un senso di solidarietà e di cooperazione straordinario. Quelle due opere meravigliose dal punto di vista creativo, avevano un significato simbolico importantissimo per loro: erano la rappresentazione dello spazio psichico che i due gruppi erano riusciti a creare, un luogo in cui ognuno poteva sentirsi rispettato e riconosciuto, che poteva contenere i sentimenti di ognuno e in cui ognuno poteva scoprire di vivere gioie e dolori simili. I bambini inizialmente più difficili adesso erano completamente coinvolti nelle attività, si aiutavano a vicenda e apparivano sciolti e a proprio agio. Shamir addirittura scherzava con quelli più grandi facendo il verso di tirare colpi di box…! Stavano vivendo un’esperienza che li aiutava a consolidare e a fortificare il senso di sé.
L’ultimo giorno abbiamo chiesto ad ogni bambino di rappresentare la più grande speranza e la più grande paura. Le paure e le speranze dei bambini raccontano moltissimo riguardo al mondo che li circonda costruito da noi adulti. Questi bambini chiedevano tutti sicurezza per sé e per le proprie famiglie e temevano tutti i morsi dei cani neri: incarnazioni dell’imprevedibilità degli istinti, di ciò che da un momento all’altro può trasformarsi in una furia distruttiva, così come era successo durante la guerra, quando la regressione agli istinti umani più primitivi si era spinta fino alla perdita del senso della realtà e dell’equilibrio. Ricordo la serietà del volto e la compostezza di uno dei bambini mentre, mostrando il proprio disegno, spiegava al gruppo come fosse importante che le persone tenessero al guinzaglio i cani pericolosi. Stava ricordando a noi adulti la responsabilità di gestire i nostri istinti…. Forse lui era inconsapevole della lezione che stava dandoci, ma la consapevolezza è cosa che spetta a noi cosiddetti “grandi”….
L’ultimo giorno Shamir ha disegnato se stesso davanti ad un bosco, pieno di alberi folti e verdi e poi, su un altro foglio, un flacone di medicine con una croce sopra, e ha detto a tutti, questa volta guardandoci negli occhi e con voce forte e chiara, che avrebbe voluto non dover prendere mai più medicine e ha parlato a tutti della sua malattia. Più tardi l’ho visto andar via accompagnato dal padre, era raggiante, camminava diritto, con le spalle aperte: aveva scoperto e dimostrato a se stesso e a tutti noi, che il suo piccolo corpo e la sua anima di bambino convalescente contenevano un coraggio e una forza enormi, tanto da sfidare la sua malattia. Il piccolo grande Shamir è stato la prova tangibile di come sia possibile trovare in se stessi la fiducia e la forza di trasformare il proprio destino.
In queste due settimane i bambini, gli insegnanti, il nostro interprete ed io abbiamo compiuto insieme qualcosa di molto simile ad un Rito. Abbiamo celebrato ed onorato la Morte e la Nascita, partecipando profondamente e intensamente ognuno ai sentimenti e agli affetti dell’altro. L’esperienza creativa ha reso possibile un livello di espressione di sé molto profondo e attraverso la rappresentazione simbolica le perdite e i lutti di ognuno hanno potuto ricevere finalmente una degna sepoltura. Rappresentare e comunicare attraverso le immagini ha attivato la parte sana e le energie creative di ognuno, ha reso possibile il contenimento e l’integrazione delle esperienze e ha consentito agli adulti come ai bambini di riconquistare fiducia in sé stessi. I piccoli o grandi orrori privati, le ferite, non sono spariti, ma dopo quest’esperienza ognuno ha imparato che può prendersene cura. Nessuno di noi può scongiurare che qualcosa di terribile possa accadere in futuro nelle nostre vite, ma tutti abbiamo sperimentato che in noi stessi abitano potenzialità inaspettate che possiamo scoprire e nutrire e che, finché saremo vivi, niente riuscirà mai ad ucciderle del tutto.
L’intero articolo è consultabile con il titolo “Il coraggio di sopravvivere” nel sito www.unive.it, home>biblioteche>DEP