Nel processo di selezione del personale esistono due aree di lavoro: oggettiva e soggettiva.
L’area oggettiva riguarda i dati che si prestano ad una interpretazione univoca. Gli indici possono essere differenti: test attitudinali, test professionali, test psicologici di personalità, indici comportamentali (come ad esempio la puntualità, l’ordine e la cura nell’abbigliamento del soggetto, ecc.). La coerenza del discorso, la logica di esposizione ed argomentazione, può ancora essere fatta rientrare nei dati oggettivi.
Il resto, ovvero quel processo che si dispiega dal contatto con il candidato per fissare l’appuntamento all’incontro vero e proprio e che culmina nella scelta di uno o più candidati, rientra nella sfera soggettiva.
L’area soggettiva riguarda i dati ricavati ed elaborati da due Sé differenti che si sono incontrati in un dato luogo e tempo. Rientrano in questa seconda area la nostra visione del mondo, gli schemi con cui lavoriamo, gli archetipi più sensibili e facilmente destabili, in una parola la nostra storia personale. Quando due Identità si incontrano, per loro natura tendono ad emettere un giudizio di valore l’una dell’altra, perché conoscendo l’Altro, definendolo quindi con un’etichetta classificatoria, riduciamo le nostre ansie, il bisogno di conoscere sempre tutto, l’ansia di dover vivere in un mondo con milioni di altri individui (Carli, Paniccia e Lancia, 1988). Il giudizio è un giudizio di valore, nei colloqui di selezione “riusciti”; è un giudizio morale laddove nel colloquio selettivo qualcosa non ha funzionato, il Sé selezionatore è trasceso, ha travalicato i suoi confini ed ha espresso un giudizio non pertinente ai fini del lavoro. In sostanza ha violato il setting.
La parte oggettiva della selezione fa riferimento a strumenti e metodologie carta-matita, metodi statistici e standard che permettono la raccolta di dati utili alla selezione. L’anamnesi di questi dati è fondamentale, ma la selezione si gioca tutta nella seconda parte, quella soggettiva.
La parte soggettiva fa riferimento soprattutto al colloquio di selezione e alla scelta del candidato.
I dati oggettivi sono importanti, ma è nel colloquio che si gioca il processo di selezione. Infatti solo alla fine del colloquio si perviene ad un giudizio di valore che permette la scelta di quella persona piuttosto che di un’altra.
Per questo ritengo utile soffermarsi sulla fase principale del processo soggettivo di selezione: il colloquio.
Metodologia del colloquio di selezione
Del colloquio come strumento psicologico si è parlato molto e molto si è scritto. Importanti autori hanno approfondito il tema del colloquio, sia esso individuale che di gruppo, clinico o di selezione o di intervista (Lis et al., 1991 Trentini,1995; Zammuner,1998).
Quello che ci interessa in questa sede è il colloquio come strumento di selezione.
La metodologia può essere seguita in modo esemplare, quasi accademico. Si può seguire un canovaccio; essere guidati da una serie di domande che si hanno “in mente”; registrare il Comportamento Non Verbale (CNV) della persona che abbiamo di fronte; elaborare un profilo di personalità seguendo determinati schemi pre-ordinati, ecc.
Tutto questo mette il selezionatore al riparo dalle insidie della soggettività? Apparentemente sì. In realtà questa è un’illusione (Hillman, 1995).
Perché quando due persone si incontrano, vengono attivati dei meccanismi di difesa, legati principalmente all’ansia dell’interazione con un altro Sé, che non permettono un’analisi fedele di un colloquio di selezione. Mantenendo stabili i luoghi fisici, cambia il tempo, cambiano le persone.
Il selezionatore ha una prima impressione del selezionato appena lo vede; i dati derivanti dal CNV sono registrati ma anche interpretati e l’interpretazione è personale, non oggettiva e universale. Le stesse risposte vengono percepite e registrate in modo diverso in funzione del tono con cui vengono dette (Watzlawick et. al, 1967)
Esiste quindi una forte componente soggettiva nel colloquio, nonostante i tentativi di standardizzazione delle procedure. Nel colloquio ci sono due Identità che giocano una partita, poste in posizione di non equilibrio, con obiettivi e motivazioni (spesso) precise.
Paradossalmente nei test di selezione (siano essi di personalità che attitudinali o di competenze) la persona incontra uno strumento realizzato dall’uomo ma non l’uomo.
Nel colloquio invece l’incontro è diretto, non mediato da altri strumenti e questo qualifica come soggettivo il colloquio.
Quando due soggettività si incontrano non possiamo che trovarci in presenza di una soggettività più ampia.
Limitiamoci in questa sede alla trattazione del colloquio di selezione, anche se capiterà di usare teorizzazioni o terminologie appartenenti nello specifico alla clinica. Limitiamo anche la nostra riflessione su una specifica tipologia di colloquio di selezione: due persone vis a vis.
Analisi del colloquio: gli elementi perturbanti
Prendiamo in considerazione tre fattori perturbanti che distorcono l’elaborazione degli elementi emersi dal colloquio: l’ansia, l’effetto alone e la personalità del selezionatore.
Conoscendo questi fattori è possibile gestire efficacemente il colloquio. Questi meccanismi difensivi sono legati a strutture di personalità e, in un certo qual modo, rappresentano noi stessi, sono una parte, una emanazione del Sé che dovremmo conoscere bene per diventare buoni selezionatori.
L’ansia durante il colloquio
L’ansia genera un bisogno urgente di classificare la persona che si ha di fronte. L’ignoto fa paura e, nel momento dell’incontro vis a vis, il selezionatore si trova di fronte ad un semi-estraneo. “Semi” perché, probabilmente, lo ha già conosciuto attraverso il suo curriculum e ne avrà sentito la voce per un appuntamento concordato telefonicamente. È possibile che il contatto telefonico abbia generato delle fantasie, delle immagini nel selezionatore, ma questo, forse, solamente per i selezionatori agli inizi della loro carriera. Un selezionatore esperto, sarà probabilmente assuefatto a determinati comportamenti meccanicistici, routinari, tanto da non creare delle fantasie attorno alla persona contatta: centinaia di colloqui rendono una voce unica, monotona come quella di un riproduttore vocale.
Questa conoscenza limitata e parziale non mette al riparo dall’ansia che un nuovo incontro genera. Vi è la tendenza, soprattutto nel giovane selezionatore, ad entrare in uno stato ansiogeno quando incontra il candidato. Perché subentra il bisogno di conoscere l’altro di arrivare a potersi fidare di quello che dice e quindi di poterlo classificare, etichettare. Quest’ansia spinge quindi a ridurre i tempi dell’analisi, come in una sorta di acting out, ad arrivare subito ad un parere classificatorio. Già dalla stretta di mano si vorrebbe capire se quella persona lì è adatta o no, può ricoprire soddisfacentemente il ruolo per cui si è candidato.
L’eccesso di ansia manda in corto circuito le funzioni psichiche, limitando il lavoro del selezionatore che, in ultima analisi, è quello di formarsi un’opinione del candidato.
La falsificazione dei dati avviene inconsapevolmente: cercando di formulare un giudizio sul candidato nei primi trenta secondi (tempo necessario che passa dalla presentazione al far sedere il candidato per metterlo a suo agio) si finisce inevitabilmente per costruire un’immagine della persona che abbiamo di fronte proseguendo così nel tentativo di verificare la nostra idea iniziale.
Questo è un errore non solo nel senso attribuito da Popper ma, andando oltre, è un errore di impostazione teorica. Il colloquio di selezione è un momento, definito da precise coordinate spazio-temporali, in cui due Sé si incontrano e cercano di esplorare insieme i tratti di personalità specifici di uno, il candidato, per arrivare ad avere un quadro generale conosciuto da entrambi.
Il colloquio rappresenta un momento in cui due Sé si esplorano a vicenda, cercano di conoscersi, cercano di valutarsi e anche di attribuire l’uno un giudizio verso l’altro. È una cosa normale, nel senso che è nella norma, ovvero che avviene spesso, con regolarità. Il candidato può essere abile a nascondere alcuni eventi, alcuni episodi della sua storia che potrebbero metterlo in cattiva luce, ma non può nascondere se stesso. E così avviene per il selezionatore. Il selezionatore neutrale mostrerà se stesso, ovvero la sua neutralità. Solo usando come interfaccia un computer, nei colloqui on line in chat senza telecamera, è possibile nascondere (anche se non del tutto) se stessi.
Dunque se il Sé non può essere nascosto, ha senso un’indagine basata su un’impressione avuta in meno di 30 secondi e generata da una nostra insicurezza, da un non equilibrio emotivo-comportamentale che ha permesso all’ansia di fare breccia?
Scopo del colloquio è raccogliere un numero sufficiente di informazioni (storiche, verbali, comportamentali, ecc.) per poter avere un’opinione dell’Altro. È un’indagine esplorativa dettata dalla curiosità e dalla necessità, in quanto siamo pagati per farlo, di avere un’opinione dell’altra persona.
Il colloquio di selezione non è un’indagine investigativa di tipo poliziesco volta a scoprire i lati oscuri, l’Ombra direbbe Jung, dell’altro portandolo ad una confessione o smascherando le sue menzogne.
Il “farsi un’idea dell’altro” non può quindi svilupparsi in 30 secondi, ma deve occupare la maggior parte della durata effettiva del colloquio. Il selezionatore non classica l’altro poiché l’altro non è classificabile. L’ansia che spinge ad una classificazione distorce la natura del colloquio di selezione, alterandone i parametri.
Controllare l’ansia del dover classificare tutto e tutti è possibile solo con l’esperienza e la maturazione dell’individuo.
Pressioni sociali e scarso sviluppo maturazionale possono portare a delle distorsioni di cui nemmeno il selezionatore è consapevole.
L’ansia deve essere quindi gestita in modo adeguato. Non è possibile eliminarla poiché è fisiologica (il “salto”, il dover conoscere un Sé nuovo porta sempre un contenuto ansiogeno), ma è possibile controllarne gli effetti e gestirla, cercando di non esprimere immediatamente un giudizio, lasciando che nel corso del colloquio si sviluppi un’opinione dell’altro.
Controllare l’ansia è un segno di stabilità emotiva, a mio avviso tratto essenziale per poter effettuare una selezione metodologicamente corretta.
L’effetto alone
Quando incontriamo una persona non proviamo istintivamente un sentimento di simpatia o antipatia? Un interesse, una curiosità verso l’altro? Possiamo provare anche indifferenza, ma questa è più rara, rispetto ad una variegata costellazione di emozioni che l’altro suscita in noi. L’uomo che è di fronte a noi è avvenente? È fisicamente aitante? La donna che abbiamo di fronte è sciatta? Oppure ben curata? Ha fascino?
Tutti questi elementi rientrano nel colloquio di selezione.
Possono essere marginali, ma possono anche diventare centrali.
L’effetto alone non è altro che questo: una parte dell’individuo ottenebra la nostra capacità di giudizio, la qualità rilevata (che sia un’impressione o una constatazione oggettiva, questo non ha importanza) diventa l’essenza della persona, per cui se la qualità risulterà positiva, allora la persona stessa sarà giudicata molto positiva. Idem per il contrario.
Il furor giudicandi e la non conoscenza di certi meccanismi psicologici, possono portare a dei grossi errori, il più grave di tutti senza dubbio è quello di inserire nella struttura (aziendale, consulenziale, scolastica, ospedaliera, ecc.) una persona poco adatta al ruolo.
Non possiamo sfuggire al fascino che il selezionato sta cercando di esercitare per sedurci e ottenere il posto. Così come non possiamo controllare le emozioni che, più o meno consapevolmente, il candidato suscita in noi.
Possiamo però conoscere i nostri “punti deboli” e valutarne, approssimativamente, l’influenza. Non si deve valutare solo il candidato. Nel colloquio sono presenti due persone e la valutazione non deve essere unidirezionale. Una volta terminato il colloquio dovremmo porci diverse domande: come mi sono sentito io con questa persona? Ho avuto qualche perplessità nel colloquio? Cosa mi ha convinto? Cosa non mi convinceva nel suo atteggiamento? Mi ha affascinato? Ecc.
Questo rappresenta solo un campione, peraltro limitato, delle possibili domande che dovremmo porci terminato il colloquio. E questo per un motivo tanto ovvio quanto immancabilmente trascurato dagli psicologi e dai selezionatori: noi non siamo infallibili e non facciamo selezioni per un salomonico deliri di onnipotenza.
Si fanno le selezioni del personale per poter inserire efficacemente un candidato, di cui si ha bisogno e che si reputa idoneo, all’interno di una struttura.
Può piacerci o meno, ma questo dovrebbe essere un aspetto trascurabile e irrilevante nella selezione. Ed invece diviene spesso il fattore chiave della selezione. Nell’organizzazione viene spesso inserita la persona che piace di più al selezionatore, la più simpatica, la più estroversa, indipendentemente dal potenziale contributo che può dare all’organizzazione stessa.
Un esempio concreto aiuterà a chiarire meglio la mia posizione.
Lavorando in un determinato Ente una collega, non psicologa, selezionatrice del personale interno aveva scelto una persona brillante, energica, seducente. Poteva quindi inserirsi bene all’interno dell’organizzazione stessa. I problemi però non tardarono ad arrivare perché le tre variabili su esposte (brillante, energica, seducente) non erano le variabili rilevanti per condurre il colloquio di selezione relativo a quella specifica posizione.
Si stava cercando un tutor, ovvero una persona in grado di gestire un gruppo (la classe) e di soddisfarne, nei limiti del possibili, eventuali bisogni (tipo di stage da effettuare, materiale didattico non ricevuto, ecc.). Requisiti indispensabili della persona che si stava cercando erano quindi una buona capacità organizzativa, una buona capacità di gestione del conflitto (le frustrazioni dei corsisti), ottime capacità di problem solving e di relazionarsi. Ovviamente tutti noi sappiamo che la descrizione del profilo è solo un ideale, però si doveva valutare, nel processo di selezione, che le qualità indicate fossero presenti nella persona prescelta.
Il fatto che poi fosse una persona brillante e seducente poteva essere valutato come fattore secondario, per poter effettuare una scelta efficace.
La persona scelta non era in grado di relazionarsi, se non attraverso la seduzione, e non era nemmeno in grado di gestire il conflitto. Difettava nella pazienza, ovvero non aveva la pazienza di gestire le problematiche portate avanti dai corsisti, cosa fondamentale per fare il tutor. Poteva andare bene come funzionario commerciale della società, ma non come tutor!
Questo è, in sintesi, il problema generato dall’effetto alone: una caratteristica del candidato (la brillantezza ad esempio) ha offuscato nel selezionatore le sue capacità di valutazione portandolo a scegliere una persona inadatta per quel ruolo.
Bisogna resistere ai tentativi di seduzione da parte del candidato, cercando di essere obiettivi e di cercare gli elementi necessari per valutare ciò che interessa.
Si valutano gli skill, le competenze della persona, non la sua Personalità.
Il Sé che conduce il colloquio dovrebbe discernere quegli elementi utili per esprimere una valutazione, come il chimico dovrebbe essere in grado di dividere gli elementi che compongono una sostanza ed essere in grado di scegliere e quindi di analizzare solo quelli più utili per il suo scopo.
La seduzione è il principale nemico del selezionatore, ma non dubito che ci siano altri “nemici”. L’effetto alone non si basa solo sulla seduzione, ma anche su altri meccanismi.
La seduzione è forse il più insidioso dei meccanismi patologici presenti nel colloquio, in quanto porta spesso ad inserire nel contesto organizzativo persone potenzialmente dannose per l’organizzazione stessa.
Gli altri meccanismi, su cui non intendo soffermarmi in questa sede, possono risultare difensivi per il candidato e “offensivi” per il selezionatore, nel senso che tendono a portare in luce elementi non piacevoli, spesso irritanti (ansia, sgradevolezza, noia, ecc.) tali da creare un effetto alone negativo, ovvero un giudizio negativo su un candidato potenzialmente interessante (cfr. Lingiardi, Madeddu.,1991).
La personalità del selezionatore
Veniamo dunque alla personalità del selezionatore.
Non è raro che un colloquio di selezione condotto da due intervistatori dia, alla fine, dei risultati curiosi, alle volte al limite del comico.
Al di là dei costi, capita spesso che due personalità diverse che lavorano in team per selezionare dei candidati, spesso giungano a delle valutazioni discordanti. Ironia della sorte, in questo caso se i due selezionatori raccontassero in un libro come hanno percepito il candidato, forse avremmo in mano la descrizione di due persone diverse! Non necessariamente un dottor Jekill e un Mister Hyde, sia chiaro. Ma comunque avremmo due descrizioni profondamente diverse…ricordiamo la storia dei ciechi e dell’elefante.
A tal proposito, vorrei fare una citazione:
Si vede solo ciò che si osserva e si osserva solo ciò che già esiste nella mente (Alphonse Bertillon).
Osserviamo la realtà secondo determinati schemi cognitivi, costruiti in anni di esperienza, modellati dalla storia personale di ogni individuo (Watzlawick,1976). È chiaro quindi che quando due Sé si incontrano, l’opinione, la valutazione, che ognuno dà all’altro, nasce necessariamente dal rapporto di coppia.
Nello stesso modo, due selezionatori che valutano una persona contemporaneamente, avranno, presumibilmente il più delle volte, un’opinione simile, ma non sarà raro, specie se hanno personalità molto diverse, che giungano a valutazioni differenti.
I contrasti nascono infatti quando non si valutano più le caratteristiche ritenute importanti e le potenzialità della persona, ma quando si valuta la persona stessa, cosa metodologicamente ed eticamente non corretta.
A tal proposito voglio riportare un caso.
Il colloquio di selezione venne condotto da un selezionatore A con il controllo e la supervisione di B.
Alla fine del colloquio emersero due valutazioni differenti sul candidato.
Era piaciuto molto, e quindi ritenuto idoneo, al supervisione. Aveva lasciato perplesso il selezionatore A, colui che aveva condotto il colloquio.
B: “Credo si possa inviare il Suo profilo al cliente.”
A: (pausa di silenzio prolungata) “Non sono così sicuro, preferirei aspettare…vedere altri candidati prima di decidere.”
B: “ Perché? Mi sembrava adatta per il ruolo. Ha già avuto esperienze in tal senso, cosa non ti convince? E poi è interessata per la posizione e mi sembra motivata”
A: “Oggettivamente dal suo curriculum emerge che ha avuto esperienze nel ruolo, ma sono state di breve durata, tre o quattro mesi. E poi è oltre un anno che non lavora e non sono riuscito a capire il perché. Sai, come dire…sono emersi alcuni aspetti che non mi convincono molto.”
B: “Sì? Quali?”
A: “Ho dovuto rifare le domande più volte e benché fossero semplici, ha fatto fatica a rispondere. Non ho avuto un feedback positivo come il tuo.”
Dall’analisi di questo breve discorso tra i due selezionatori nella fase post-colloquio emerge chiaramente come il primo non sia del tutto convinto sulla candidatura appena visionata, mentre il secondo risultava favorevole alla presentazione del candidato in azienda.
Dire come è terminata la vexata questio non avrebbe senso ai fini di questo lavoro.
Tuttavia si possono trarre elementi di interesse da questo breve scambio di opinioni.
Il candidato ha fatto due impressioni diverse. Com’è possibile?
È possibile, in quanto il colloquio è il frutto dell’incontro di due o più Sé, per cui l’opinione di un Sé può essere diversa da quella di un altro Sé. Che poi la diversità sia minima o considerevole, dipende da diversi fattori.
Il selezionatore A si era soffermato su alcuni elementi oggettivi, il curriculum vitae, e su alcune considerazioni emerse durante il colloquio – la difficoltà del candidato nel rispondere alle domande e il dover ripetere più volte le stesse.
Il selezionatore B aveva valutato in modo differente il curriculum vitae, sottolineando il fatto che il candidato avesse già ricoperto quel ruolo in passato. Il selezionatore A aveva “visto” una realtà diversa, ovvero aveva notato la durata breve dei lavori e lo stato di inattività prolungato.
È possibile quindi che entrambi i selezionatori siano stati oggetto di un effetto alone, negativo nel caso di A e positivo nel caso di B.
Durante il colloquio entrambi hanno ascoltato quello che il candidato aveva da dire, ma la “lettura” e l’interpretazione di quanto detto è stata differente. Nel caso di A le continue richieste da parte del candidato di ripetere la domanda e il tono dimesso della voce hanno contribuito a confermare l’opinione negativa generata dalle aspettative negative derivanti dalla precedente lettura del curriculum. Nel caso di B le risposte erano state giudicate soddisfacenti, la persona in sé interessante e valida per la candidatura in oggetto.
Nessuno si ricorda perfettamente tutto quello che gli accade attorno, istante per istante e, di conseguenza, anche i due selezionatori avevano fissato nella memoria solo gli elementi che rientravano nei loro schemi pre-costituiti o costituiti immediatamente all’inizio del colloquio.
Al termine del colloquio i due selezionatori si ricordavano solo le impressioni rimaste nella loro memoria e le impressioni erano state orientate sin dall’inizio dalla predisposizione dei due Sé a vedere quello che volevano vedere.
Mi rendo conto dell’eccessiva visione filosofica di quanto detto nelle righe precedenti.
E tuttavia risulta difficile uscire dall’impasse.
Così come lo è per i selezionatori.
A non riesce a portare prove sufficienti per avvalorare la sua ipotesi. Riesce solo a dire che la persona ha avuto esperienze brevi e discontinue e che non lavora da troppo tempo.
B al contrario sottolinea come il candidato gli abbia fatto “un effetto positivo”, che le esperienze avute sono un indice importante ai fini di una valutazione e che il candidato stesso, all’interno del colloquio, aveva mostrato interesse per la posizione in oggetto.
Tutto ciò era sufficiente per B ma non per A.
Da queste impasse si può uscire solo prendendo delle decisioni soggettive!
La soggettività non si può eliminare dal colloquio!
Succede ogni giorno che il selezionatore, anche il più oggettivo e professionale, selezioni una persona in funzione della sua personalità. Alcuni caratteri ci piacciono e percepiamo subito un certo feeling, con altri questo non avviene.
È importante però che il selezionatore non trascuri il fatto che se la persona selezionata non è un suo futuro collaboratore, la piacevolezza o meno dell’altro non deve essere presa in considerazione, nella valutazione finale.
Mi è capitato di selezionare una persona esteticamente sgradevole, con difficoltà a rapportarsi con gli altri, per sua stessa ammissione, non molto disponibile a relazionarsi coi colleghi… ma si era candidata per una posizione come programmatore informatico! E la sue vaste competenze, accumulate in oltre due decenni di esperienza, mi orientarono positivamente verso questa persona.
Oppure capita anche di incontrare una persona poco educata che, senza nemmeno rendersene conto, ti da dello stupido, sottolineandolo più volte, ma come operaio in catena andava benissimo, era fortemente motivato per la posizione e, soprattutto, il colloquio, al di là dell’incidente sul piano personale, era stato positivo.
Bisogna considerare di volta in volta la situazione contingente ed essere freddi come chirurghi, anche se la cosa non sempre riesce. In questo senso dovremmo tenere a mente il monito dei primi psicoanalisti e considerarci dei chirurghi nella valutazione.
Se la personalità del selezionatore e del candidato avessero il sopravvento sulle metodologie per una valutazione il più possibile oggettiva del candidato stesso, allora il colloquio sarebbe un colloquio fallito, non riuscito. E un colloquio non riuscito invaliderebbe anche i dati oggettivi di una selezione: test e valutazione del curriculum vitae.
Purtroppo succede e più di quanto possiamo immaginare. Quante volte abbiamo sentito dire frasi simili: “ma chi ti ha scelto?”, “come hai fatto a farti selezionare?”. Frasi che indicano come la selezione non sia riuscita, perché è stato scelto un candidato non perfettamente rispondente alle aspettative.
Questo può succedere per fattori estrinseci – offrire una remunerazione bassissima per un ruolo difficile da ricoprire e, sopratutto, dai livelli retributivi di mercato molto superiori-; oppure per fattori intrinseci, ovvero per uno degli effetti menzionati in precedenza.
Del resto, alle volte, non è possibile prevedere gli sviluppi che si avranno dall’incontro di due personalità. Una volta, durante una lezione universitaria, un professore ci disse che, colloquiando con un grande psicoanalista, si era sentito dire da quest’ultimo come fosse “difficile effettuare un’analisi con una bella donna”. Al di là della battuta di spirito, possiamo notare come sia difficile avere un controllo della propria personalità, dei propri pensieri, quando si incontra un altro Sé. Può essere una donna affascinante, ma può essere anche una donna sgradevole o una persona che suscita antipatia.
Queste emozioni rimandano a cose non professionali e che dovrebbero esulare il colloquio di selezione.
L’empatia serve per entrare in contatto con l’altro, ma il giudizio emotivo danneggia la valutazione.
Verso un’etica del colloquio: verità, valore e giudizio
Siamo giunti alla conclusione che la soggettività non si può metodologicamente standardizzare né tanto meno eliminare dal colloquio.
E la soggettività deve condurre il selezionatore ad una decisione, ovvero ad una valutazione del candidato il più possibile “trasparente”, esente quindi da giudizi scatenati dall’effetto alone, disturbati dall’ansia della novità e della conoscenza immediata, inficiati dal nostro giudizio personale.
Sembra utile riflettere sulla differenza tra giudizio e valore.
Giudicare significa “valutare qualcuno o qualcosa a seconda delle qualità, meriti, ecc”, ma anche “decidere con sentenza i fatti o imputazioni di cui si tratta in giudizio”.
Valutare significa “determinare il prezzo, il valore economico di un bene”.
Con la valutazione noi escludiamo dal processo scientifico di selezione la dimensione morale, che può rientrare nella teologia e nella filosofia, ma non in psicologia né tanto meno nella selezione del personale. Altrimenti la selezione stessa non sarebbe etica.
Il giudizio implica una valutazione morale del soggetto, cosa non ammessa nel processo di selezione. Il selezionatore deve essere un selezionatore e non un sacerdote o un giudice. Il ruolo non gli compete. Giudicare significa porsi al di là della legge, significa impersonare la legge stessa e attribuirsi, in modo non corretto, ruoli impropri. Giudicare significa essere depositari di una verità, verità che, come sottolinea Bion, non è di per sé conoscibili (Bion, 1970)
Il giudizio in sé è però inevitabile. È un’espressione della nostra società, dei retaggi di una millenaria cultura cristiana mal interpretata; è il frutto di secoli di civilizzazione. E forse, anche il frutto dell’immaturità dell’individuo. Non scomoderei in questa sede San Tommaso né tanto meno Sant’Agostino. Il problema risiede nella personalità non pienamente realizzata dell’individuo. Questa fragilità strutturale di fondo può generare un’ansia di giudizio. “Giudica per non essere giudicato”.
Kolhberg (1976) ha effettuato importanti studi sullo sviluppo morale dell’individuo e così anche Piaget (1932). Entrambi hanno concepito lo sviluppo morale come un processo stadiale progressivo.
Io mi permetto di andare oltre.
Lo sviluppo morale avviene sì per stadi, ma è fortemente influenzato non solo dallo sviluppo biologico dell’individuo, ma anche dalla cultura nella quale egli è immerso e, soprattutto, non è, secondo me, un processo così chiaramente sequenziale e lineare. Tutto dipende dalla situazione contingente. Credo che siano possibili anche dei fenomeni di regressione del livello dello stadio.
Così accade per il giudizio morale espresso in sede di colloquio di selezione. Giudicando il candidato, si mette in secondo piano il motivo per cui le due persone si trovano lì; si esula dagli obiettivi della selezione e ci si sofferma su altri aspetti, altri piani di analisi estranei alla selezione stessa.
Il candidato è lì per una valutazione e non per un giudizio.
Inoltre il giudizio ha un rimando storico culturale negativo: si viene giudicati per aver commesso qualche azione negativa. Nelle situazioni quotidiane, nel parlare e nell’agire comune, il giudizio viene connotato negativamente. La sentenza è già stata espressa prima ancora che si formuli un’accusa.
La valutazione invece, assume anche valori positivi. Al di là della stretta definizione economica data in precedenza, pondera diversi attributi del candidato, analizza in maniera sistematica le diverse componenti dinamiche che rientrano nel colloquio (motivazione del candidato, capacità organizzativa, capacità di gestione dello stress, la maturazione derivante dalla propria esperienza di lavoro, ecc.) e permette di avere una visione globale del candidato sufficiente a decidere per una sua idoneità o meno. Valutando il candidato, il selezionatore rispetta l’etica stessa dell’intero processo di selezione: rispetta il candidato, persona che ci sta concedendo il suo tempo; rispetta la metodologia scientifica della selezione, escludendo attributi e giudizi morali, pertinenti ad altre strutture e organizzazioni; rispetta se stesso e la propria maturità personale e professionale.
Un esempio potrà chiarire bene la differenza tra giudizio e valutazione.
Prendiamo un personaggio storico: Adolf Eichmann.
Per chi non lo conoscesse, Eichmann venne soprannominato “il ferroviere di Auschwitz” poiché organizzava i trasporti ferroviari dei lager nazisti. Fu un burocrate spietato ma efficiente. La valutazione dei suoi superiori fu sempre molto positiva. Il giudizio morale che ne diede la storia non poté che essere estremamente negativo. Venne catturato da Israele nel 1961 e condannato a morte l’anno successivo.
Esistono numerosi casi, riportati soprattutto nella letteratura clinica, di persone estremamente dotate sul piano lavorativo ma molto fragili sul piano emotivo-personale (Cremerius,1985)
Non è questa la sede per valutare possibili relazioni e influenze lavorative e professionali di una vita personale piuttosto discutibile.
È necessario però sottolineare come il giungere a conoscenza, in maniera più o meno voluta, di fatti estranei alla professionalità dell’individuo e alla sua personalità –limitatamente a quanto risulta essere inerente per la posizione lavorativa – non debbano influenzare la valutazione. Possono alterare il giudizio del selezionatore, ma questo non deve rientrare, all’interno del processo di selezione.
E giungiamo quindi ad una definizione etica della selezione:
L’etica della selezione consiste nel valutare, attraverso i più opportuni strumenti metodologici, una persona stabilendone il valore e, di conseguenza, la possibilità di occupare il posto per cui si candida.
Il giudizio deve rimanere necessariamente al di fuori di questa sfera.
Nel processo dinamico di incontro tra due persone, deve avvenire uno scambio di informazioni, di conoscenze, che porta entrambi i soggetti ad avere una maggior conoscenza dell’altro, mettendo una persona, il selezionatore, nelle condizioni di reperire un numero sufficiente di dati, sia diretti che indiretti, sia verbali che comportamentali, per giungere ad una valutazione in merito all’idoneità o meno del candidato per la posizione in oggetto.
Conoscendo le dinamiche che possono alterare questa metodologia d’indagine è possibile tenere controllare quei meccanismi che alterano il corso della valutazione, per giungere così ad un processo di selezione definibile come etico.