“Il ricordo della felicità non è più felicità………
il ricordo del dolore è ancora dolore”.
A. Einstein
Gabriele Cremonini aggiunge alla chiusura del suo ultimo romanzo, Amanita, le parole di Einstein. Le ripetiamo perché ne vale la pena: “Il ricordo della felicità non è più felicità…il ricordo del dolore è ancora dolore”. Dicono molto sulla nostra caparbietà nel trattenere la sofferenza e, nello stesso tempo, sulla leggerezza con cui a volte sperperiamo la gioia.
“Contentezza poca”, però, a dire il vero, “miseria tanta”, per i personaggi della Val Limentra, luogo dimenticato dalla storia in cui Cremonini ambienta tutta la narrazione. Stupore piuttosto, stupore davanti al male e una sorta di innocenza nell’avvertire la propria diversità; così colpevole invece agli occhi degli altri. Di chi distrugge l’amanita (unica nota di colore del bosco) a vantaggio della grigia uniformità, più piatta ma meno pericolosa. Sarà per rabbia o per paura, proiezioni del proprio malessere, ma non importa: a Chiapporato non c’è spazio per giustificazioni o finezze psicologiche.
E allora la stessa sorte dell’amanita toccherà a Zelda e a Malvina, belle ragazze (una dal fascino selvaggio, l’altra più delicato), nate a duecento anni di distanza tra loro, ma con un unico destino tragico: il difetto fisico che le accomuna. Un difetto che non è assenza, handicap, mancanza, bensì aggiunta, anomalia estremamente imbarazzante: addirittura un seno in più, “manrovescio della natura”, segno del demonio, distrazione offensiva, e offese saranno Zelda e Malvina soprattutto dagli uomini, perché “dagli uomini arrivano disgrazie e patimenti”, come è facile intuire dalle loro date di nascita: 1669, 1899.
Il luogo, dicevamo, è lontano dalla storia, dal mare, dal progresso: “Posti sperduti, gente ignorante e schiva, buona giusto a far legna e castagne, o badare a pegore o porci e figliare, che servivano braccia”.
Il romanzo si apre con l’ingresso nel mondo di Malvina, non molto gradito, perché in passato una figlia femmina non era mai la benvenuta. Tuttavia poi la bimba viene amata dalla famiglia, teneramente. E’ un amore fatto di cure, gioco, affetto dichiarato, protezione.
Zelda invece nasce dalla violenza e dall’abbandono e verrà amata dalla quieta Desolina di un amore desolato, appunto, ma forte ed esclusivo: “Amore di madre, totale, bestiale”, che può se minacciato rasentare la follia. “Solo chi è madre sa quant’è grande l’amore per la creatura che ha partorito, sia essa cerva, cinghiala, volpe o donna”. La nascita di Zelda avviene in completa solitudine, davvero come se madre e figlia fossero due bestioline del bosco.
A volte ci mette un po’ a disagio una tale vicinanza agli istinti e Cremonini non ci risparmia http:\\/\\/psicolab.neta: il sangue , sia fresco che rappreso, il rutto del violentatore dopo il godimento, la morte in tutta la sua animalità, come quella di chi lascia la vita in un mare di escrementi. E non ci vengono risparmiati i sudori, gli odori “morti”, “la fiatata di vinazzo” dell’uomo che compra all’asta il corpo di Malvina, quando lei, persa la protezione dei suoi, viene venduta, come merce rara, preziosa. Tutto è detto con le parole che sono del popolo e che il popolo di solito non censura.
Bravissimo l’autore a mantenere, dalla prima parola all’ultima, lessico e pensieri ad un livello così basso ed elegante insieme. I critici di Verga lo hanno definito artificio della regressione; quella capacità di sposare il punto di vista della povera gente, perché, com’era di moda allora, l’opera doveva sembrava essersi scritta da sé: una tecnica, quindi. In Amanita se la tecnica c’è non si vede, e siamo sempre immersi nel paese di Chiapporato. Nonostante l’evidente metafora sulla diversità e sui pregiudizi ancora attuali, la narrazione ci fa sentire la fame di allora, le violenze di allora, i soprusi, le ingiustizie, i roghi, e tutte i mali di cui è intriso il romanzo.
Un’opera al nero, dunque? C’è, sì, tanta disperazione, nell’anima e nei corpi; corpi straziati, quelli di Zelda e Malvina, per l’ignoranza o l’avidità di chi si fa grande con il dolore altrui. E’ raccontato così bene però il male! Siamo costretti a sostare sui dettagli, ma senza compiacimento, a cogliere ogni sfumatura, senza stanchezza. E con una tensione che non accenna a sciogliersi, ci auguriamo il riscatto, che prima o poi deve arrivare, perché la vita non può essere solo un gioco a perdere. Le nostre protagoniste sembrano votate invece alla sofferenza ad ogni costo, derise, offese nel pudore, seviziate nelle fibre più intime.
Molte le persone orrende, unte nei capelli e nell’anima, cattive nello sguardo e nelle azioni, misere e disgustosamente parassite: un mondo di piccinerie e grandi efferatezze. Cremonini inventa i suoi personaggi e lui stesso si vendica della loro sgradevolezza con i soprannomi che meritano. Non salva neanche i preti, anzi i pretozzi: Don Cornacchia e Don Pegora.
Attraverso la comunità, ribattezza tutti con nomi che nati da un difetto fisico o del carattere si fanno definitivi: Pero per una voglia in faccia a forma di pera o Fagnent che non ha voglia di lavorare, e tanti tanti altri. Coloro che segneranno il destino di Zelda e di Malvina portano addirittura nomi dell’Aldilà: Diavolo, Angiolo (che ha poco di etereo se non i capelli chiari), Inferno.
Eppure, oltre al candore delle due protagoniste, per fortuna Cremonini ci regala qualche figura femminile che un po’ compensa l’orrore. Più di tutte la Lupa e la Giordanina; hanno scelto la solitudine, la prima isolandosi sui monti, l’altra vagabondando, un andare per paesi senza marito e senza figli, a nutrirsi degli incontri che capitano sul cammino.
La Lupa, solo nel nome simile a quella verghiana, è una donna che continua il lavoro e la tradizione della madre: curare la terra e le persone con i segreti delle erbe. Ha qualcosa del mito questa figura, che di nome vero fa Angiolina, ma il suo nome lo hanno dimenticato tutti gli abitanti del paese, dai quali rifugge per scelta di solitudine. Lo ha dimenticato persino lei. Fatica a parlare la Lupa in un primo momento, troppo a lungo rimasta in silenzio, ma è capace di quasi sorridere e di toccare la bimba, Malvina, delicatamente; anche di augurarle il futuro della malva, che mai si strappa, perché lasciando le radici ricresce e fa tanto bene!
La Giordanina invece è La donna della roba corta; credo che con lei Cremonini abbia scritto il capitolo più bello. Arriva una volta all’anno non si sa da dove, portando con sé il fascino esotico della bella straniera. Il desiderio che si legge negli occhi degli uomini non rende gelose le donne, che anzi fanno a gara per ospitarla. Offre piccole oggetti femminili: bottoni, aghi, ditali, stoffe, ma anche storie consigli ricette.
E lo stupore si rinnova ogni volta che la Giordanina svuota la sua gerla di tesori; una specie di Melquiades al femminile, che non ha il potere però di tornare dal mondo dei morti. Perché, ahinoi, c’è poca immaginazione nei personaggi di Amanita; ma una religione delle cose che fa quasi male al cuore.
Così come alcuni gesti di benevolenza sanno regalarci la gioia di una carezza: è la carezza vera di Giordanina, è la grazia con cui la Lupa sa maneggiare la bimba dai “tre tettini”, è lo sguardo buono di suor Primina (altro dolce personaggio che appare per poco), è l’affetto della madre di Malvina che la invita a rotolarsi sull’erba bagnata la mattina presto del giorno di San Giovanni, perché fa bene alla salute.
Verrebbe quasi da dire che la confidenza e l’affetto esistano solo tra donne, ma poi ci sono anche quelle “acetose”, “sgraziate figure dalla carnazza traballante” e quindi non c’è consolazione al femminile. Né può esserci una conclusione riparatoria, perché la casa del ritorno non è quella del nespolo come nei Malavoglia, simbolo di una vita che continua, se pure a caro prezzo.
E’ come se Cremonini ci dicesse, insieme a Gibran che “siam tutti prigionieri, ma alcuni stanno in celle con finestre, altri senza”. E aver murato le nostre donne nel pregiudizio o nel ricordo del dolore, non può che avere un senso: quello appunto di dirci che ci sono dolori incontenibili, soprattutto quando non si intuiscono finestre, vie di fuga, aperture di sorta. Non c’è libertà quando, per dirla con la crudezza dell’autore, “Solo i ricchi, il tempo e il culo fanno quello che vogliono”!